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La strada tace, nonostante tutto.

Alle finestre assediate dal caldo estivo qualche tenda scatta come un serpente lasciando entrare i soffi lenti e tenaci di scirocco. Qualche cane ciondola calpestando oasi d’ombra. Rari refoli di mare temperano la calura, persino la risacca digrigna affaticata.

Don Pino con le sue scarpe grandi alza la polvere che s’indora al tocco di tutta quella luce. Ha il passo rapido, non della fretta ma del ritardo, in una città che in ritardo lo è per costituzione. Si avvicina alla sua Uno rossa, divorata da sole e ruggine. Il bambino è seduto sul cofano con i piedi penzoloni. Ha sei anni, una maglietta bianca e un paio di pantaloncini sporchi, ai piedi ciabatte da mare e a casa Maria come madre acerba. E basta.

«Dove vai a quest’ora presto, padre Pino?»

«A scuola.»

«A che fare?»

«Quello che ci vai a fare anche tu.»

«A prendere a legnate i compagni?»

«No, a imparare.»

«Ma tu sei grande, devi imparare cose?»

«Più ne sai, più ne devi imparare… E tu non ci vai oggi?»

«È vacanza.»

«Sei sicuro? La scuola finisce oggi, ma oggi c’è, sennò finiva ieri…»

«La scuola finisce quando uno vuole.»

«E da quando?»

«Miii, fai domande troppo difficili tu.»

«E che fai qui?»

«Aspetto.»

«Cosa?»

«Niente.»

«Come niente?»

«Perché uno deve aspettare per forza qualcosa?»

«Questo!» gli dà un buffetto sulla guancia.

«Ma la tua scuola è di grandi?»

«Sì. Quelli di sedici, diciassette, diciott’anni.»

«E che cosa gli imparano a fare?»

«Gli insegnano, si dice, non imparano, le cose dei grandi.»

«Io le cose me le insegno da solo.»

«In questo caso si dice: le imparo.»

«Miii, che camurria! Imparare, insegnare: è lo stesso.»

«Ragione hai…»

«E tipo cosa imparano?»

«L’italiano, la filosofia, la chimica, la matematica…»

«E che ci fai?»

«Conosci i segreti delle cose e delle persone.»

«Ma per quelli ci basta Rosalia.»

«E chi è?»

«La parrucchiera.»

«No, a scuola si imparano segreti che neanche lei sa.»

«Non ci credo…»

«Peggio per te.»

«Me ne dici uno?»

«Sai che cosa vuol dire Francesco?»

«È il mio nome e basta…»

«Un nome, vero è. Ma è un nome antico, per quelli che venivano dal popolo dei Franchi.»

«E chi sono questi?»

«Quelli di Carlo Magno.»

«E chi è questo?»

«Francesco, con te non si finisce mai… I Franchi si chiamano così perché sono “liberi”: Francesco è un uomo libero.»

«E che vuol dire?»

«Te lo racconto un’altra volta.»

«E tu che gli impari ai tuoi ragazzi?»

«Gli insegno, si dice, gli insegno la religione.»

«E che ci fai con la religione?»

«Si conosce il segreto più importante.»

«Come si ruba senza farsi pigliare mai?»

«No…»

«E cosa?»

«Ah, se è segreto non te lo posso dire…»

«Ma io non sono sbirro. Non lo dico a nessuno.»

«Che c’entra… è che è un segreto difficile.»

«Guarda che devo fare sette anni io, le capisco le cose.»

«Allora poi un giorno te lo racconto questo segreto.»

«Promessa è?»

«Promessa.»

«Ma tu sai fare i miracoli?»

«No, io no. Io sono troppo piccolo.»

«Ma se hai centomila anni!»

«Cinquantacinque.»

«E non sono più di centomila?»

«Cornuto! Come ti permetti?»

«Ma se sei piccolo, perché hai i piedi così grandi?»

«Per camminare molto e andare dove le persone mi chiamano.»

«E le orecchie? Miii, ce le hai grandissime, don Pino!»

«Per ascoltare di più di quanto devo parlare.»

«Hai anche le mani grandi…»

«Ma non te ne va bene una a te?»

Don Pino sorride e gli poggia la mano sulla testa arruffandogli i capelli normanni. Come lo sono gli occhi azzurri, diamanti grezzi che i popoli del Nord hanno incastonato su pelli scure di arabi quando hanno strappato loro la città.

Francesco sorride, quegli occhi in cui la storia si è stratificata scintillano d’incanto.

«Miii, tu sai un sacco di cose, don Pino.»

«Dài, che devo andare, sennò faccio tardi.»

«Ma tu fai sempre tardi, don Pino…»

«Ma senti questo…»

«E la testa pelata? Quella perché ce l’hai così liscia?»

Don Pino finge di volergli dare un calcio nel sedere e si mette a ridere.

«Lo vedi questo sole bellissimo che abbiamo noi a Palermo?»

«Ma se siamo a Brancaccio!»

«Vabbè, è lo stesso… La testa pelata mi serve per riflettere la luce del sole. Così gli altri ci vedono meglio.»

Si abbassa per fargliela vedere da vicino, Francesco ci poggia la mano sopra.

«Miii, che dura, don Pino!»

«Per sfondare i muri più duri.» Sorride mentre gli parla e sembra un bambino anche lui. Piccolo, come un seme nella terra, come quelli dei fiori che sua madre teneva sul balcone, come i grumi di lievito che metteva nella pasta del pane.

«Tu puoi fare un po’ il mio papà, don Pino?»

«Ma che dici?»

«Sì, perché io ho solo la mamma. Papà non so dov’è. Magari sto segreto tu lo sai, visto che sai un sacco di cose difficili.»

«No, Francesco.»

Don Pino cerca le chiavi nelle tasche, scappano come pesci vivi dalla rete tirata in secco.

Francesco rimane immobile, gli occhi inchiodati a terra.

Finalmente trova le chiavi e fa per aprire, ma Francesco non si sposta, di pietra. Don Pino si china per guardarlo dal basso, di carne.

«Che c’hai?»

Francesco non solleva lo sguardo.

«Tu ti fai chiamare padre da tutti e poi non vuoi fare il papà a me che non ce l’ho.»

«Hai ragione. Ma io non sono tuo padre.»

«E allora perché tutti ti chiamano padre Pino? Questo lo sai?»

«Perché… perché… è un modo di dire.»

«Ma perché tu sei ’u parrinu e stai nella chiesa e pure altri sono panini, ma non ci stanno?»

Don Pino rimane in silenzio.

«Amunì, Francesco. Facciamo che faccio un po’ come dici tu.»

Si danno la mano, allora il bambino scende e sorride.

Don Pino sorride anche lui, sale in auto e gli fa il gesto delle corna.

«Hai le coma, tu! Belle puntute…»

«Per rompere i muri più duri, pure io.»

Francesco chiude la portiera e lo saluta con una linguaccia.

Don Pino finge di arrabbiarsi e mette in moto.

Il bambino bussa sul vetro con il viso improvvisamente preoccupato.

Don Pino lo abbassa.

«Che c’è?»

«Quando fai un miracolo mi prometti che mi avverti?»

«Promesso.»

«Però di quelli grandi, tipo che fai nevicare a Brancaccio?»

«La neve a Brancaccio? Tu chiedi cose impossibili…»

«Io la neve l’ho vista solo nei cartoni. E che parrino sei, sennò?»

«Va bene.»

«Ciao, parri’.»

«Ciao, Francesco.»

Si allontana. Si osserva nello specchietto e vede un volto serio. Quei bambini gli occupano il cuore come scalciano nel grembo di una madre. Finiranno per scardinarglielo, quel cuore piccolo che si ritrova. E poi non sa quanto tempo gli resta. Chi si prenderà cura di Francesco e di tutti gli altri? Di Maria, di Riccardo, di Lucia, di Totò… Non ha più tempo, non c’è più tempo e ci sono tutti quei bambini simili a semi sparsi in un campo che le spine vogliono soffocare, i corvi affamati divorare.

Il passaggio a livello è abbassato. Il passaggio a livello che separa Brancaccio da Palermo, come un ghetto. Una bambina è in piedi oltre la sbarra, dall’altro lato dei binari. Guarda nella direzione da cui proviene il treno. Si sporge come se ci fosse una linea da non oltrepassare. Ha in mano una bambola che penzola a testa in giù. Don Pino non fa in tempo a scendere dalla macchina che il treno sfreccia davanti a lui e inghiotte la bambina. I suoi capelli impazziscono nel risucchio dei vagoni, che lei fissa come lo srotolarsi di una pellicola al cinema. La sua fantasia insegue quel treno e ne riempie ogni possibile destinazione. Vorrebbe salire, con la sua bambola, per portarla lontano. Non sa dove vanno i treni, sa che vanno lontano. Così come le navi vanno dietro il mare e poi chissà dove finiscono. Per questo la cosa più bella del mondo, oltre alla sua bambola, è quando impara a nuotare con papà. Per andare a vedere cosa c’è dietro il mare.

Con l’ultima carrozza del treno sparisce anche lei.

Don Pino rimane a metà tra la portiera e la sbarra, fermo davanti a un miraggio. Non sa chi sia quella bambina, che solo per un attimo ha visto volare via con il suo vestito colorato verso un treno impossibile da raggiungere. E se fosse stata travolta?

La sbarra si rialza. Don Pino rientra lentamente in macchina, cercando segnali della presenza di lei, e puntuali arrivano i clacson di qualcuno che ha fretta di andare chissà dove, in una città in cui la meta è sostare.

«E dove deve andare? A sposarsi?» chiede con sarcasmo a chi ha suonato.

«Sì, con tua sorella, parri’.»

Don Pino lo manda a quel paese con un sorriso bonario.

Riparte. Pensa alla bambina. Non sa chi è, ma la capisce. C’è un treno da prendere, oltre la barriera che delimita la paura. Un treno che, dovunque porti, ti sputa fuori dall’inferno. Suo nonno lavorava con i treni e gli raccontava i viaggi sui binari. Lui era solo un bambino, non capiva come facessero i treni a camminare, né i binari ad arrivare ovunque. E se un treno veniva in senso contrario, come si faceva a sollevarlo per fare passare l’altro… e poi, soprattutto, dove andavano i treni?

Le domande dei bambini gli sono rimaste, perché è debole come loro, ha paura come loro, sogna come loro, si fida come loro, dimentica subito come loro, non si dà per vinto come loro.

Solo in una cosa è diverso: non ignora la morte, come loro.

Ciò che inferno non è
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