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La luce è ammutolita nelle scale del palazzo e neon brillano senza convinzione. Tre uomini sono l’ombra armata della notte, la notte del 29 giugno, e portano il fuoco con cui si conquistano le città nei poemi epici. Poi si dividono per entrare contemporaneamente in tre palazzi dello stesso complesso. ’U Turco. Il Cacciatore. Nuccio. Guerrieri di una guerra senza nemici, dichiarata a tre padri di famiglia che come unica arma hanno la loro testa dura. Padri di famiglia decisi a ottenere ciò che a Brancaccio manca: fognature, una scuola media, un giardino. Sono i fondatori del comitato intercondominiale, nel quale hanno coinvolto una a una le persone disposte a impegnarsi per vincere le resistenze di politici e mafiosi, per ottenere non un privilegio, ma ciò che è dovuto alla nuda dignità umana, senza chinarsi al potere alternativo dei mafiosi. Sono coloro che hanno deciso di spezzare la logica oppressi-oppressori che regola i rapporti di forza del quartiere. Fino al presidente della Repubblica sono arrivati, con le loro lettere. Hanno ottenuto attenzione, e finalmente i lavori per le fognature. Sono la dimostrazione che, quando un palermitano si mette in testa una cosa, ci muore. E continuano a far parlare di sé, a fare scruscio.

Le teste di legno si bruciano col fuoco. La benzina sciacqua le pareti di una tanica ed è l’unico rumore che accompagna i passi incendiari di Nuccio. La sua religione ha un solo comandamento: l’approvazione di Madre Natura. Ci sono soldi e donne e rispetto. E questo è ciò che si deve fare, come gli ha insegnato il Cacciatore. È davanti a una delle tre porte che devono incendiare. Quinto piano. “Martinez” c’è scritto sopra il campanello. “Di Guida”, quinto piano. “Romano”, ottavo piano. La sincronia renderà il fuoco d’artificio più spettacolare.

Cosparge lo zerbino di benzina, mentre il silenzio permea il sonno di chi di giorno lavora. Il fuoco si sprigiona dal legno e divampa sulle mura da espugnare. Le porte si sciolgono. Così imparano a collaborare con quel parrino. Bruciare attorno a don Pino. I politici locali si sono lamentati: non riuscite manco a tenere a bada la gente qualunque, preti, impiegati… manco sbirri sono!

Per questo le porte sono andate in fumo. Per questo un mese prima è andato in fumo il furgone della ditta che riparava la chiesa. È meglio l’odore del legno bruciato, della vernice della carrozzeria, del tessuto della tappezzeria, della gomma dei pneumatici che l’odore acre e dolciastro della carne.

Così l’uomo succhia l’anima all’uomo come in questa città si succhiano i babbaluci dopo averli bolliti in una pentola con i bordi cosparsi di sale, per non far fuggire le lumache che cercano scampo dal fuoco quando neanche le loro case sono più sicure.

Così si compra il silenzio: col fuoco, che soggioga il cuore e lo piega, costringe gli occhi in basso e il cervello al nonsenso. Quella notte i bambini piangono e nessuno può dare una ragione sufficiente. E un padre deve avere a cuore la sua famiglia più della verità.

Ma quei tre, Martinez, Di Guida, Romano, sono diversi, cioè sono normali. E mentre la gente li accusa di procurare brutte figure al quartiere con il comitato intercondominiale, le lettere, le richieste, loro denunciano l’atto doloso. Nonostante le telefonate anonime delle notti successive in cui una voce di donna grida “aiuto, aiuto!”, e poi si sente un rumore di bicchieri che tintinnano e una terribile voce rauca, loro denunciano, parlano, scrivono.

Nonostante il fuoco e i latrati del branco, loro riscattano secoli di silenzio omertoso con la parola.

Eroi di un’epica ordinaria.

Ciò che inferno non è
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