7

Quando la partita finisce tutti sciamano via e i vicoli li inghiottono. Sudato, don Pino rimane solo: guarda l’orologio e si rende conto che è in ritardo, dovrà saltare il pranzo. Come sempre.

In un angolo è rimasta seduta una bambina di cinque o sei anni, strisce nere le solcano le braccia e le gambe. Ha una maglietta con su scritto qualcosa che non si legge più, in un alfabeto che potrebbe appartenere a una qualunque lingua uscita da Babele. I capelli arruffati e annodati sono quelli di una Medusa infante. Tormenta una bambola nuda staccandole e riattaccandole ora una gamba ora un braccio. La bambola ha il volto macchiato come il suo e i capelli biondi a ciuffi. Guarda le cose con gli occhi azzurri e sempre aperti delle bambole.

Don Pino si avvicina e sente l’odore acre della pipì che le impregna i vestiti. La riconosce. L’ha vista quella mattina al passaggio a livello: sembrava desiderare che il treno la rapisse nel suo vortice d’aria.

«Non vai a mangiare?»

La piccola continua a tormentare la bambola.

«Come ti chiami?»

Lei alza la testa e ha due occhi neri come il catrame, nei quali per un attimo sembra danzare un’altra bambina, poi rabbia e diffidenza vincono e il nero si addensa, minaccioso come il mare notturno.

Non risponde e si circonda le gambe con le braccia, magre da sembrare rami secchi. Guarda la bambola negli occhi. Nasconde la testa tra le gambe. E la bambola resta a fissare don Pino.

Si china e l’odore rappreso sulla pelle e i vestiti si fa più acre.

«Dov’è la mamma?» chiede don Pino alla bambola, che gli offre gli occhi che la piccola gli nega.

La bambina scuote la bambola come a dire no.

Allora don Pino si siede e appoggia la schiena al muro.

Se ne rimangono in silenzio per un minuto, due, tre, quattro…

Allunga una mano per accarezzarle la testa.

Lei si ritrae come un animale ferito. Scatta in piedi, si mette a gridare e scappa, la schiena come un’anguilla nella luce fangosa del pomeriggio. Tiene la bambola per un piede. Si ferma a distanza di sicurezza e gli lancia uno sguardo cupo. Poi corre via, senza voltarsi più. Corre incespicando su ciabatte troppo grandi per i suoi piedi.

Lasciate che i bambini vengano a me.

Loro è il cielo.

All’inferno persino quella gli sembra una menzogna.

“Non l’abbandonare” chiede don Pino al suo Dio silenzioso.

Quando rientra a casa, Mimmo, il poliziotto che abita un piano sopra, è fermo alla finestra con la sua sigaretta sempre in bocca e i suoi teoremi polizieschi sul quartiere. Tanto inutili ai fini del lavoro, quanto preziosi ai fini della verità.

Si fanno un cenno d’intesa, don Pino mima il gesto di fumare e scuote il capo.

«È l’ultima» dichiara Mimmo innocente.

«Sì?» risponde don Pino fintamente sorpreso.

«Sì, di questo pacchetto.»

Ciò che inferno non è
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