14

Mi sveglio in una camera d’ospedale.

La testa brucia come se un verme ci pascolasse dentro, l’occhio pulsa ed è bendato.

«Come ti senti?» chiede Lucia. Non credo di averla mai vista così preoccupata.

«In forma smagliante. Non si vede?»

«Non hai niente di rotto, per fortuna. Ti hanno dato i punti sul sopracciglio. Basterà un po’ di riposo.»

A poco a poco scopro le parti del corpo attraverso il dolore. Anche il ginocchio è fasciato.

«Chi mi ha portato qui?»

«L’ambulanza. Vuoi bere?»

«Mi hanno detto di starti lontano.»

«Chi?»

«Che ne so. Quelli che mi hanno preso a legnate. Uno si chiamava Nuccio. Tu devi venire via da lì, Lucia. Devi venire via. È un inferno. Devi iscriverti all’università. Potremmo andare in un’altra città. Io là dentro non ti lascio, non con quelle bestie. Questo sono, bestie.»

Lucia si avvicina con un bicchiere d’acqua.

«Hai ragione, è troppo pericoloso. Ma non è tutto inferno. L’inferno, come dice don Pino, è quando non si può più amare, quando non si può più dare qualcosa di sé e ricevere qualcosa dagli altri. Questo è ancora possibile.»

«Sono illusioni. Non ne vale la pena.»

«Infatti non voglio che tu venga più. Non devi venire mai più.»

«Vieni via anche tu.»

«Allora non hai capito, ancora? Quello è il mio quartiere. Lì c’è la mia famiglia. Non è scappando e facendomi la mia vita che posso essere felice. Non ci arrivi. Proprio non ci arrivi.»

«No, scusa se non ci arrivo e ho rischiato di essere ammazzato, ma proprio non ci arrivo.»

«Appunto, allora non venire più. Noi non dobbiamo più vederci. Mai più.»

Mette la bottiglia d’acqua sul comodino e se ne va senza aggiungere nulla.

«Aspetta, Lucia, aspetta!»

La porta rimane inerte e al dolore si aggiunge l’amarezza del peggior abbandono. Cerco di alzarmi per correrle dietro ma in quel momento entrano i miei.

«Cos’è successo?» chiede mio padre.

«Come stai, Federico?» urla mia madre.

Chiudo gli occhi, poggio la testa sul cuscino e mi sottopongo all’interrogatorio sentimental-razionale dei miei genitori. La parte razionale la cura mio padre, quella sentimentale mia madre. Insieme compongono un essere completo. La conclusione non detta di mio padre è che mi merito quello che è capitato, ma è fiero di avere un figlio con gli attributi. La conclusione ormai nota di mia madre è che questo gioco a fare gli eroi è finito, non metterò mai più piede in quel quartiere, parlerà lei con don Pino e mille altre cose che non ricordo, perché a un certo punto mi sono addormentato.

Mi sveglia mio fratello non so quanto tempo dopo, facendomi il solletico sotto il piede. Mi ha sempre torturato con il solletico. La sua tecnica preferita era bloccarmi le gambe sedendosi sopra le ginocchia, poi mi teneva ferme le braccia sopra la testa con una mano e con l’altra mi faceva il solletico sotto le ascelle. Rischiavo di soffocare dal ridere. Ero disposto a concedere qualsiasi cosa: apparecchiare e sparecchiare per un mese di fila, caricare la lavastoviglie, piegargli il pigiama e amenità simili. Quando mi liberava ero esausto come una balena spiaggiata.

Mi fissa e si mette a ridere.

«Sei veramente bello. Adesso sei proprio un poeta della Beat Generation.»

Sorrido, e dall’occhio parte una fitta che si irradia fino alla punta del piede.

«Smettila, non mi far ridere.»

«Se no che fai?»

«Ti deve venire un attacco di diarrea!»

«Se fossi una donna ti sposerei, Poeta. Sei il mio eroe. Ti sei fatto pestare per bene. Io non l’avrei avuto il coraggio.»

Sorrido, con più cautela.

«Se ti serve una mano per qualcosa finché sei ridotto così conta su di me, Kerouac da strapazzo.»

«Vai da Totò e insegnagli a suonare.»

Ciò che inferno non è
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