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Poi, improvviso, inizia il tempo della storia. Il tempo della città. Settembre ne annuncia la soglia.
Appena tornato dal mare voglio raccontare tutto a Lucia. E poi voglio ascoltare i suoi racconti, e sopra ogni altra cosa la sua voce. Appuntamento allo Spasimo: sufficientemente vicino, prudentemente lontano da Brancaccio. Il vento dal mare spira un po’ più forte, come se il sentore della notte vicina lo rendesse spavaldo.
Quando entriamo in quello spazio che mette a contatto terra e cielo, confinandoli in pochi metri quadrati, tutto torna al posto giusto.
Raccontami. Mare. Amici. Fuochi. E poi e poi. E poi libri e mare ancora, ancora mare. E tu, tu, raccontami. I bambini. Il caldo. E il mare anche io. Libri anche io. Letto tutto Petrarca. Mi devi spiegare mille parole, le ho sottolineate tutte, se non ti dispiace. Non mi dispiace. E il nonno Mario. Sta bene anche se con il caldo soffre di più. I miei bene. Anche i miei. Ora poi riprende la scuola. Che noia. Sì, che noia. Però fra poco c’è lo spettacolo per don Pino e dobbiamo essere pronti. Io vorrei che tu tornassi. Mi sei mancato. Ma ho paura che ti facciano del male. Io ho paura di rimanerti lontano. Tutto quello che ho visto in questi giorni era a metà, e alla lunga ci si stanca di ciò che è incompiuto, si perde metà della vita. E vita ce n’è una sola. Don Pino come sta. Sono preoccupata. Lo vedo stanco. Tocca a noi sostenerlo. Hai ragione. È tutto così bello qui con te. Dove siamo stati quando non eravamo insieme? A volte me lo sono chiesto. Ti portavo con me dappertutto. Ecco, siamo qui sotto questo cielo di pietra blu e tutto è posseduto in un solo istante non minacciato dal tempo.
Altre parole, e quando la misura è colma viene un bacio, come il naturale compimento delle parole e della loro conclamata insufficienza.
Vorrei saper suonare il pianoforte. È uno strumento che mi somiglia. Ogni persona è simile a uno strumento. L’ho capito alle prove di un concerto di musica classica, alle quali fummo deportati in terza media dal professore di musica, che aveva un amico nell’orchestra sinfonica del teatro Massimo. Per spiegarci gli strumenti ce li fecero ascoltare a uno a uno; il professore si divertiva a paragonarli a un tipo di anima e ciascuno doveva trovare la sua. L’anima flauto è dolce, a volte lamentosa e malinconica, ma di colpo allegra e spensierata. L’anima clarinetto è puntigliosa e attenta. L’anima sassofono è sensuale, mutevole, inafferrabile. L’anima violoncello è aperta, pacata, silenziosa.
La mia è un’anima pianoforte. Finora ho conosciuto soprattutto i tasti bianchi. Poi arriva chi sa toccare quelli neri e scopro di avere una parte sconosciuta, capace di mezzi toni. Le mani di Lucia conoscono i mezzi toni, sanno sfiorarli completando i suoni. Probabilmente Lucia è un’arpa. Mi ricordo che in quell’orchestra l’arpa stava vicino al pianoforte, o viceversa.
Se non voglio rimanere un mistero per me stesso devo accettare che altre mani mi raggiungano fin dentro al cuore. Devo armarle io stesso contro di me, mostrarmi e dar loro la possibilità di colpire dove sono più debole. Amare non è forse armare le mani di un altro? La manomissione dell’anima è il prezzo da pagare all’amore. Poi magari quella mano suona spartiti che non avremmo mai pensato di ascoltare dentro di noi. Credevo di essere già e invece non sono che appena.
Proprio in mezzo alle tenebre doveva venire a cercarmi Amore?