19
Sono fermo da mezz’ora davanti alla libreria e cerco qualcosa per Lucia. Voglio prestarle uno dei miei libri, ma non so quale. Sarà il libro a scegliere lei. Chiudo gli occhi, giro su me stesso, tre volte verso destra, due verso sinistra, altre quattro verso destra e una verso sinistra. Sempre a occhi chiusi sollevo il braccio destro e lo punto verso gli scaffali: l’indice si scontra con un dorso. Apro gli occhi. Il mio Petrarca. Il Canzoniere, chi meglio di lui. Lo ficco nello zaino e mi avvio verso Brancaccio. Petrarca a Brancaccio non c’è mai andato, questo è certo. Almeno ho un primato nella storia della letteratura: ce l’ho portato io.
Il pomeriggio avanza lentissimo, come gli addii, i minuti si srotolano, ripetitivi come la risacca. Don Pino mi ha chiesto di arbitrare una partita di pallone, mentre lui sbriga delle faccende in chiesa, ci raggiungerà a breve. Niente galvanizza questi bambini come essere arbitrati. «Nessuno li guarda mai» mi ha detto don Pino. «E un bambino non guardato è un bambino perduto» ha aggiunto. Devo solo dare il via alla partita.
Il campetto sghembo e assetato dal sole è fitto di ragazzini che fremono. Ho un fischietto, oggetto dal potere catalizzante.
«Colorati contro bianchi!» sentenzio, forte delle mie esperienze calcistiche a scuola.
«E tu chi sei?»
«Uno studente di don Pino. Oggi faccio l’arbitro.»
Devo aver commesso un errore. Lo intuisco dagli sguardi indifferenti. Non ho detto il mio nome.
«Noi vogliamo a don Pino. Che minchia c’entri tu?»
Dissimulo il fastidio per quest’accoglienza, ma il tono della voce mi tradisce.
«Mi ha chiesto lui di sostituirlo. Dài, non fate tante storie.»
«Talia a chistu. Nuddo miscato cu’ niente e dà ordini. Ma poi come parla? Pare italiano…»
È l’istinto a suggerirmi una via d’uscita. Comincio a palleggiare con piedi, testa, petto e ginocchia. Mi guardano ammirati. L’ho detto che sono un campione?
«Miii, sei bravo! Chi te lo ha imparato?»
Continuo.
«Nessuno. Cinquanta. Vediamo chi ne fa di più.»
Un ragazzino si fa avanti e mi strappa il pallone. Inizia a palleggiare. Ha i capelli dritti come un rastrello. Le gambe e le braccia magrissime non sembrerebbero capaci di produrre quei movimenti straordinariamente morbidi.
Raggiunge cinquanta e ne fa uno in più. Poi si ferma e mi restituisce il pallone.
«E così te la chianti.»
«Sei meglio di me. Bravo! Come ti chiami?»
«Riccardo.»
«Bene. Riccardo è un capitano. Chi è l’altro?»
Si fa avanti un ragazzo con i guanti da portiere. Nessuno osa contraddirlo.
«E tu come ti chiami?»
«Gaetano. E le squadre le decidiamo noi. Non c’entrano niente i colori delle magliette, queste sono cose di femmine.»
Se la giocano a pari e dispari e scelgono i compagni di squadra come manager consumati. Manca solo l’inno nazionale.
«Testa o croce?»
«Croce.»
«Croce. Palla o campo?»
«Palla. Il campo fa comunque schifo.»
Fischio, e l’aria precipita nel caos sotto un cielo amaro e giallo di sabbia e scirocco. Con le loro magliette subito impregnate di sudore e polvere, i bambini inseguono un pallone-miraggio nella luce marina del pomeriggio di giugno. Il loro strepito di parolacce e bestemmie assorda la piazza.
Li guardo e vedo sorrisi, cicatrici, gambe e braccia frenetiche, abbracci, sgambetti.
Il ragazzo non conosce ancora le storie di questi bambini dai nomi brevi come titoli di biografie, che al loro interno custodiscono già centinaia di pagine di dolori e qualche riga di gioia. Vede bambini giocare a calcio, come ha fatto migliaia di volte anche lui. Non può vedere tutto, è troppo presto.
C’è Dario, con gli occhi foderati di malinconia. Non dice una parola. Il padre è in carcere e la madre deve lavorare per dar da mangiare a lui e ai suoi fratelli. E la madre non lo sa che cosa succede a Dario quando non va a scuola, o non lo vuole sapere. Nessuno lo sa, nessuno lo vuole sapere. È proprio Dario a segnare un goal, tutti lo abbracciano e lui ricambia. E ride nell’abbraccio sincero.
Poi c’è Riccardo. Il ragazzino più intelligente di Brancaccio. È quello con i capelli neri a rastrello, sembrano scolpiti. È veloce di gambe e di cervello. Ha sempre la battuta pronta. Osserva e sa tutto ciò che accade nel quartiere. Basta chiedere a lui chi spaccia e chi si droga, chi va a scuola e chi no, chi se la fa con chi. Gli altri bambini gli obbediscono perché ha la parlantina furba, da mercante di informazioni. È destinato a diventare qualcuno, starà a lui decidere chi. La sua è una famiglia implicata negli affari mafiosi.
Una volta ha visto un ragazzo morto di overdose. Era riverso in mezzo ai suoi escrementi in un vicolo solitario, con gli occhi rovesciati indietro e una siringa sporca di sangue accanto. Era rimasto almeno dieci minuti a guardare l’inferno, poi se n’era andato a tremare da solo e don Pino lo aveva trovato così, raggomitola-to e tremante, e lui gli aveva raccontato tutto. Aveva chiesto dove era finito quel ragazzo morto. Don Pino gli aveva parlato del paradiso e dell’inferno, gli aveva confessato che lui non lo sapeva. Riccardo aveva ribattuto che lui voleva andare in paradiso e don Pino gli aveva proposto di andarci insieme. «Perché tu sai la strada, don Pino?», «Sì.»
Ecco perché Riccardo va al centro Padre Nostro e a giocare a calcio, perché don Pino conosce la strada per andare in paradiso. E pure quale autobus bisogna prendere. Così ha detto.
Poi c’è un ragazzino impacciato, lo chiamano Totò. Non si sa se venga da Antonio o da Salvatore. Lui si chiama Totò, come suo nonno. Il padre è un operaio e la madre una parrucchiera. Una di quelle famiglie che lavora in silenzio e cerca di educare i figli come può. Totò sa stare a tavola con la forchetta e il coltello, al contrario della maggior parte dei suoi amici. Totò va a scuola ogni giorno. Ha anche il grembiule, e lo prendono in giro. Lo sfottono perché da grande vuole fare il direttore d’orchestra. Lo ha deciso dopo aver visto in tv un signore vestito di nero che agitava una bacchetta e tutti gli strumenti gli obbedivano. Quell’uomo con i capelli al vento e gli occhi chiusi sembrava perso in una cosa bellissima. E gli altri obbedivano a questa cosa bella. Per Totò la musica è una cosa bellissima. A calcio è una schiappa, ma a cantare è il migliore. Lo prendono in giro perché il suo è un sogno da femmine. «Io da grande mi compro una pistola e uccido tutti gli sbirri di Palermo» gli ha detto un suo compagno di classe. Altro che bacchetta e musica.
Il ragazzo li guarda giocare e, ignaro delle loro storie, vede ciò che a Brancaccio manca rispetto a dove abita lui: è lo spazio per l’immaginazione. Lo spazio per i desideri, che si spalanca nelle notti d’agosto, quando cadono le stelle e il mare sembra poterne restituire una da un momento all’altro. Quel frammento d’asfalto, delle dimensioni di un campo da calcio sghembo, non è sufficiente a salvare i desideri.
La squadra che è sotto di un goal pareggia. Ma gli avversari protestano per un fallo con il quale l’attaccante si sarebbe impadronito del pallone. Il ragazzo convalida il goal e i bambini lo aggrediscono a parolacce.
«Arbitro venduto.»
«Cornuto.»
«Tua madre è una grandissima buttana!»
Il passo dalla gioia al panico è brevissimo.
Sento il sangue agitarsi sotto la pelle. Come si permettono? Espello il ragazzino che mi ha insultato. Si allontana in silenzio, ma non appena gli volto le spalle mi sorprende comparendomi davanti all’improvviso e sferrandomi un pugno sulla faccia, sotto il naso.
Il bambino ha una decina d’anni. E per quanto i suoi occhi mi arrivino a malapena al mento, il pugno esploso dal basso verso l’alto con la forza del salto mi spacca il labbro. Mi passo una mano sulla bocca e la trovo piena di sangue. Soltanto una volta mi è successo qualcosa del genere: era un pallone da basket fortuitamente scagliato sul mio naso, che da quel giorno è rimasto un poco asimmetrico. I pugni in faccia avevo sempre creduto fossero retaggio dei film, non saprei neanche come dame uno, figuriamoci riceverlo.
Gli altri mi si stringono attorno. Il dolore morde l’anima e le labbra, ma la rabbia prende il sopravvento. Qualcosa dentro di me sta decidendo cosa fare senza consultarmi. Entrano in campo anche i bambini che aspettano il loro turno per giocare: vogliono vedere come va a finire.
«Ma chi ti credi di essere? Arrivi qui, dalla tua bella casa a Palermo, con le tue scarpe di marca… e butti fuori dal campo a me, che qui ci sono nato? Ma perché non te ne torni da quella buttana di tua madre?»
Quel qualcosa dentro di me agisce. Afferro la maglietta del bambino e lo scuoto, spingendolo a terra. Gli metto un ginocchio sul petto e minaccio di colpirlo. Io mi guardo fare questo.
Il ragazzino si dimena e mi tira calci. Poi mi sputa addosso.
«E adesso vattene via, altrimenti ti do il resto» gli grido contro.
«Provaci e io ti ammazzo. Tu ordini non ne dai, qui. Capito? Sei tu che te ne devi andare, sennò chiamo a mio padre e vediamo come finisce.»
Rimango fermo, in silenzio. Quel qualcosa dentro di me respira più lento. Tanti occhi mi guardano, occhi simili a randagi pronti a difendersi da un estraneo. Le braccia mi crollano lungo i fianchi, disperate. Abbasso lo sguardo. Butto via il fischietto con disprezzo e mi allontano.
«Andatevene affanculo, voi e il vostro quartiere di selvaggi!»
In quel momento arriva don Pino.
«Che succede?»
«Che succede? Questo succede!» urlo e gli mostro il labbro.
«Chi è stato?»
«Io non c’entro niente con questo posto. Ho sbagliato a venire. E se lei fosse stato qui non sarebbe successo, cazzo!»
Don Pino tira fuori dalla tasca un fazzoletto e me lo dà.
Si dirige verso i ragazzini.
«Che è sta storia? Chi è stato?»
«Io. Sta testa di minchia arriva e crede di comandare.»
«E ti sembra il modo di fare?»
«Non ce lo vogliamo, qui.»
In molti annuiscono e aggiungono commenti aspri. Basta, me ne vado prima che quel qualcosa dentro di me si trasformi in lacrime. Ma Totò mi blocca il passo, mi porge un bicchiere d’acqua per pulire la ferita, porta sempre con sé la borraccia quando va a giocare a calcio. L’acqua è tiepida, fa bene al cuore più che al labbro.
«Devi stare attento. Quello fa venire vero suo padre…»
«E chi se ne fotte. Magari suo padre l’avesse educato come si deve…»
«L’ha educato come hanno educato lui» interviene una voce femminile.
Lucia.
Non mi ero accorto di lei. Mi guarda senza clemenza.
«Mi ha spaccato il labbro. Adesso la colpa è mia…»
«Qui si viene educati a difendersi e basta. Se non vuoi diventare una vittima devi attaccare, non puoi essere umiliato davanti agli altri. Sono cresciuti così. Non è cattiveria, è la loro vita.»
«Le persone normali non fanno così…»
«Le persone normali che crescono qui sono normali così. Tutto quello che tu ritieni normale qui non esiste.»
Dopo aver riavviato la partita, don Pino si avvicina. I bambini dimenticano in fretta.
«Che ci fai qua, Lucia?»
«Le ho portato il solito panino. Altrimenti lei si dimentica di mangiare.»
«È colpa del caldo. Con il caldo mi passa il pititto.»
«D’inverno è perché c’è freddo, d’estate perché c’è caldo… ha sempre una scusa lei per saltare i pasti o per mangiare quattro porcherie.»
Gli passa una busta di plastica. Dentro c’è un panino avvolto nella carta stagnola. E un po’ di frutta.
Don Pino sorride e prende la busta.
«Grazie.»
Osservo la scena e mi sento un astronauta sbarcato su un pianeta alieno, o un esploratore che scopre una terra nuova, ma non vergine come credeva.
«Andiamo, ti accompagno a prendere la bici.»
Prima di incamminarmi mi giro in direzione di Lucia. Mi dà le spalle, ma poi si volta e mi fissa per un attimo, amareggiata e ferita.
«Non giudicare quello che non conosci. Che te ne fai di andare al classico se non impari questo?»
Chiudendo lo zaino, vedo il libro che avevo portato per lei.
Non basta leggere libri per essere uomini.
Non bastano pensieri buoni per essere uomini buoni.