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I colori della giornata ricordano le tinte dell’atlante delle isole del ragazzo. Accade nei giorni di estate quasi esausta.

Tutto diventa primario ed elementare: i colori, i perimetri, le forme, la felicità. Lucia e il ragazzo passeggiano attraversando Villa Giulia, nello splendore quasi marino della Kalsa. Arrivano davanti alla statua del Genio di Palermo e ne osservano le fattezze, ignari della sua dolceamara essenza. Un dio pagano e antico, scettrato e coronato, con un serpente che si nutre del suo petto all’altezza del cuore. Evoca rinnovamento e ambigua rovina, con l’aquila della città e il cane, simbolo di fedeltà, accucciato ai piedi, con la Triscele, la testa di Gorgone a tre gambe che rappresenta la Sicilia come Trinacria, con una cornucopia accompagnata da una sintesi della città: “Palermo, regale e fedele, ha i doni di Pallade e Cerere”. Una definizione lusinghiera, specie se la si paragona al motto terribile che si trova come iscrizione nelle antiche rappresentazioni di questo nume tutelare: Panormus, conca aurea, suos devorat alienos nutrit, “Palermo, conca d’oro, divora i suoi e nutre gli stranieri”. Il Genio di Palermo, tutto porto e spasimo, riassunto in un’unica frase.

«Lo dice pure il Genio della città: qui ci sono i doni della vita.»

«Sei troppo ottimista.»

«No, sono realista, come don Pino. Sai chi erano i maestri d’acqua? Erano rabdomanti, antichi e nobili…»

«Che vuol dire “rabdomanti”?»

«Uomini che avevano il talento di sentire l’acqua nelle viscere della terra: sfidavano lo scirocco e la siccità e scovavano l’acqua. Non erano degli ottimisti, ma dei realisti. Così dobbiamo fare noi con questa città.»

Continuano a addentrarsi nel dedalo di vie, senza paura di perdersi.

Accade che un mercato accolga con la solennità di una cattedrale, così è per quello della Kalsa, uno di quei luoghi in cui il profano diventa sacro per eccesso di senso e di sensi.

I banconi sono carichi e le urla dei venditori coprono i discorsi. Ci vogliono occhi allenati per vedere le bancarelle del mercato, guardarle senza cercare il folklore, guardarle cercando il dolore.

La merce ruggisce. Frutti e fiori danzano un flamenco di colori, tra cielo e terra. Esplodono le angurie, rosse come se avessero intrappolato il succo della terra tutta. I limoni urlano il loro giallo e sono rugosi come la corteccia di un albero. Le zucchine verde pallido si snodano come serpenti innocui. La cesta dei merluzzi sembra piena di lune morte, le triglie infuocano il bianco del ghiaccio che le accoglie, le seppie e i polpi sembrano sul punto di sciogliersi, tanto sono freschi. Le carcasse degli animali paiono crocifissi appesi ai loro ganci. E penzolano le corone di aglio imitando gli impiccati e scongiurando le streghe e il malocchio. Peperoncini a mazzi insieme a gibbosi broccoli, mucchi di origano afrodisiaco, ceste di latta con dentro interiora innominabili. E spinosi ma dolcissimi carciofi e fichi d’india. E ceste traboccanti di olive di ogni colore e consistenza. Gli odori si mescolano e scavalcando rapidamente le narici arrivano dritti al cuore.

In quelle cassette e in quei banchi è custodita la storia di Palermo. Città d’ogni dolcezza, Zyz per i Fenici che la fondarono, il Fiore; Panormus, Tuttoporto, per i Greci e i Romani, che nell’unione tra mare e terra trovarono la sua essenza dolce e mercantile di molo infinito; Balarm per gli Arabi, che non rinunciarono a definirla come il porto che è, solo adottarono il nome ai suoni della loro bocca; Balermus, Perla del Mediterraneo, per Federico II, che la rese tale.

Troppo ricca e colorata e profumata per non subire saccheggi. L’odore e il dolore di questa città sono una sola cosa. Le bilance di ottone ossidato continuano a soppesare tutta quella merce e quella storia.

Non si può visitare quelle vie come un museo di curiosità, rimarrebbe un ricordo luminoso ma effimero. Chi guarda bene scorge dietro l’eden una polifonia di paradossi, uno spasimo continuo che a volte è vittimismo e a volte sacrificio.

Le loro mani si sfiorano, camminando fianco a fianco. Il vestito di lei si lascia condurre dai rari sbuffi d’aria che sgattaiolano tra i vicoli risalendo dal mare.

«Sono preoccupato per don Pino.»

«Perché?»

«Fa discorsi strani.»

«Quelli li ha sempre fatti.»

«È molto stanco.»

«Hai visto il segno che ha sulla bocca?»

«Sì. Mi ha detto prima che è stato il rasoio, poi che ha sbattuto…»

«Io non ci credo. Ho paura.»

«Mi ha chiesto di non lasciarlo solo.»

«Io spero che lui non lasci soli noi.»

Ciò che inferno non è
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