19
Riccardo osserva la scena da lontano, con un coltello nascosto in tasca. La ruota è a terra. La macchina rantola per qualche metro, poi don Pino è costretto a fermarsi. Torna a casa a piedi. Il primo che incontra è proprio Riccardo, che lo saluta con un sorriso smagliante che lui ricambia, celando la stanchezza. La giornata è calda: il sudore gli cola lungo la schiena e la lingua gli si attacca al palato.
Quando infila le chiavi nella toppa si sente come un naufrago sbattuto sulla spiaggia, ma salvo. Apre la porta di casa e non fa in tempo a richiuderla che due uomini incappucciati entrano e lo buttano per terra. Uno gli assesta un pugno sulla bocca, l’altro gli punta un coltello davanti agli occhi. Lui trema di paura e non osa muoversi.
«L’ha capito che questo scruscio deve finire? Le feste, le interviste, le prediche? Se non l’ha capito, torniamo e glielo rispieghiamo meglio!»
Don Pino non dice una parola. Prima di uscire gli sferrano un altro pugno e lo lasciano sul pavimento.
Si sente un verme, il cuore gli urla nelle tempie e non può neanche tapparsi le orecchie per non sentirlo. Il corpo è ridotto a un tremito primordiale.
Prima di quella sera non sapeva veramente cosa fosse la solitudine: prostrato a terra, con la fronte sul suolo e il sangue che gocciola dalle labbra aperte, spera che tutto passi in fretta. Ma non passerà, da quel momento non potrà più sorridere come prima, il dolore non si cancella facilmente. Riccardo conta i soldi, non ne ha mai visti tanti in una volta sola. Per averli è bastato squarciare una ruota e correre a dare il segnale che don Pino stava per tornare a casa.
La luce dei televisori nelle altre case racconta di momenti di pace e tranquillità, nella casa di don Pino invece è buio. Le ferite della notte non devono essere illuminate troppo in fretta, la paura non lo consente. Lui rimane lì nella tenebra, in cerca di un po’ di compagnia, e a poco a poco i rumori della notte si smorzano fino a tacere. Qualche ora dopo si ritrova sul pavimento e, lottando con il torpore che lo ha preso, lentamente si tira su e si rivolge verso la finestra che dà sulla notte oscura di Palermo.
Dio mio, perché mi hai lasciato? Sono stanco, Padre mio. Non riesco a vederti. Ho paura. Io voglio vivere, non voglio morire. Non voglio andarmene come i gabbiani, che si allontanano in mare aperto e si lasciano cadere sfiniti, soli, in un ultimo tuffo.
So che devo morire, ma non sono pronto.
Perché mi hai lasciato solo?
Perché dalle infinite possibilità hai tirato fuori solo questo?
So che il mondo non può essere migliore di quello che noi gli permettiamo di essere, ma sono troppo piccolo.
Mi chiedi troppo.
Dentro di lui risuona quello che chiama il pi greco della vita: Esodo 3,14. Quando Dio, sotto forma di fiamma impossibile da raggiungere e impossibile da spegnere, dichiara il proprio nome al cospetto di un uomo disarmato e a piedi nudi.
Io sono colui che sono.
Dio svela la sua identità solo all’uomo nudo e orfano di tenerezza, ridotto al soffio della propria tremante esistenza.
Padre mio.
Lo ripete come un respiro.
Si solleva e si avvicina alla finestra, biancastra per i depositi salmastri del vento notturno. Tutto tace. Nessuno veglia con lui.
Un pianto dirotto gli entra negli occhi e nell’anima.
Le parole sono finite, non gli rimane più nulla di suo, l’unica ricchezza che può dare sono le lacrime del suo pianto su sé e tutte le cose.