24

La figura retorica che meglio mi descrive è l’ossimoro. La figura retorica dei pazzi, di chi dice una cosa e fa l’opposto. Non ho pace, ma non ho neanche i mezzi per fare la guerra, eppure in guerra ci voglio andare.

Il Malaspina è a due passi da casa, se ne scorge un pezzetto dall’alto del mio palazzo, ed è più che sufficiente a considerarlo l’incarnazione architettonica della desolazione. Ci sono passato davanti centinaia di volte e ho visto madri in attesa, padri con il senso di colpa scolpito sul viso, bambini divertiti ad aspettare i fratelli dietro le sbarre, come si trattasse di un gioco.

Entriamo e io rimango in silenzio. Ho paura di restare chiuso in prigione. Don Pino mi sorride, mi dà una pacca sulla spalla.

Una teoria di porte di ferro si aprono davanti a me, lentamente, una dopo l’altra, aumentando il mio senso di oppressione. Nell’atrio si dipartono i raggi con le celle. Una struttura che mi fa pensare alla ruota del destino, con opzioni tutte cieche. Il colore delle pareti è anonimo, marezzato di umidità. Su un lato, in una nicchia, c’è una statua della Madonna, macchiata di punti neri tanto da sembrare colpita dalla peste da cui Rosalia salvò Palermo. La luce entra di sbieco, come caduta lì per caso.

Avanziamo scortati da un secondino. Le celle traboccanti di corpi abbandonati e spenti assomigliano a recinti. Non sappiamo di avere qualcosa finché non lo perdiamo, o non incontriamo qualcuno che l’ha perso. Mi è capitato anche quando ho conosciuto In sorella down di un mio amico: quel giorno ho scoperto di non poter dare per scontato il fatto di avere una mente che corre, un colpo che risponde, mani che sottolineano un verso. Ora provo quel la stessa sensazione di straniamento, come se mi vedessi da fuori: la dislocazione del dolore.

Così per la prima volta, a diciassettanni tuttattaccato, scopro di essere libero. Stamattina mi sono alzato e potevo non farlo, ho fai to una doccia e potevo non farla, ho deciso di uscire e potevo non farlo. Avevo la libertà. Avevo tutto. Ed era dentro di me.

Entriamo in una stanza di pochi metri quadrati con un tavolo e due sedie. C’è un ragazzo seduto, di quelli che se li incontro per strada cambio lato, specie da quando mi hanno rubato lo Swatch comprato con risparmi che ci avevo messo una vita a raccoglierò.

Il ragazzo salta in piedi come una molla e corre ad abbracciare don Pino.

«Don Pino! Miii, fino a qui è venuto?»

«E certo, Giuseppe, che ti lascio qui, secondo te?»

Io resto in piedi appoggiato al muro screpolato.

«Questo è Federico, un mio alunno.»

Mi avvicino e allungo la mano verso il ragazzo, che me la stringe con un sorriso capace di sciogliere in un istante i miei pregiudizi. Giuseppe ha gli occhi marroni e grandi, a parte il colore non credo siano diversi dai miei. Giuseppe potrei essere io. Bastava nascere a Brancaccio anziché a Notarbartolo. Se la tombola dei destini fosse stata diversa, forse sarei io la malaspina.

«Ti ho portato un libro.»

Don Pino tira fuori dal borsello una copia sgualcita di Pinocchio.

«Parla di un falegname e di suo figlio. Secondo me ti piace.»

«Ma io quasi non so leggere.»

«E così impari, ignorante.»

Giuseppe prende il libro e lo sfoglia lentamente.

«Miii, è pieno di parole.»

«Lo so.»

«Troppe.»

«Tu leggilo, poi vediamo se erano troppe. Tanto che altro hai da fare?»

Giuseppe sfoglia e ogni tanto legge una parola.

«Burattino… fata… ciocco… Miii, è pieno di parole difficili, chi me le spiega?»

«Tu segnale e la prossima volta che vengo te le spiego io.»

«Promesso?»

«Promesso.»

«Non è venuto più nessuno a trovarmi. Manco mia madre.»

«Quando esci torni ad aiutarmi?»

«Sì.»

Lo dice con gli occhi stretti per ricacciare indietro le lacrime. D’un tratto esplode come una molla compressa da un peso eliminato istantaneamente: comincia a urlare e si aggrappa al prete come un polpo su uno scoglio.

«Portami fuori di qui, parri’, ti prego. Portami fuori. Sennò me lo fanno di nuovo.»

«Cosa?»

Due secondini si precipitano dentro e si lanciano sul ragazzo. Io rimango immobile, con le dita serrate dalla paura. Lo devono tenere in due per strapparlo da don Pino.

«Torno presto, Giuseppe, non ti preoccupare. Torno presto.»

Giuseppe si accascia e inghiotte la disperazione.

Usciamo nella luce densa del mattino. L’aria non è mai stata così da quando respiro. Non si fa mai esperienza dell’aria, la si dà per certa. Ma quando ti è mancata, poi la senti. È solida e tattile.

Don Pino è silenzioso. Sulle braccia ha i graffi delle unghie di Giuseppe. Negli occhi altri segni, altre ferite.

«Tutto bene, don Pino?»

«Il mio amico Hamil è arabo e mi racconta sempre un sacco di storie della sua terra. Ce n’è una che mi è piaciuta molto. Due uomini stanno camminando su una spiaggia, una tempesta ha scaraventato sulla sabbia un tappeto di stelle marine. Sembra un ciclo stellato al contrario. Il sole le sta bruciando, senza pietà. Le stelle marine si contorcono lentamente, prima di cristallizzarsi del tutto. Uno dei due ogni tanto si china a raccoglierne una e la ributta in mare. Sono migliaia e migliaia. L’altro ha fretta di tornare a casa e gli dice: “Che vuoi fare, ributtarle tutte in mare? È impossibile. Ci vorrebbe una settimana. Sei matto?”. L’altro gli mostra la stella marina che ha in mano, e subito prima di lanciarla in acqua risponde: “Pensi che lei dirà che sono matto?”.»

«Sì, lei è matto da legare.»

«Anche tu quando ti innamorerai canterai ad alta voce e riderai per strada. Sembrerai matto da legare.»

«Che vuol dire?»

«Che i matti sono quelli che amano. Amare puoi sempre, questo è il paradiso. Finché non ti viene tolta la capacità di amare, Federico, potrai sempre fare qualcosa. L’inferno è perdere anche la libertà di amare.»

Ci salutiamo con un abbraccio. Mi ringrazia per la compagnia e mi chiede scusa se non è stata proprio una visita di piacere.

«Buon viaggio.»

«Grazie. Buona raccolta di stelle marine.»

Mi sorride e sale in macchina.

Questa volta non è solo il labbro che si è rotto, ma l’anima. Fa più male del labbro, perché l’anima fa male dappertutto quando si rompe.

Ciò che inferno non è
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