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Il giorno dopo la fine della scuola non si può sfuggire al rito del bagno collettivo a Mondello, i nostri Caraibi a portata di mano. È quello il vero ultimo giorno, quando a far lezione sono il mare, la sabbia, il cielo. A Mondello ci vado in bicicletta, anche se arriverò fradicio. Ma niente di più bello che buttare la bicicletta a un metro dalla riva e lanciarsi in acqua come un gabbiano in picchiata sulla preda. Risalgo via Notarbartolo, dove abito. Un quartiere di negozi dalle vetrine lucidate a specchio, palazzi struccati e puliti di fresco. La mattina qui è prodiga, scialacqua luce per le vie e per i giardini che si incastonano tra i palazzi come giada, smeraldo o malachite, in base all’ora. Dai marciapiedi esplodono alberi sproporzionati per un suolo di pietra e minacciano i balconi più alti, come l’enorme ficus davanti alla casa dove abitava Giovanni Falcone.

Tutto scende verso il mare, e il vento risale lungo la strada senza ostacoli. La mia strada si chiama così in onore di Emanuele Notarbartolo, che fu sindaco di Palermo e capo del Banco di Sicilia a fine Ottocento. La lotta contro la corruzione delle dogane gli costò ventisette pugnalate su un treno che lo portava a Termini Imerese. Probabilmente guardava tranquillo il mare, mentre il vapore macchiava il suo colletto bianco di nobile e politico impegnato, quando i sicari mandati dal suo collega deputato Palazzolo, vicino ai mafiosi che gestivano i traffici illegali, lo ammazzarono. La prima vittima illustre della storia mafiosa. Naturalmente senza colpevoli, se non gli accoltellatori.

E poi c’è la casa di Falcone, con l’albero carico di disegni e lettere.

Era sabato pomeriggio, il 23 maggio dell’anno scorso. Non lo dimenticherò mai. Eravamo tutti da Gianni, uno dei miei compagni di classe, che ha la villa al mare con piscina. Alternavamo tuffi acrobatici a fette di anguria, momenti di riposo sui lettini bianchi a granite al limone. Partite di pallanuoto e pallavolo acquatica e battaglie di calate, sino a far implorare pietà al malcapitato di turno. Riemergeva dall’acqua con il volto pallido per la mancanza d’aria e noi scoppiavamo a ridere e lo sfottevamo. Guardavamo le ragazze con i loro costumi aderenti e la pelle tesa come i tamburi di una guerra imminente. Tutto era sospeso e fuori dal tempo, come oppresso dall’attesa di qualcosa che sembrava non avvenire mai nell’alternanza autistica dei nostri gesti. Forse era soltanto l’estate in arrivo, con le sue promesse tutte da disattendere. L’acqua trasparente lambiva le mattonelle azzurrissime e i riflessi ci ipnotizzavano. Poi la madre di Gianni ci aveva chiamati ed eravamo rimasti in silenzio di fronte a immagini di un altro mondo, il mondo dei film apocalittici.

«Che film è?» aveva chiesto Enrico, sopraggiungendo dopo la doccia fresca con una Coca in mano.

Nessuno gli aveva risposto. Avevamo addosso i costumi gocciolanti e ci sentivamo nudi e inadeguati. Stavamo partecipando a un funerale in costume da bagno, e per di più era il nostro funerale, il funerale della nostra città. Un tratto intero dell’autostrada che avremmo solcato per tornare a casa era esploso, scagliando nel nulla Giovanni Falcone e quelli che erano con lui. Non erano immagini plausibili, così vicino. Dovevano appartenere a un altro spazio. Ma quando ci rendemmo conto che era il nostro spazio, ci rivestimmo e aspettammo in silenzio di tornare a casa.

Per la prima volta in quel momento mi sono reso conto che la vita dentro dei confini sicuri è soltanto un’illusione. Niente si sogna a diciassette anni più di una piscina, forse perché la vita comincia a sembrare così vasta che è meglio recintarla. Da allora la piscina mi sembra un surrogato al mare aperto, dove i marinai annegano. Eravamo nuotatori da piscina, noi, pesci rossi in boccia. Non ne sapevamo niente del mare e della sua crudeltà. Eppure continuo a sentirmi più sicuro in quell’acqua perfettamente illuminata, in quel parallelepipedo in cui tutto appare controllato e controllabile. Non onde, non gorghi, non correnti. Il senso asettico della tranquillità.

Attraverso la città e la mia bicicletta taglia la Favorita senza partecipare ai miei pensieri, troppo gravi per una giornata come questa. È incredibile che sia trascorso solo poco più di un anno. Gli alberi rinfrescano l’aria al mio passaggio, simili a odalische d’ossigeno. Il rettilineo finale si stende come un tappeto d’asfalto verso un’oasi.

Trovo tutti: Gianni, Agnese, Marco, Eleonora, Margherita, Leo, Giulia, Teresa, Daniele, Manuela, Alessio, Luigi… Vengo sollevato di peso ancora vestito e lanciato in acqua. È il prezzo da pagare quando arrivi in ritardo a un rito imprescindibile come il primo bagno dopo l’ultimo giorno di scuola. Poi sono giochi d’acqua, torri umane contro torri umane, schiacciasene, pallavolo, calate e nuotate a perdifiato. Sfiorare i corpi delle mie compagne mi ricorda che sono di sangue e carne, ma nessuna di loro è la ragazza della mia poesia.

«Che farai?»

«Vado in Inghilterra a fine mese.»

«Io vado in America.»

«Io alla casa di Pantelleria.»

«Io prima con i miei alle Eolie e poi all’Elba con degli amici.»

«Io faccio un viaggio in InterRail in Europa.»

«E che giro fai?»

«Palermo, Roma, Firenze, Milano, Venezia, Vienna, Monaco, Berlino, Parigi e ritorno.»

«Ma quanto ci vuole?»

«Quello che ci vuole. Noi partiamo, poi quando si arriva si arriva.»

«Bellissimo!»

«E tu che vai a fare in Inghilterra?»

«Vado al college dove è stato mio fratello. Sto un mese e mezzo lì a imparare l’inglese.»

«Come sta quel figo di tuo fratello?»

«Se la spassa. Ha la ragazza più bella del mondo, lavora nel posto più bello del mondo… che vuoi di più?»

«Certo che è stato proprio bravo.»

«Sì, e anche io voglio imparare l’inglese alla perfezione come lui.»

«Perché?»

«Per poter corteggiare almeno metà delle ragazze del mondo.»

«E l’altra metà?»

«Studierò lo spagnolo per i fatti miei. E se non basta anche il francese. Così dovrei coprire almeno tre quarti di mondo. Tenuto conto che le orientali non rispondono ai miei gusti, potrò ritenermi soddisfatto.»

«Quante cavoiate che spari, Federico.»

«Vedrai, vedrai.»

«E che farai all’università?»

«È presto per dirlo, ma certamente qualcosa di umanistico.»

«I libri ti hanno fuso il cervello. Ma che ci troverai di così interessante?»

«L’essenza della vita. Leopardi diceva che l’arte concentra sotto i nostri occhi ciò che in natura è disperso.»

«Che palloso che sei, sempre a complicarti la vita con queste teorie. Ma guardati intorno: mare, sabbia, sole, ragazze. E tu parli di Leopardi? Cosa ti manca?»

«Si vede che non hai mai provato lo spleen, tu» rispondo con aria intellettuale.

«E sarebbe? Una droga?»

«No, un cocktail.»

«E di che?»

«Quando il cielo pesa come un coperchio sull’anima. Quando ti piove dentro. Quando tutto questo o questo tutto che dici tu non basta mai.»

«Ma ti ascolti?»

«Ma dài, sto giocando.»

«Vedi come si finisce a leggere tutte quelle poesie?»

«Come?»

«Pieni di dubbi, di incertezze, di domande.»

«E a cosa serve la letteratura, sennò? A fare le interrogazioni o a fare gli interrogativi?»

«Boh, è nel programma. A cosa serve?»

«A liberarsi dei luoghi comuni. A non dare niente per scontato. A mettere alla prova gli schemi.»

«Tipo?»

«Tipo il conoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno.»

«Che sarebbe?»

«L’ultimo verso della prima poesia del Canzoniere di Petrarca.»

«No, ti prego, Petrarca no! Ancora ancora Dante, ma Petrarca no: l’autore più palloso nella top ten dei pallosi.»

«Ma non capisci?»

«Cosa?»

«Niente.»

Rimaniamo in silenzio. È uno di quei momenti in cui, proprio mentre sto scherzando, mi rendo conto di guardare tutto da lontano. Amo parole che mi allontanano dagli altri, do nomi a cose che gli altri sembrano non vedere. Allora mi ritiro tra le pieghe del silenzio e spero che qualcuno un giorno mi raggiunga là.

Un altro bagno lava ogni malinconia. Pranziamo con una brioche che è un equilibrio prodigioso tra gelato e panna, simile ai più grandi capolavori artistici. Lasciamo che il sole, la sabbia e il sale levighino le nostre vite così fresche. Di colpo mi torna in mente l’impegno che mi sono preso con don Pino, e c’è qualcosa di spigoloso in quel pensiero, come una sporgenza fastidiosa dentro l’anima, che comunque ti giri punge. E allora emerge l’ennesima domanda senza risposta, ne ho una scatola piena da qualche parte. Recupero il mio quaderno da poeta in erba e sulla prima pagina bianca che trovo scrivo con la mia grafia irregolare: “Cosa è tutta questa vita scomposta dentro di me a cui non riesco a dare nome?”.

Ciò che inferno non è
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