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Il sole è incastrato dietro al mare e le ultime stelle si abbarbicano come edera al crepuscolo. Bello sarebbe se il sole sorgesse su una città nuova, cambiata, piena di giardini e di uomini che lavorano e amano. Di uomini il cui lavoro è un ponte tra i sogni e la realtà e non un esilio da se stessi. Nel buio un uomo abita la città di Dio.
All’inferno ho trovato il paradiso.
È molto più piccolo e breve dell’inferno.
Assomiglia all’angolo di un giardino o a un minuto. Ma è tutto.
Ed è il compiersi di ogni cosa.
Del seme nella rosa.
Dell’uomo nell’uomo.
Della donna nella donna.
Di Dio nelle cose.
E trionfa silenzioso anche se mostra soltanto un volto incompiuto, di una bellezza quasi straniera. In esilio.
Il paradiso si fa largo e niente e nessuno riesce ad afferrarlo e ingabbiarlo. Intrepido come la verità, indomito come la bellezza.
Pietà di me per tutte le volte che ne ho rallentato il fiorire.
Pietà di me, mio Dio, pietà di me, se quell’inferno l’ho costruito anche io con la mia accidia. Non basta evitare il male, il bene bisogna farlo.
C’è ben poco di me, oggi, che evochi luce. Ma ogni seme nascosto nella cecità della terra trema. Non evoca forse la luce, ma la invoca.
Così io ti invoco. Come un seme.
Troppo piccolo pur una terra così desolata e oscura, come la mia.
Aiutami, mio Dio, a non rimanere solo.
Aiutami a fidarmi di te.
E quella città, in lui, diventa reale. Ne libera i sogni più duraturi, come l’antico maestro sapeva trovare l’acqua, anche nel calcare.
Intanto il mare si spezza sulla costa salda come un dogma e costringe quel porto ininterrotto alla fiducia in ciò che è costante. Non si può non sperare dove tutto è porto.