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La catena giace per terra. Il palo sembra desolato per l’assenza della mia bicicletta. Don Pino è più desolato ancora.
«Mi spiace. Qui purtroppo va così. Se non sei del quartiere, quando entri devi pagare un prezzo. Ho avuto troppa fiducia nel fatto che essere con me ti avrebbe protetto. Invece…»
La strada appare inerte e inconsapevole. A quest’ora la calura allenta il morso e i soffi dal mare accarezzano le cose con inaspettata grazia, ma fanno bruciare di più la ferita sul labbro.
«Ti accompagno.»
«Prendo un autobus…»
«Ti accompagno alla fermata. Prendiamo una strada che conosco io.»
«Ma lei avrà da fare.»
«Sì, accompagnarti.»
Vorrei starmene da solo col mio dolore e lui invece vuole esserne per forza coinvolto.
«Ma qui i ragazzini sono tutti come quel malacarne?»
«Non è un malacarne. Ha la carne che hanno tutti gli altri. Dipende da come la tratti, la carne. La famiglia di Lucia ti è sembrata uguale? Il signor Mario apparteneva ai vecchi braccianti delle terre che abitavano in questa parte della città. Questa era una zona verde, fertile. Poi l’hanno coperta di cemento e di bitume. Gli antichi padroni si sono arricchiti e i lavoratori si sono ridotti in condizioni di sopravvivenza. Abitano in tanti in appartamenti di due o tre stanze, nelle vecchie case contadine. Il loro problema quotidiano non è cosa, ma se mangeranno. Eppure vivono con dignità la loro povertà. La dignità qui è a ogni angolo, devi solo saperla scorgere. Ci sono un sacco di persone capaci di mantenere la schiena dritta nonostante le frustate della vita.»
Avanziamo lentamente in una specie di labirinto soffocante e soffocato, l’asfalto calcinato dal sole e nessuna via di fuga. Non vedo l’ora di andarmene da questo posto.
«Ci sono anche un po’ di famiglie nuove, venute da altre parti di Palermo, per i prezzi accessibili: lavoratori, per lo più impiegati. Fanno la loro vita. Usano il quartiere soprattutto per dormire, ma in ogni caso finiscono col viverci. Hai visto Totò, quello che ti ha dato l’acqua dalla sua borraccia? Viene da una famiglia così. Molti di loro mi danno una mano e hanno messo su un comitato intercondominiale per chiedere i servizi che ancora mancano: fognatura, scuola, giardini.»
«Ma da qui non allunghiamo?»
«Sì. Devo farti vedere una cosa.»
Non molla la presa.
«Cosa?»
Finiamo in una grande via. Via Hazon. Colossi di cemento soffocano la speranza non solo di vedere il mare, ma anche di sentirne la freschezza. La strada è vaiolata da buche e sacchi della spazzatura. I cassonetti sono disposti come barricate in una guerra di strada. Erbacce a cespugli crescono sui marciapiedi. Ragazzini giocano sull’asfalto con un Super Santos scolorito, si spostano come uno sciame dietro al pallone, che compare intermittente tra le loro gambe.
«Guarda questo palazzo.»
Un monolite lanciato come una torre di Babele contro il cielo.
«L’inferno non è sotto terra, ma nel cemento di queste case popolari. Ci abitano decine e decine di famiglie trasferite dal centro storico, dove erano accampate in case cadenti. Il comune le ha stipate qui, in condomini trasformati in rifugi per sfollati.»
«Corne campano?»
«Come possono. C’è chi lavora in nero, se va bene, altrimenti contrabbando di sigarette, spaccio di droga, prostituzione… Molti sono agli arresti domiciliari, altri in carcere. Quasi tutti sono analfabeti, i bambini non vanno a scuola e imparano il lavoro dei genitori, qualunque sia. Il resto lo fa la strada.»
«Potrebbero cercarsi qualcosa di diverso.»
«Se fossi nato qui, faresti come loro.»
Resto in silenzio, come se avessi ricevuto uno schiaffo.
«Da mesi sto cercando di farmi dare gli scantinati di questo palazzo. Sono del comune, ma sono occupati e vengono usati per le cose peggiori.»
«Don Pino, non so che dire. Io non c’entro niente con questo posto.»
«C’entri. Ci sei entrato e ne stai uscendo spogliato.»
«In effetti il bilancio della mia visita è un labbro rotto e una bici rubata. Non c’è male…»
«Ce n’è anche troppo, di male.»
Siamo arrivati alla fermata. La strada è solcata da torme di randagi: cani e ragazzini. Nella mia via si vedono terranova, levrieri, pastori tedeschi, portati a spasso da signore eleganti. Qui bastardi e randagi. Nella luce impietosa del pomeriggio, la miseria si vede tutta.
L’autobus si ferma facendo fischiare i freni.
«Buona fortuna, don Pino. Io domenica parto.»
Mi sono finite le parole. Prima che le porte si richiudano lui mi abbraccia forte:
«Ti chiedo scusa. Buon viaggio! Portami un po’ di tè, quello buono!»
Il suo sorriso è un arrivederci.
C’è qualche posto libero. Più che sedermi, mi accascio su un sedile. Continuo a tormentarmi il labbro rotto per saggiare la consistenza del male, la sua profondità. Il sangue raggrumato mi dà la certezza fisica che sono fatto di carne, non solo d’aria e di sogni.
Il sole scema e cessa di schiaffeggiare le cose. Sabbia. Polvere. Pietra. Poi, a poco a poco, altri colori prevalgono. Vernice, vetro, vento. Dalla tenebra usciamo alla luce, passando per ogni gradazione dell’opaco.
I confini della città che conoscevo hanno l’ampiezza che corre tra il mio occhio destro e quello sinistro, non di più. Solo questo sono stato capace di vedere in diciassette anni: ho creduto fosse il mondo intero e non era che una tessera del mosaico. Dall’alto Palermo mi sembrava così bella, così piena di luce. Invece il suo ventre è ombra e lutto.
L’autobus si ferma nella inesausta luminosità di via Libertà. Scendo, voglio sentire l’aria pulita. Il verde delle piante del Giardino Inglese pare smaltato da antichi maestri di maioliche e intarsi, foglia per foglia; i sentieri sono dorati, persino il vento sembra più fresco, qui. La speranza è già l’aria che respiri, il cielo e le cose che scendono dal cielo, il mare e le cose che salgono dal mare. Tutto sembra come sempre. Ma io ora so che non è tutto qui, come quando con il dito toccavo sull’atlante il blu ed era il mare, il marrone, ed erano le montagne, il verde ed erano le pianure. Gli atlanti nascondono troppe cose, da cui è meglio tenersi alla larga.
Il prezzo da pagare alla realtà è troppo alto per me.