35

«Non dovevi partire?»

«Sono qui per la raccolta di stelle marine.»

«Ma che successe?»

«Giuseppe.»

«Il Malaspina?»

«Sì. E poi che senso ha: imparo la lingua, gli usi e i costumi di un’altra città e non so neanche cosa succede nella mia?»

«E i tuoi?»

«Se mi acchiappano mi mandano all’ospedale. Gli ho fatto buttare i soldi del biglietto. Il corso però ce lo rimborseranno. Comunque sia, a casa credono che sia impazzito.»

«In una giornata piovosa la gente è malinconica, e invece un innamorato che va a trovare la fidanzata canta. Sembra impazzito, in realtà è l’unico normale. Quindi mi dai una mano?»

«E che, rimanevo qui, sennò? Non me ne faccia pentire…»

«Scommettiamo che non te ne vorrai andare più?»

«Scommettiamo.»

Don Pino mi sorride e mi abbraccia.

«Grazie.»

Lo abbraccio anche io e mi sento a casa. Una casa con stanze ancora da scoprire e arredare, ma con muri solidi e ben esposta alla luce.

«Allora facciamo due passi, ti spiego mentre andiamo.»

Le ombre sembrano fuggite, esiliate dalla ferocia del sole nelle case, dove le persone le nascondono e custodiscono.

«Noi qui dobbiamo girare per strada e farci vedere. Andare a testa alta, senza aver paura di nessuno.»

«Perché?»

«Per far capire che ci sono messi alternative alla zizzania.»

«A cosa?»

«Hai presente i possidenti di cui ti parlavo qualche giorno fa? Quelli che hanno venduto la terra e si sono arricchiti. Come spesso è accaduto in Sicilia, dalle loro file sono venuti i mafiosi. Continuano a esercitare protezione su chi aveva casa nel loro territorio: hanno sostituito il lavoro della terra con il potere sulla terra. Nell’ignoranza e nella povertà la zizzania mafiosa cresce più facilmente. Io vedo Brancaccio come un enorme campo, dove crescono grano e zizzania.»

«Non ho capito che è sta zizzania. Si mangia?»

«Tu non ascolti le mie lezioni. È un’erbaccia che somiglia al grano in tutto e per tutto. Solo che, al momento di spigare, il grano fa i chicchi, la zizzania lo imita, ma i suoi chicchi sono inutilizzabili: ne esce una farina velenosa. Qui il grano c’è, ma troppe volte è soffocato dalle erbacce.»

«E perché i politici non fanno nulla?»

«I politici? Mica la politica salva gli uomini. E poi spesso è connivente con questo stato di cose. Quello che conta sono le scelte dei singoli. Sei tu la politica, ragazzo, le scelte che fai ogni giorno camminando per queste strade. Ti ricordi il ragazzino che ti ha colpito? Cosa gli avresti fatto?»

«Lo avrei ammazzato.»

«Lo so. Ma se non impari ad amare rimarrai anche tu un bambino. Amare quelli come lui è l’unica politica che cambia Brancaccio. Giudicare è troppo facile. Dare la colpa al sistema politico? Pure. Bisogna lasciar crescere il grano e la zizzania insieme. Crescono e cresceranno sempre insieme. La zizzania è rapidissima, ha radici superficiali e si mimetizza perfettamente in mezzo al grano, non la puoi strappare via senza danneggiarlo. Non ci sono buoni e cattivi, ma ci sono il grano e la zizzania in ogni persona. La differenza si vedrà al momento giusto. Con il grano si farà il pane, con le erbacce un falò. Bisogna ridurre a poco a poco la zona di influenza della zizzania.»

«Io non so come si fa.»

«E chi lo sa? “Quannu l’amuri voli, trova locu.” Ma amare è cosa da uomini. Impariamo tutto. Ci insegnano tutto. Invece l’amore, che è la cosa più importante e la più difficile, nessuno ce lo insegna. Eppure se non lo impari resti un analfabeta della vita.»

I vecchi parlano seduti davanti alla porta di casa, mentre le carte da gioco incurvate dall’uso giacciono inerti sul tavolo. Qualcuno saluta don Pino, che ricambia con un cenno e un sorriso. Poco lontano dei bambini tirano pietre a bottiglie di vetro disposte su un muretto: quando esplodono al sole pare grandini luce. Qualche giovane con i capelli marmorizzati dal gel consuma le gomme del motorino in giri senza meta. Una donna ara la strada con sacchi della spesa che la inchiodano a terra con il loro peso. Una ragazza in ciabatte spazza il marciapiede di fronte a casa e urla rabbia e frustrazione in un dialetto comprensibile solo a chi sta dentro. I miei orizzonti visivi si ampliano e i muscoli si sciolgono lentamente dalla tensione dell’esploratore che penetra nella foresta tropicale.

«Non sarà una guerra contro i mafiosi a cambiare Brancaccio, ma la resistenza paziente e costante all’ignoranza e alla miseria. Voglio preparare dei giochi estivi per i ragazzi, portarli al mare e a vedere le stelle. E poi delle gare sportive in onore di Borsellino, la prima domenica utile dopo l’anniversario del suo martirio. Mi darai una mano.»

«È una bella idea. Ma come fa lei a non scoraggiarsi mai?»

«Io ho Gesù con me, sempre, e poi cerco di fare come un giardiniere. Provo a trattare tutti come il grano. Solo se tratti il grano da grano diventa pane. L’elemosina non basta, ci vuole l’amore. Sui volti dei ragazzi si riconoscono i segni di tante sconfitte, le cicatrici di troppe umiliazioni. D mio compito è stare in queste strade e amare tutti.»

Don Pino parla dell’amore come di una cosa concreta. Un po’ come fa Petrarca quando lo scrive con la maiuscola e lo paragona a una presenza invisibile, ma incombente e determinante.

«Anche io se fossi nato nel palazzo di via Hazon non avrei avuto scelta» continua. «Se nasci all’inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore. Ecco perché sono necessari un asilo e una scuola media. Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia. Non hai idea di cosa si può fare con queste tre cose.»

Oltre il passaggio a livello che ho attraversato non puoi dare nulla per scontato. Dove ho guardato finora?

«E poi le ragazze. Ancora adolescenti, in cerca di sicurezza, scappano con uno che le mette incinte: la fuitina. Se poi va bene si sposano, ma nella maggior parte dei casi si ritrovano sole a quindici anni con un bambino da crescere, sole come cagne coi cuccioli.»

Scorgo la mandibola di don Pino contrarsi in una smorfia di rabbia. Non conosco questa espressione e non so da dove sia sbucata.

«Non voglio che Lucia faccia questa fine.»

Ho detto così. O qualcuno dentro di me con cui ancora non sono tanto in confidenza.

«Non la farà.»

«Mi sembra una ragazza diversa…»

«Non è diversa. È come le altre, ma è stata educata in modo diverso. Questo fa la differenza tra chi diventa uomo e chi entra nel branco.»

Brancaccio, persino il nome sembra il dispregiativo di una parola di per sé rapace: “branco”. Chi crederebbe che all’inizio del secondo millennio era un eden arabo-normanno di agrumeti e acqua. Ancora è visibile qualche segno scolorito di quest’acqua che tutto fecondava: il Castello della Sorgente, Fa vara, e la famosa camera dello scirocco di Costanza, dove si dice che la bellissima madre di Federico II ristorasse la pelle arsa dal sole mediterraneo. Quando tutta Palermo era una città verde a dispetto della calura, grazie a un sistema di canali sotterranei inventati dagli arabi alla fine del primo millennio, che zampillavano in pozzi e grotte. Chi faceva il miracolo erano i maestri d’acqua, capaci di evocarla dalle ricchissime falde sotterranee. E tutto sembrava poter sbocciare da quel terreno. Molti visitatori ignari di quell’arte si illusero che i giardini di Palermo avessero origine divina.

Don Pino cammina nel deserto di asfalto e come quei maestri evoca l’acqua e la fa scaturire da profondità nascoste, scavando, scavando, scavando. L’acqua nascosta nella roccia di ogni cuore umano, anche il più arido.

La mafia spinge la città a rinunciare alle proprie falde, la prosciuga e la convince di non avere acqua. E a poco a poco si comincia a credere che davvero l’acqua non ci sia e venga concessa con misericordiosa elargizione. Invece semplicemente non si vede. E al posto dei giardini e degli orti crescono male erbe, come la zizzania. Servono maestri d’acqua e proliferano invece signori dello scirocco.

«Lo sai dove sono nato io?»

«A Brancaccio, no?»

«Negli Stati Uniti.»

«Ma che dice?»

«Vero dico.»

«Ma se non sa l’inglese.»

«Ragione hai. Ma io parlo di altri Stati Uniti. Si chiamava così la zona più povera di Brancaccio, il ghetto nel ghetto, delimitato non da uno, ma da due passaggi a livello. Vi si era stabilito chi lavorava per le ferrovie e proveniva da varie parti della Sicilia e dell’Italia, tanto da sembrare straniero. Tra loro c’era anche mio nonno, ferroviere. E lì abita Lucia.»

«Quando è nato, don Pino? Nell’Ottocento?»

«Vastaso… Sono nato lì nel 1937, il 15 settembre, con il rumore dei treni e lo sferragliare degli scambi nelle orecchie sin da bambino. Guardavo i treni e sognavo di andare chissà dove. Eppure il treno della vita mi ha riportato qui come parroco, a ottobre del 1990.»

«Non si sente solo?»

«Non sono solo… la mafia è forte, ma Dio è onnipotente.»

«E allora perché non fa nulla?»

Don Pino rimane in silenzio. Mi sorride. Mi fa cenno con la mano di avvicinarmi, come se volesse confidarmi un segreto.

«Una cosa l’ha fatta.»

«Cosa?»

«Te e me.»

«Con tutto il rispetto, non mi sembra un granché… poteva sforzarsi di più.»

«Come dice il mio amico Hamil, che conosce bene il deserto: chi semina datteri non mangia datteri.»

«E che vuol dire?»

«Che devono passare almeno due generazioni perché le palme da datteri diano frutti. Se io comincio adesso, fra cinquantanni qualcuno li mangerà e si riparerà all’ombra.»

«Bello, però che soddisfazione c’è per chi semina?»

«Quando sarai padre lo capirai.»

«No, voglio capirlo adesso.»

«Sei diventato battagliero, mi preoccupo… Un padre gioisce delle gioie dei figli. La sua gioia si moltiplica, è molto più grande di quella sua personale, perché si nutre delle gioie di tutti.»

«A lei succede?»

«Tutti i giorni.»

Ciò che inferno non è
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