37

I giornali parlano del panino. Cinquantasei anni. Trentatré di sacerdozio, tre a Brancaccio. Sono i numeri registrati dalla cronaca.

«Questi sono gli omicidi che ti danno soddisfazione» dice quello che sta guidando.

«Secondo me abbiamo fatto troppo scruscio» risponde l’altro. «Se la sono cercata» lo tranquillizza il primo.

«Fermati un attimo, che devo pisciare» li interrompe Nuccio. La macchina si blocca in mezzo alla campagna.

Nuccio si addentra tra le stoppie bruciate, mentre la sera costringe il sole ad allentare la presa sulle persone e sulle cose.

«Stasera facciamo una bella grigliata.»

«Ne ho proprio voglia» risponde Nuccio senza voltarsi. «Dobbiamo prendere la carne.»

«Che carne?»

«Carne di crasto.»

«E dove l’andiamo a prendere?» chiede il ragazzo.

«Qua.»

«Qua dove?» Si aggiusta i pantaloni e si volta incuriosito. L’altro gli punta una pistola.

«Che fai?»

«Ti ammazzo.»

E spara. La campagna inghiotte il suono.

Nuccio crolla per terra e cerca di strisciare, mescolandosi alla sua stessa urina.

Ha lo sguardo inerme del bambino che non comprende la punizione del padre.

«Così impari ad approfittarti degli ordini che ti vengono dati. I soldi di Maria. La cresta sul pizzo. La figlia del negoziante di mobili. Non hai capito cosa significa obbedire. Noi non siamo delinquenti che fanno queste cose.»

Lo prende per i capelli e gli solleva la testa.

«Che dici? Non ti sento! Parla più forte.»

Il ragazzo tenta di dire qualche parola ma quella richiesta, qualunque essa sia, gli si frantuma in mille pezzi quando un altro colpo lo raggiunge al volto da pochi centimetri.

«Muori!» ringhia quello che ha sparato.

Poi lo bruciano quel tanto che basta. Lo mettono in un sacco e lo lasciano nel portabagagli. Questa volta Nuccio non potrà deviare di un millimetro da ciò che gli è stato ordinato.

Totò impugna una cannuccia e la agita nell’aria muta della cucina.

Quando entra, sua madre si mette a ridere.

«Figlio mio, sei diventato scemo?»

«Sto dirigendo, mamma» risponde lui, serio.

«E cosa?»

«Un concerto.»

«Senza strumenti?»

«Non li vedi?»

«No.»

«Come no? Ci sono tutti. Gli archi, le percussioni…»

«Non li sento.»

«Come, non li senti? Ora entrano i fiati», lo sottolinea con un movimento del braccio.

«Ti stai inventando tutto.»

«No. È un concerto in onore di don Pino.»

«Lo so che è triste, Totò, ma don Pino non c’è più.»

«Ma se è qui davanti che ascolta. E sorride.»

«Ammazzarono a don Pino. Ora chi lo fa l’arbitro nelle partite di calcio?»

«Arbitro di che?»

«Lui ci faceva giocare a calcio e faceva l’arbitro.»

«Gli arbitri sono cornuti e sbirri.»

«No, lui era bravo.»

«Lo farà qualcun altro. Che ci vuole a fare l’arbitro?»

«E dove lo troviamo uno che non bara?»

«Si può giocare anche senz’arbitro.»

«Ma perché lo hanno ammazzato, papà, non era buono, lui?»

«Non ce ne sono buoni in questa città.»

«Però lui sembrava buono.»

Il Cacciatore non risponde più. Ci sono tanti morti nella sua vita, ma il più morto di tutti è il bambino che è stato.

Giuseppe entra nella stanza a testa bassa e ci trova me e Manfredi. Senza mio fratello non ce l’avrei fatta a venire qui oggi. Dopo quello che è successo devo stare alla larga da Brancaccio per un po’, anche se al funerale c’ero, con tutta la mia famiglia. Mio padre mi ha detto che un giorno dovrò raccontare questa storia e gli ho promesso che lo farò.

Gli occhi di Giuseppe si riempiono di lacrime. Si siede, resta rannicchiato su se stesso a singhiozzare. Ha in mano la copia di Pinocchio che gli aveva portato don Pino e la stringe come fosse il braccio dell’amico.

Manfredi se ne sta in piedi in un angolo, senza dire una parola.

«E adesso come faccio?»

«Se vuoi ti vengo a trovare io. Ho promesso a don Pino che non lo avrei lasciato solo.»

«E io che c’entro?»

«Non sei un po’ figlio suo?»

Giuseppe si asciuga il viso e gli occhi strofinandoci contro il braccio, annuisce.

Sono davvero tutto quello che gli resta, benché io sia solo il Federico dei benché.

Hamil passeggia sul lungomare della Cala. Gli fa paura quel mare. Come dice il poeta della sua terra: Non viaggio per mare perché mi fa paura / coi suoi perigli. / Io sono fango ed esso è acqua, / e il fango nell’acqua si discioglie.

Oggi la vita gli sembra come il mare e lui di fango. Non ha più accanto il suo amico e non sa a chi raccontare le storie della sua terra. Un carretto con una coppia di turisti solca la strada, a trascinarlo è un cavallo grigio, sollecitato con indolenza dal cocchiere. Hamil ripensa alla storia del cavallo bianco, che piaceva così tanto a don Pino. Gli altri cavalli - il nero dell’ingiustizia, il rosso della violenza, il verde della morte -, per quanto possano sembrare forti, verranno sbaragliati dal cavallo bianco e dal suo cavaliere, figura di Cristo. L’amico è ancora lì ad asciugargli gli occhi stanchi di lacrime e il cuore pesante. A ricordargli che le storie salvano dalla disperazione e chi sa raccontarle non deve perdere mai il fuoco che lo spinge a farlo.

Lucia suona inutilmente al citofono di Serena. Il negozio del padre ha la saracinesca abbassata. Capita che le cose spariscano in mare, senza lasciare traccia. Con lo stesso disperato abbandono Serena si è voltata indietro per l’ultima volta sulla scaletta dell’aereo e ha fissato la distesa blu. Non ha più àncora a trattenerla in quella città, né forze per affrontarla. Mai più. Mai più.

Il preside della scuola guarda l’orario formulato apposta per don Pino. Le caselle con scritto dentro “Puglisi” feriscono più di una lapide al cimitero.

Una volta gli è capitato di vedere degli uccelli selvatici passare in stormo sopra esemplari della stessa specie, ma cresciuti in cattività e incapaci di volare. Gli uccelli in gabbia provavano a muovere le ali allo stesso modo, impauriti e sedotti al contempo. Inquieti e pieni di speranza, non più certi, in ogni caso, del loro spazio, delle loro possibilità. Con la stessa grazia quell’uomo passava con ali spiegate sopra vite a volte in gabbia, generando inquietudine e speranza.

Le sue ore erano contate. E sa che non potrà sostituirle: i ragazzi di quelle classi resteranno orfani.

Con Lucia percorriamo le strade in silenzio, come se il corteo funebre non si fosse mai interrotto dopo il funerale. È una specie di rito di riconciliazione con le cose. Ci sediamo sotto la protezione del Genio di Palermo, in mezzo ai viali e alle geometrie di Villa Giulia.

«Mi manca.»

«Anche a me. Ma non dobbiamo permettere che il dolore faccia seccare tutto. Faremo come si fa in campagna. Costruiremo un muro attorno agli alberi di agrumi, perché il vento caldo non li bruci.»

«Ho paura di non averne le forze.»

«Insieme proveremo. Gliel’ho promesso.»

«Sai cosa mi ha detto l’ultima volta che l’ho visto?»

«No.»

«Di prendermi cura di te.»

«E tu lo farai?»

«Gliel’ho promesso.»

Rimaniamo in silenzio a fissare questo cielo screziato di nuvole e ferito dal volo di qualche gabbiano. La linea del porto si apre come un abbraccio, a conca. La luce sembra uscire dalle cose invece di posarvisi sopra e le ombre appartengono al capolavoro, che altrimenti non ci sarebbe. Non esistono quadri fatti di sola luce.

«Ho scritto una poesia per te.»

«Leggimela.»

Apro il foglio scritto a mano con la mia grafia più bella e inizio, con un po’ di vergogna nella voce.

Dove sei tu che puoi cucirmi l’anima
silenziosamente?
Ragazza piena di luce,
puoi tu rammendare un ragazzo
fatto di vento?
Io cerco il tuo nome, benché tu non l’abbia.
Ti ho trovata dove nero
sembrava tutto,
tra le onde d’un mare in tempesta
sei uscita, come un seme
he viene da lontano.
Piccolo come una carezza
s’adagia su una terra vergine
per dare frutto.
Quella terra sono io,
il tuo nome non è un sogno.

«Sei peggio dei polpi.»

«Perché?»

«Schizzi inchiostro quando devi difenderti, senza le parole sei perso.»

«È vero, ma sono le mie cinque. Più le tue. Sono dieci le parole per fare noi.» La guardo, e devo avere un’espressione comica, visto che le scappa una risata breve, come uno sbuffo d’onda. Mi tocca il viso con le dita: «Però a me come polpo piaci».

Lucia avvicina l’orecchio al mio petto e rimane in silenzio.

Tutti pensano che a renderci felici debba essere la vita, ma io una cosa l’ho capita: per essere felici serve solo coraggio. Ce ne vuole troppo per accogliere il cielo e la terra nel petto, però so che quel coraggio in qualche modo adesso è dentro di me, come un seme che prima è piccolissimo e poi diventa un albero dai rami grandi e forti, capace di dare ombra e riparo. Capace di ricevere ferite e stagioni. Di morire per tanti inverni e gemmare in altrettante primavere, sommando vita e morte in anelli sempre più ampi, unendo cielo e terra.

Le sfioro le labbra e lo spasimo di entrambi per un attimo si placa, annodando i respiri.

Ciò che inferno non è
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