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La camera ardente è gremita di bambini.
Mi chino sul corpo di don Pino. Sorride anche adesso che la vita è uscita. Ho ancora troppe domande, quasi lo odio per essersene andato così presto.
Tu che mi hai aperto lo spazio tra il cuore e la testa.
Tu che mi hai svelato che il coraggio è di chi sa di essere debole. Tu che mi hai tolto dagli occhi le squame della noia. Tu che mi sei stato maestro e amico.
Poggio la testa sul cuore di lui per calcolarne l’area e ha l’ampiezza di tutta la città. Piango come un bambino che ha perso suo padre.
Alzo lo sguardo sugli altri bambini, quelli veri. Nessun padre può averne tanti in una vita sola e sono tutti lì, come solo loro stanno davanti alla morte. In silenzio, in attesa che il morto si alzi e ricominci a camminare. Solo i più maturi si lasciano andare al pianto, i più piccoli chiedono dove sia andato, ma non si accontentano di sapere che è in paradiso. Vogliono sapere dov’è per andarlo a trovare, o almeno fargli una telefonata. Riccardo lo fissa senza una lacrima, perché ora don Pino gli ha svelato quale strada prendere per andarci, in paradiso. Senza dire nulla si allontana.
Francesco stringe la mano a padre Pino e non si stacca.
«Mi avevi promesso di farmi vedere un miracolo. Le promesse si mantengono. Si mantengono!» ripete.
Totò tiene le braccia conserte e con la testa china piange dentro gli occhiali. Poi mi si avvicina e mi chiede: «Perché Dio invece di far morire le persone e fame di nuove non si tiene quelle che ha?».
Cerco invano la risposta, mentre osservo quei bambini, pezzi di un vaso rotto. C’è più amore nel rimettere insieme i frammenti che nel dare per scontata l’integrità di un vaso, che, riparato, acquista un’inspiegabile nuova bellezza, più simile alla vita. Ci vuole qualcuno che veda nel pezzo rotto la bellezza. Li guardo uno a uno e siamo tutti orfani di un padre la cui paternità superava il sangue, ma che col sangue si è svelata. I ricordi stanati dal dolore mi si aggrappano al cuore come polpi nei giorni di mare grosso, ogni movimento lacera la carne.
Quando don Pino entrava in classe noi avevamo sete di sorprese. Gli altri professori seguivano il programma. Per lui il programma eravamo noi, con le nostre vite e le nostre domande, e non c’era domanda che venisse respinta. Cominciava ogni lezione leggendo un brano della Bibbia, poi ci chiedeva che esperienza avessimo noi di quel che aveva letto.
Mi ricordo quando aveva parlato del ladrone assassino morto sulla croce accanto a Cristo, che gli chiede di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo regno e riceve la garanzia di aver già conquistato il paradiso.
«È l’unico uomo di cui sappiamo con certezza che è in paradiso.»
«Un ladro e assassino?» mi ero ribellato io.
«Sì, ma a differenza degli altri uno che riconosce l’innocenza di Cristo e la propria colpevolezza, e chiede almeno il privilegio di un ricordo da parte di quell’uomo che muore accanto a lui, con gli stessi dolori, ma sereno.»
«Sto Dio è troppo buono. Il posto d’onore lo regala a un ladro…» avevo scherzato.
«Come ladro non era niente male: è riuscito a rubare il paradiso…» aveva replicato don Pino. In molti avevamo riso, ma la sua non era una semplice battuta: «Il ladrone era un assassino, uno che era finito lì per le sue colpe. Uno che si era ritrovato accanto a Dio come conseguenza delle sue azioni. Proprio il suo vagabondare nel male lo ha portato al posto giusto, dove ha trovato pace e perdono».
Non ci dava soluzioni, ma lasciava che quelle parole affondassero nel cuore e rimanessero lì, per chissà quale ora della nostra vita futura.
Ricordo la volta in cui abbiamo parlato di sesso. Sì, con un prete e in classe.
«Non è il corpo a contenere l’anima ma il contrario. Pensate a una carezza o a un sorriso. Forse una mano potrebbe fare una carezza, e gli occhi un sorriso, se non fossero dentro un’anima?» Dopo una pausa durante la quale tutti avevamo pensato ai nostri gesti, aveva aggiunto: «E se esiliamo l’anima, il corpo diventa orfano e i suoi gesti si riducono a maschere».
Leggeva i giornali di ogni orientamento politico. Partiva da uno spunto di cronaca. Non si tirava mai indietro rispetto alla realtà, non risparmiava l’attenzione sulle cose più scomode, portava il mondo in classe e non cercava di escluderlo, come altri professori. Aveva il coraggio che raramente ho visto negli adulti.
Rivedo tutto con la nitidezza esagerata di chi pigia troppo sul contrasto del telecomando. Chi amava questo quartiere e questa città come don Pino? Non aveva perimetro il suo cuore, abbracciava ogni persona che aveva incontrato e trasformato.
Non ti lascio solo. Questo mi hai chiesto. No, non ti lascio solo.
Togli l’amore e avrai l’inferno, mi dicevi, don Pino.
Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è.
L’amore è difendere la vita dalla morte. Ogni tipo di morte. Mi tornano in mente come una litania le tue frasi, ora che ne sento già la mancanza.
Non mi lasciare solo, tu. Non mi lasciare.
Poi accade quello che nessuno poteva prevedere.
I bambini si stringono attorno al corpo di don Pino.
Totò comincia all’improvviso, nel silenzio. Recita i versi, uno dietro l’altro.
Senza maschere, senza costumi, perché non ce n’è più bisogno.
A loro interessa che don Pino sia il loro unico spettatore, nel giorno della sua nascita.
Nulla potevan le spade di Gano
contro l’astuzia del prode Orlandino,
senza il cervello il braccio è vano,
sconfigger non può il prode bambino
che con i suoi amici ha un piano
e l’aiuto del vecchio mago Pipino.
Così preparatevi a ogni sorpresa:
di chi è la vittoria, di chi la resa?
Il volto sorridente di don Pino sembra approvare e rivela che la felicità non consiste nell’allungare la vita, ma nell’allargarla.