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Il 25 luglio è una domenica in cui il sole ruggisce, ma dal mare spira un vento inaspettato e per questo ancor più fresco. È il giorno della festa che don Pino e i suoi hanno organizzato in onore di Borsellino a un anno dall’omicidio: Brancaccio per la vita. Una giornata di festa con gare di corsa e ciclistiche, tanti giochi e una bella mangiata. La Regione, che aveva promesso un finanziamento, non ha sborsato una lira: tutto è stato pagato con le offerte volontarie delle persone del quartiere. Non è stato accettato nessun aiuto dai politici locali, che si presentano solo in occasioni ufficiali a razzolare voti senza muovere un dito per Brancaccio.
Nel tardo pomeriggio Roberto, un professore, collega e amico di don Pino, legge il discorso che hanno preparato insieme:
«Sono le sette di mattina di un giorno di luglio come questo, il 19 dell’anno scorso. Benché sia domenica, Paolo Borsellino si è svegliato presto come sempre. Nella stanza in cui sta lavorando alla luce ancora fresca del mattino, sua figlia Lucia è seduta sulla poltrona. Non se ne accorge tanto è preso da quella lettera, l’ultima pagina del magistrato. È la risposta a un’insegnante che lo ha invitato a partecipare a un incontro con dei ragazzi. Per una serie di disguidi, il giudice non è riuscito a intervenire né a scrivere, così la docente gli ha inviato un’altra lettera, lamentandosi del suo silenzio. Mortificato, Borsellino si scusa per la mancata presenza all’incontro e risponde ad alcune domande che la professo-ressa gli poneva.
Il lavoro di quei mesi non gli ha consentito di trascorrere del tempo con i suoi figli: dormono quando esce di casa e al rientro è così tardi che sono già a letto. Quella domenica si è imposto di passarla con la famiglia, ecco perché all’alba è già al tavolo. Lucia racconta che il padre viene interrotto da una telefonata e solo allora si rende conto della sua presenza sulla poltrona nell’angolo dello studio. Le chiede se quel giorno ha voglia di andare al mare: la preparazione di un esame universitario le ha impedito fino a quel momento di prendere il sole. “Magari riuscirò a vederti un po’ abbronzata.” Le propone di fare un tuffo a mare, poi di andare insieme a trovare la nonna e poi di nuovo a casa: lui a lavorare, lei a studiare. Lucia rifiuta perché è il compleanno di un’amica che l’ha invitata a pranzo e con la quale farà il ripasso finale per l’esame. Dalla stanza di quell’amica, mentre studiano, Lucia sentirà l’esplosione della bomba sotto casa della nonna. La bomba che uccide suo padre e avrebbe ucciso anche lei.
Era una domenica in cui si era imposto di non lavorare e aveva portato sua moglie al mare. Poi era sparito con un amico per una gita in barca, senza avvertire la scorta, che lo aspettava a riva con apprensione. Avrà osservato per l’ultima volta la sua città, il suo immenso porto, dal mare. Quello stesso mare dal quale oggi spira quest’aria fresca e pulita.
Oggi tocca a noi ricordare quest’uomo che diceva a sua moglie: “Come sarebbe bella l’Italia se ciascuno realizzasse un suo piccolo sogno e lo offrisse agli altri”, e dimenticare invece la parola scritta nell’ultima riga della sua ultima lettera alla professoressa: “consenso”.
“La forza della mafia è nel consenso” scriveva Borsellino. Oggi noi siamo qui per ricordare un uomo che ha cercato di cancellare questa parola e ha pagato con la vita.
Ecco perché il comitato intercondominiale, con l’appoggio del centro Padre Nostro, ha richiesto ufficialmente che via Brancaccio venga reintitolata via Falcone e Borsellino. Perché, come dice sempre 3P, è dalle piccole cose che comincia ogni grande cambiamento.»
Il pubblico è numeroso. Una giornalista prende appunti. L’articolo le costerà il posto nel giornale per cui lavora. E non sarà l’ultima a commettere un simile errore: dire la verità.
Quando il professore finisce di leggere, il silenzio riempie per qualche secondo la piazza e i balconi e le finestre e il cielo. Poi un applauso porta via quel silenzio, scacciandolo insieme alla paura.
Osservo i volti sudati dei bambini. Francesco con una medaglia al collo, appena conquistata nella gara di corsa. Totò con un berretto di Paperino in testa per difendersi dal sole. Dario con gli occhi persi nel cielo. Una polifonia di volti e sorrisi. Tra questi, uno troppo familiare per essere vero.
Manfredi. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano: è fiero di me. Hanno qualcosa da raccontarsi per tutta la vita i fratelli che condividono lotte e sconfitte, risate e pianti. Nessun organismo è in grado di conservare ricordi come una coppia di fratelli che si vogliono bene. Manfredi annuisce guardandomi e adesso sono certo di aver fatto la cosa giusta.
«C’è mio fratello» sussurro a Lucia, e sorprendo una striscia umida brillare sulla sua guancia sinistra, prima che il sole e il vento se la prendano.
«Che hai detto?»
«Niente, niente.»
Lei si appoggia impercettibilmente a me e quel momento diventa un ricordo perfetto. Non mi coglie la sensazione di incompletezza che provo quando sono solo davanti a qualcosa di bello. Il contatto è lieve, ma basta perché lei e io sappiamo, pur senza dircelo, che si è trattato di un contatto desiderato.
Poi la folla mescola saluti e parole. Tanta gioia non si vedeva da tempo in questa piazza, che fatica quasi a contenerla. Per un attimo ci si rende conto che la normalità è un lusso da queste parti. Il lusso di chi si lascia complicare il cuore e le mani dalla speranza.
Se ne accorgono persino le telecamere della tv, sopraggiunte a Brancaccio non per doveri di cronaca nera. Intervistano don Pino e le sue parole risuonano nei salotti degli addormentati e in quelli di coloro che non dormono mai, e non si sa chi sia più pericoloso.
«Lavoriamo da tre anni senza risultati. Nelle anticamere di tutti i sindaci, di tutti gli assessori, del prefetto, anche in questura, anche alla USL: a chiedere almeno una scuola media, un distretto sociosanitario e un po’ di verde dove i bambini possano giocare e correre. Tutte richieste sostenute anche dal consiglio di quartiere e dal comitato intercondominiale. Risultati? Finora nessuno. C’è speranza per il distretto: l’assessore straordinario ha promesso che istruirà la pratica. I locali ci sono. Noi non smetteremo di chiedere, perché a chi bussa sarà aperto. Anche qui.»
È l’inizio di un terremoto e le telecamere ne danno testimonianza facendo rotolare nell’etere quelle parole-pietre. Le antenne le intercettano e le trasformano in segnali che attraversano i cavi e giungono inesorabili negli apparecchi dentro le case, come bombe che attendevano l’innesco.
Tutti pensano che non si è mai visto nulla di simile a Brancaccio.
Non si è mai visto un bersaglio così chiaro.
Manfredi stringe la mano al signor Mario.
«Vedi come sta. Forse sono tutte le medicine che prende» commenta Lucia. «Guarda quante confezioni…»
Io osservo la scena come se stessi guardando un film. Mio fratello è a casa di Lucia. È come se vasi comunicanti si scambiassero il rispettivo contenuto per trovare un equilibrio prima impensabile, eppure sembra che gli uomini siano fatti più per questo equilibrio che per distruggersi a vicenda. Difficile capire perché l’evoluzione ci abbia portati così lontani l’uno dall’altro. In fondo due cavalli che mangiano alla stessa greppia, dopo una gara in cui uno ha vinto e l’altro no, non perdono tempo a rimarcare la loro differenza. Mangiano alla stessa maniera. Siamo esseri contro-evolutivi, con lo stesso cervello e la stessa mano creiamo la Divina Commedia e il Mein Kampf.
«Le medicine vanno bene, ma bisognerebbe associarle ad altri farmaci, così da consentire a Mario di avere più mobilità e sensibilità. Me li procuro in ospedale e ve li faccio avere.»
«Non c’è bisogno. Siamo coperti per le spese. Basta che ci fai sapere quali sono le medicine e può prescriverle il medico di base.»
«Come volete. Prima però chiedo consiglio al mio primario, magari facciamo un periodo di prova.»
«Come dici tu.»
Manfredi sembra un dottore a tutti gli effetti. Sono fiero di mio fratello. Sul volto di Lucia e di Gemma scorgo la gioia di chi può alleviare la sofferenza altrui. Com’è elementare la vita quando la semplifichiamo con l’amore.