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Ho invitato Lucia da me per lavorare sul copione dell’Orlandino. Non vedevo l’ora di farle vedere camera mia e adesso tutto mi sembra inadeguato, a partire da me stesso.
Lucia è vestita di sé. È una sua caratteristica la semplicità piena. Grazie a lei ho imparato la differenza tra una ragazza che si mostra e una che si manifesta. La prima interpone tra sé e gli altri una dimostrazione di chi vuole essere e prima di aver a che fare con lei devi superare alcuni strati di insicurezza dissimulata; la seconda non è protetta da nessuna dimostrazione, si limita a essere l’opera di se stessa. Non ha altro da aggiungere. Lucia non si trucca. Lucia ha la pelle descritta nei canzonieri arabi medievali, l’arte delle spezie e l’esotismo inconsapevole di questa terra. Forse la sto idealizzando, è tutta colpa di Petrarca. Ho ancora paura a dirlo, ma credo che ’l nome che nel cor mi scrisse Amore è il suo. Lucia di luce calma, di ombre fresche. Di acqua pulita in giorni di sete. E sei nella mia stanza, nel mio porto. Ora che guardi tutte le mie cose, capisco quanto sono misere e quanto poco ho da offrirti. Ma puoi approdare qui, in questo piccolo porto tranquillo.
«Sono tutti tuoi?»
«Sì.»
Li saggia uno a uno. I miei libri. Sottolineati, orecchiuti, sgualciti. Con i libri io ci lotto.
«Perché sottolinei le frasi?»
«Per ricordarmele.»
«Tu vuoi far stare tutto dentro la tua testa.»
«È sbagliato?»
«No, ma credo che la vita sia più grande di quello che può entrare nella nostra testa. A volte sembra che tu voglia scomporre le cose in tanti piccoli pezzi per averli sotto controllo.»
«Non mi pare così male.»
«Ma è impossibile. Non puoi controllare tutto.»
«Forse è solo un po’ di paura.»
«Di cosa?»
«Non lo so.»
«Ecco i tuoi “non lo so”. Si arriva sempre lì. Mi fai ridere.»
«Meglio che piangere.»
Lucia sorride.
«Quali sono le tue cinque parole preferite, Lucia?»
Non sembra sorpresa da questa domanda. Ci pensa. Prende uno dei miei libri, lo apre e con una matita scrive qualcosa. Poi si volta di scatto e mescola il libro agli altri.
«Dovrai cercare. Allora, ci mettiamo al lavoro? Ho un problema sul finale e alcune rime non tornano. Ti faccio vedere.»
Cerco di memorizzare la zona dei libri coinvolti nella caccia al tesoro e poi mi concentro sul copione scritto a mano da Lucia.
Entra mia madre, con una brocca di tè freddo.
«Chi è questa bella ragazza?»
«Lucia.»
Lucia si alza e le stringe la mano, con un sorriso.
«Ha una bellissima casa, signora. Piena di stanze, di cose, di luce.»
«Grazie» risponde mia madre, non del tutto sicura di aver capito. «Sei una compagna di Federico? Non credo di averti mai vista.»
«No. Sono un’amica. Ci siamo conosciuti a Brancaccio.»
«Ah, sei di Brancaccio. Federico non ci parla mai di quello che fa lì. Sappiamo solo che per venire a dare una mano ha rinunciato al suo viaggio in Inghilterra. Ma cosa state combinando di così interessante?»
«Lo chieda a suo figlio» ribatte Lucia seccamente.
«Ah… va bene. Io vado, buon lavoro, ragazzi. Scusate se vi ho interrotti.»
Rimaniamo in silenzio.
«Perché vi sentite superiori?»
«Cosa?»
«Hai sentito cos’ha detto? Il “suo viaggio in Inghilterra”, “ha rinunciato”… come se fossimo malati da aiutare.»
«Non credo intendesse questo. Voleva solo…»
«Voleva solo sottolineare che sei venuto a farci l’elemosina. Ce la cavavamo anche prima, sai?»
«Stai esagerando. Tu mi hai detto di non giudicare, però lo stai facendo.»
«Non sto esagerando. Siamo troppo diversi, Federico. Non basta avere tante stanze o tanti soldi per essere migliori degli altri. Io in Inghilterra, se mai ci andrò, lo farò con i miei soldi, e Dio solo sa quanto mi ci vorrà. Voi avete sempre la pappa pronta. E poi vuoi insegnare agli altri come si vive. È troppo facile così…»
«Io non voglio insegnare niente a nessuno. A stento so cosa devo fare io. Sono venuto perché me lo ha chiesto don Pino. Aveva bisogno di una mano.»
«Lo so, e tu hai fatto bene a dirgli di sì, ma non voglio più sentir parlare di rinunce e viaggi in Inghilterra.»
La Lucia dei miei sogni letterari si sta trasformando in un pezzo di ruvida realtà. E io, invece di odiarla per quello che mi ha appena detto, sono pronto a cambiare, a migliorare, a trasformarmi.
«Io non ho bisogno di niente, Federico.»
Le appoggio il dito sulle labbra perché taccia, poi sulla guancia.
Si blocca, sorpresa, e per un istante adagia il viso sul mio palmo. Per la prima volta faccio esperienza di una carezza. E nessuna carezza descritta nei libri valeva la metà di quel contatto.
Puntuale e opportuno come una medusa mentre fai il bagno, si affaccia Manfredi. Sapevo che l’avrebbe fatto.
«Scusa, Federico, mi servirebbe la mia chitarra. Ah, scusate, vi ho disturbati. Non sapevo fossi impegnato.»
«Lei è…»
«Lucia, immagino.»
Lucia sorride per quell’ingresso tempestoso e per il sorriso contagioso di Manfredi.
«Mio fratello non fa altro che parlare di te, e scommetto che quando non ne parla ti pensa.»
«Smettila», cerco di allontanarlo, mentre il sangue si concentra prima sulle mie guance e poi su quelle di Lucia.
«Allora, la chitarra?»
«Ecco, la chitarra…»
«Sì, la chitarra. Quella cosa ovale con un manico e le corde. Ti ricordi? Ne avevo una e te l’ho prestata. Ora la vorrei per suonare un po’.»
«Sì. Al momento non è disponibile.»
«Vorrebbe dire?»
«L’ho prestata a quel bambino di cui ti ho parlato.»
«Prestata? La mia chitarra? Ma sei impazzito?»
«Sì, è impazzito. Io gliel’ho detto, ma tuo fratello ha un cuore troppo grande e quando ha visto quanto era felice quel bambino non se l’è sentita di portargliela via.»
Manfredi rimane interdetto di fronte alla scanzonata fierezza di Lucia.
«In fondo è un ovale con un manico e delle corde, no?» aggiunge lei sorridendo.
«Sì, però si dà il caso che sia mia.»
«Una ragione in più per essere orgoglioso! Pensa che bello se Totò troverà il suo talento grazie alla tua chitarra. Non credi?»
«Effettivamente.»
Non riesco a capire se quello che sta succedendo è reale o sono entrato dentro il migliore dei film possibili: Lucia ha appena conquistato Manfredi, come suggerisce la leggera fossetta apparsa sulla guancia destra di mio fratello. Se piace a lui è fatta.
«Tu cosa fai, studi?»
«Mi sto specializzando in Neurologia.»
«Di che ti occupi esattamente?»
«Mi piacerebbe diventare neurochirurgo. Studio e curo le patologie cerebrali. Il cervello.»
«Anche il Parkinson?»
«Certo.»
«Mio nonno ce l’ha. È costretto a stare sempre in sedia a rotelle, con la saliva che gli cola sul bavaglino. Ultimamente non si capisce neanche più cosa dice. Non so cosa darei per vederlo stare un po’ meglio.»
«Che terapia fa?»
«Non lo so. So che prende un sacco di pillole.»
«Adesso stanno sperimentando delle nuove cure per consentire una migliore gestione della paralisi progressiva.»
«Potresti venire a dare un’occhiata, magari ti viene qualche idea.»
«Sono solo uno specializzando, non un dottore.»
«Ma un giorno lo sarai. Non mi sembra tanto diverso.»
«In un certo senso… E tu cosa fai?»
«Studio alle magistrali per diventare maestra. Però mi piacerebbe fare anche altre cose.»
«Cosa?»
«Teatro.»
«Recitare?»
«No, regia. Anzi, sei invitato allo spettacolo che stiamo preparando con tuo fratello a Brancaccio, insieme ai bambini.»
Lucia ha appena spiegato in cinque battute quello che io non sono riuscito a raccontare in settimane.
«Anche lui? Non mi ha detto niente.»
«Nella parte di Carlo Magno. È perfetto», Lucia pronuncia le ultime parole con solennità, poi alza gli occhi al cielo.
Mio fratello scoppia a ridere.
«Ma se ha ancora paura del buio» rincara Manfredi.
«Ogni re ha una debolezza» risponde Lucia.
Si sorridono, mentre io li guardo ammutolito.
«Insomma, devo venirci di persona a riprendermi la chitarra.»
«Mi sa di sì» dice Lucia.
«E sia. Vi lascio. Con te facciamo i conti dopo.»
Mentre se ne va, approfittando del fatto che Lucia gli dà le spalle, mi guarda sgranando gli occhi e mi rivolge segni eloquenti di approvazione come se avessi segnato un goal ai Mondiali.
«Dove eravamo rimasti?» chiede Lucia.
«Qui», metto la mano sulla sua guancia e lascio che lei ci poggi sopra la sua.