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Oggi è uno di quei giorni in cui il vento addolcisce le strade, spirando da terra. Copre lo stormire delle tv che ristagna quando la calura è immobile e rimette tutto in cauto movimento. Sono sull’autobus che mi porta a Brancaccio e guardo trascorrere le case e gli uomini. Ho l’anima piena di parole che vorrei scrivere.
Mi viene in mente la lezione di italiano d’esordio del triennio, sui primi documenti del volgare italiano. Uno era un indovinello che paragonava la scrittura a un seme nero sparso nei solchi della pagina bianca, fertile come un campo in tempo di semina. «Senza le parole le cose quasi non esistono» ci aveva detto il professore. «Soprattutto quelle che covano sotto lo strato che le contiene. La pagina è la terra che, rivoltata, dissodata, nutrita, genera parole compiute ed esatte, parole che, nominando le cose, le fanno esistere in noi, perché non possono ancora mostrarsi. Le parole danno alla luce le cose o danno luce alle cose.»
Poi - dopo un excursus su quello che ci era sembrato più il lamento della neonata lingua italiana che una testimonianza letteraria, il famosissimo “Sao ke kelle terre…” - avevamo parlato di un terzo documento, in cui un capomastro inveisce contro tre poveri lavoratori e li fustiga con parole violente: “Fili de le pute, traite”, tirate, figli di puttana. E il nostro professore ci aveva detto che la parola fa anche questo, ferisce. Però ci permette di sentire la fatica, il dolore, la frustrazione di quei tre che, sotto il fardello di ciò che trasportano, avvertono il peso della loro esistenza.
Mi ha divertito il fatto che all’origine della nostra letteratura ci siano l’immagine della scrittura come seme e le parolacce. In fondo le parole a che servono se non a dire bene o a dire male? Benedire e maledire. Solo a questo servono le parole. E ancora una volta si tratta di scegliere cosa fame.
Arrivo da don Pino mentre sistema fiori freschi in un vaso vicino all’altare.
«Devo andare a benedire un morto. Accompagnami.»
«Cominciamo bene… Chi è?»
«Non lo so. Gli hanno sparato.»
Benedire la morte.
Chissà se si può.