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Nelle città di mare, ogni sera c’è un momento in cui il mare ignora il cielo e ha un colore tutto suo. È il blu che ha usato l’autore del più bel Trionfo della Morte mai dipinto. Lo ha realizzato nel Quattrocento a Palermo un pittore senza altro nome che il titolo di questo quadro.
Chi lo osserva incontra la morte perché chi lo ha dipinto ha intinto i pennelli direttamente nella tavolozza della Nera Signora. Al centro del quadro c’è la Morte che cavalca, squarciando la scena in diagonale, su un fremente destriero che sembra la radiografia di se stesso. Pare di sentirne il nitrito mentre lei scaglia frecce contro uomini potenti e ricchi che ne ignorano la tenebrosa presenza, e lei a sua volta ignora uomini impotenti che la invocano dalla loro disperazione perché li sollevi dal carico della vita. La giustizia ingiusta della Morte.
Guardala bene questa scena, prima che l’umidità finisca di mangiarsela come tutte le cose belle e si possa ripetere senza alibi che neanche la bellezza è immortale a Palermo. La freccia appena lanciata dalla Morte si infilza nel collo di un giovane biondo elegantemente vestito di un abito di broccato blu. Mentre nell’angolo opposto una coppia di cani, immortali finché la pittura conserverà il loro vello, latra impaurita, il ragazzo ha gli occhi aperti e stralunati, si aggrappa alla vita tendendo la mano a un amico che nulla può fare se non stringergliela, per evitargli la completa solitudine di cui gusteremo l’amaro calice. Questo affresco, staccato dalla sua parete, si trova ora nel palazzo che conserva anche l’Annunciata di Antonello da Messina. In un unico luogo sono custoditi i due colori più compiuti mai mescolati per rappresentare le due chiamate principali dell’uomo: quella alla morte e quella alla vita, il blu del Trionfo della Morte, il blu dell’Annunciata. E siccome il colore è il vessillo che l’uomo pianta nel territorio della luce che Dio ha strappato alle tenebre, il blu serve a strappare a Dio il privilegio di possedere il segreto della vita e della morte.
In quell’ora della sera in cui per un attimo le cose tacciono e la vita e la morte si mostrano per essere superate, due amici passeggiano, in riva a quel blu.
«Perché hai detto quelle cose, don Pino?»
«Tu che avresti fatto?»
«Avrei evitato.»
«Loro appiccano il fuoco alle porte della gente, e noi appicchiamo il fuoco della verità.»
«Ma quale verità? Da quando in questa città si dice la verità? Non hai visto che fine hanno fatto Falcone e Borsellino? A che serve?»
«Se la verità continuiamo a metterla in soffitta prima o poi ci dimentichiamo anche che ce ne sia stata una. Il problema di questa città è che le parole significano una cosa e il suo contrario.»
«Meglio con i doppi sensi, ma vivi.»
«Ma non lo capisci? È proprio per la vita, la vita del quartiere, la vita dei bambini, la vita delle donne, la vita degli uomini, la vita! Un padre questo deve fare! Il massimo che possono fare è ammazzarmi, e allora?»
«Non lo dire neanche per scherzo.»
«Mimmo dice sempre che di qualcosa bisogna pur morire. Tu hai moglie e figli, Hamil. A me se mi ammazzano non mi interessa. Ma poi, figurati, mica l’ammazzano un prete. Quelli sanno che parliamo, parliamo, parliamo, e non facciamo niente.»