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Don Pino si osserva le scarpe sformate, gli ricordano quelle che riparava suo padre, quando comprarle nuove era un lusso. La luce del pomeriggio abbraccia le strade meno ferocemente e molti si godono l’aria mitigata, chiacchierano davanti alle case, seduti sulle sedie del soggiorno, inadeguate all’aria aperta ma comode. Polvere. Basilico e menta. Bucato steso. I giovani danno inizio al loro rituale: passeggiare avanti e indietro lungo la piazza e le vie principali, per vedere ed essere visti. Lo struscio. Quello sfregare la strada, ma ancora più quello sfregarsi con gli occhi, più che con i corpi, con il movimento antico del contadino che ara un campo, su e giù, giù e su, seminando parole, casa di ogni pettegolezzo, novità e comando; e sguardi per ribadire le gerarchie. Con le parole e gli sguardi si fa e si disfa tutto in questa città. Il resto è silenzio.

Don Pino calpesta quella stessa piazza e quelle stesse strade e cerca lo sguardo dei ragazzi. Alcuni lo distolgono, altri lo prendono in giro, altri ancora gli sorridono. Qualche bambino gli si mette accanto e gli tira i pantaloni per chiedergli quando si mangiano di nuovo le pizze e le patatine.

Guarda gli occhi degli uomini e poi le proprie scarpe sformate. Che scarpe ci vogliono per camminare all’inferno? Nessuno lo sa. Lui forse sì, perché suo padre era un calzolaio e gli ha passato il mestiere con le mani e il sudore. Quante ne ha riparate… conserva gli strumenti di lavoro del padre come i ricchi conservano le posate d’argento e i gioielli. Forse non esistono scarpe adatte. Sa solo che bisogna fare come Dio, calzare le scarpe e la polvere degli uomini e camminare su e giù per le loro strade. “Prima di giudicare un uomo devi passare due settimane nelle sue scarpe” dice il proverbio. Questo aveva fatto Dio per trentatré armi, trenta dei quali trascorsi a piallare tavoli con mani e sudore d’uomo. E questo fa don Pino a Brancaccio dal 6 ottobre del 1990, giorno in cui è tornato nel suo quartiere natale. Ci aveva visto per la prima volta la luce il 15 settembre del 1937 e ci aveva pianto come tutti i bambini quando vedono la luce per la prima volta, quasi sapessero che sconteranno i nove mesi di caldo buio con anni di luce dolorosa. Voleva vedere, toccare, sudare sulle strade degli uomini del suo quartiere e loro dovevano vedere lui per quelle strade, a portata di mano e con le scarpe incrostate dalla stessa polvere.

Sa che in quella città si privilegia uno dei cinque sensi: la vista. In un porto tutti guardano tutti. In un immenso porto lo fanno immensamente e non bastano gli aggettivi a designare i vari modi di farlo. Qualcuno ha detto che i siciliani, con il loro sguardo penetrante, sarebbero capaci persino di ingravidare i balconi, e aveva ragione. Se uno sconosciuto ti osserva insistentemente gli dici “Che ci talii?”, cos’hai da guardare? Serve a definire il tipo di gerarchia tra gli interlocutori. Lo straniero ingenuo non è capace di guardare. Fissa. Chi è nato in Sicilia invece sa come si fa. Tutti guardano e vedono tutto, ma l’arte di vivere è vedere e dissimulare d’aver visto. E tacere, se hai visto troppo. Se vedi troppo puoi anche morirci.

Lui sa che deve fare il contrario: guardare, vedere, essere guardato, visto. Apertamente, a testa alta. E non far finta di niente se quello che si è visto è da cambiare. L’inizio dell’inferno è abbassare lo sguardo, chiudere gli occhi, voltarsi dall’altra parte e rafforzare l’unica fede spontanea che la Sicilia conosca, quella fatalistica e comoda del “tanto nulla cambierà”. La sua pace si nutre di questa guerra a ciò che è sempre uguale, all’ordine costituito, tenendo gli occhi ben aperti. Quante volte lo deve ripetere ai suoi bambini, ai suoi ragazzi: a testa alta, camminate a testa alta. Per quelle strade, quando alcuni passano, altri abbassano lo sguardo. La sottomissione oculare è regola di vita. Se guardi, stai lanciando una sfida. E lui guarda in faccia e negli occhi tutti.

Durante la guerra ha lasciato il quartiere; i muri e i tetti ne portano ancora cicatrici mal suturate. Ma da quando ci è tornato, lo ha attraversato in ogni vicolo per riappropriarsi della memoria e delle passeggiate con i suoi genitori, quando lo facevano dondolare sospendendolo in aria e fingendo di lanciarlo nel vuoto. E ne conosce gli uomini, come un mafioso controlla il suo territorio. In fondo è un “don” anche lui.

Tra quegli uomini c’è il Cacciatore. Don Pino lo guarda come guarda tutti gli altri e il Cacciatore ricambia, con i lineamenti di pietra. Don Pino è attratto da quegli occhi. Li cerca. Lo fissa, e gli sorride. Il Cacciatore si volta dall’altra parte. Non ha niente da rispondere a quel sorriso e gli si mostra indifferente, come se non avesse riconosciuto che era per lui. Quando qualcuno guarda il Cacciatore deve accennare un inchino col capo o tenere gli occhi bassi.

Don Pino è un don senza potere, non senza forza. Una forza disarmata, non superiore alla violenza - perché la violenza trasforma la carne - ma ulteriore alla violenza - perché la sua forza trasforma il cuore. La supera, non nello spazio, ma nel tempo. Solo il tempo può vincere lo spazio. Ci sono uomini che signoreggiano sullo spazio, ci sono uomini padroni del tempo.

Dipende dal dio a cui hanno scelto di votarsi.

Ciò che inferno non è
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