IV

 

Il movimento dei popoli comincia ad assestarsi entro le sue rive. Le onde del grande movimento sono rifluite e sul mare placato si formano dei cerchi in cui si agitano i diplomatici, immaginando di esser loro la causa del quietarsi del movimento.

Ma il mare placato tutto d’un tratto si risolleva. I diplomatici credono di essere stati loro, con i loro contrasti, a causare questo nuovo scuotersi di forze; si aspettano la guerra fra i loro sovrani, la situazione sembra senza via d’uscita.

Ma l’ondata, della quale avvertono l’impeto, non viene dalla parte da cui se l’aspettano. È sempre la stessa onda che si solleva dallo stesso punto di partenza: Parigi. Ha luogo l’ultima ondata di riflusso del movimento da occidente, ondata di riflusso che dovrà risolvere le difficoltà diplomatiche apparentemente insolubili e porre fine al movimento bellico di questo periodo.

L’uomo che ha devastato la Francia, solo, senza una congiura, senza soldati, arriva in Francia. Qualsiasi guardia potrebbe catturarlo; ma, per uno strano caso, non solo nessuno lo cattura, ma tutti accolgono con entusiasmo l’uomo che maledicevano il giorno prima e malediranno tra un mese.

Quest’uomo è ancora necessario per giustificare l’ultima azione collettiva.

L’azione è compiuta. L’ultima parte è stata recitata. Si ordina all’attore di spogliarsi e di togliersi il cerone e il belletto: non si avrà più bisogno di lui.

E passano alcuni anni durante i quali quest’uomo, nella solitudine della sua isola, recita dinanzi a se stesso una miserevole commedia, ordisce intrighi e mente, cercando di giustificare le proprie azioni, quando questa giustificazione non è più necessaria, e mostra a tutto il mondo che cosa fosse in realtà ciò che gli uomini avevano scambiato per una forza ai tempi in cui una mano invisibile lo guidava.

Il regista, terminato il dramma, spogliato l’attore, ce lo mostra: «Guardate in che cosa avete creduto! Eccolo!

Lo capite ora che ero io a muovervi, non lui?»

Ma gli uomini, acciecati dalla forza del movimento, per molto tempo non lo capirono.

Ancora maggiori sono la connessione e la necessità che ci mostra la vita di Alessandro I, il personaggio che fu a capo del contromovimento da oriente a occidente. Che cosa occorreva a un uomo che mettendo in ombra tutti gli altri, dovesse porsi alla testa di questo movimento da oriente a occidente?

Era necessario il senso della giustizia, un interesse per le vicende europee, ma distaccato, non offuscato da brighe meschine, occorreva il predominio morale sui compagni, cioè i sovrani di quel tempo, occorreva una personalità mite e attraente; occorreva un risentimento personale contro Napoleone. E tutto questo Alessandro I lo aveva; tutto questo si era preparato attraverso infiniti cosiddetti casi fortuiti di tutta la sua vita precedente: dall’educazione e dalle iniziative liberali, e dai consiglieri che lo circondavano, e da Austerlitz, e da Tilsit e da Erfurt.

Durante la guerra nazionale questo personaggio resta passivo, giacché non c’è bisogno di lui. Ma non appena si profila la necessità di una guerra generale europea, egli compare al momento debito e al posto giusto e unendo i popoli d’Europa, li conduce alla meta.

La meta è raggiunta. Dopo l’ultima guerra del 1815, Alessandro è all’apice del potere. Come lo impiega?

Alessandro I, il pacificatore dell’Europa, l’uomo che sin dai suoi giovani anni ha aspirato solo al bene dei suoi popoli, l’iniziatore delle riforme liberali nella sua patria, ora che possiede un enorme potere e perciò la possibilità di fare il bene dei suoi popoli, mentre Napoleone in esilio fa piani infantili e menzogneri sul modo in cui avrebbe reso felice l’umanità se avesse mantenuto il potere, Alessandro I, adempiuta la sua missione e sentendo su di sé la mano di Dio, a un tratto riconosce la nullità di questo apparente potere, gli volta le spalle, lo affida a uomini spregevoli e che lui disprezza e dice soltanto:

«”Non a noi, non a noi, ma al Nome Tuo!” Io sono un uomo come voi; lasciatemi vivere come un uomo e pensare alla mia anima e a Dio.»

Come il sole e ogni atomo dell’etere sono una sfera in sé finita e nello stesso tempo solo un atomo di un tutto, inaccessibile all’uomo per la sua grandezza, così ogni persona singola porta in sé i propri fini e nello stesso tempo serve a fini universali inaccessibili all’uomo.

L’ape, che prima era posata su un fiore, punge un bambino. E il bambino ha paura delle api e dice che il fine delle api è nel pungere la gente. Il poeta ammira l’ape che sorbisce dal calice di un fiore e dice che il fine delle api è di assorbire l’aroma dei fiori. L’apicultore, osservando l’ape raccogliere il polline e portarlo nell’alveare, dice che il fine delle api sta nel fare il miele. Un altro apicultore, studiando più da vicino la vita dello sciame, dice che le api raccolgono il polline per nutrire le giovani api e mantenere la regina e che il loro fine è la continuazione della specie. Un botanico osserva che, volando col polline di un fiore dioico su un pistillo, l’ape lo feconda, e il botanico vede in questo il fine delle api. Un altro, osservando la disseminazione delle piante, vede che l’ape favorisce questa disseminazione: questo osservatore può dire che in questo consiste il fine delle api. Ma il fine ultimo delle api non si esaurisce né nel primo, né nel secondo, né nel terzo fine che la mente umana è in grado di scoprire. Quanto più si prodiga la mente umana nella scoperta di tali fini, tanto più le risulta evidente che il fine ultimo è per lei inaccessibile.

All’uomo è dato solo di osservare i nessi che uniscono la vita delle api con gli altri fenomeni della vita. Lo stesso si può dire dei fini dei personaggi storici e dei popoli.

V

Il matrimonio di Nataša, che nel 1813 si sposò con Bezuchov, fu l’ultimo avvenimento felice nella vecchia famiglia dei Rostov. In quello stesso anno il conte Il’ja Andreeviè morì e, come sempre accade, con la sua morte la famiglia si disgregò.

Gli avvenimenti dell’ultimo anno: l’incendio di Mosca e la fuga, la morte del principe Andrej e la disperazione di Nataša, la morte di Petja, il dolore della contessa, - si abbatterono come un colpo dopo l’altro sul capo del vecchio conte. Egli pareva non capire e non essere in grado di capire il significato di tutti questi avvenimenti, e moralmente chinando la vecchia testa, pareva aspettare e chiedere nuovi colpi che lo finissero. A volte sembrava spaventato e smarrito, a volte animato e intraprendente in modo innaturale.

Il matrimonio di Nataša lo occupò per qualche tempo con i suoi aspetti esteriori. Ordinava i pranzi e cene, e voleva chiaramente sembrare allegro, ma la sua allegria non era contagiosa come una volta, suscitava al contrario un senso di pena nelle persone che lo conoscevano e gli volevano bene.

Dopo la partenza di Pierre con la moglie, si fece silenzioso e cominciò a soffrire di malinconia. Alcuni giorni dopo si ammalò e si mise a letto. Fin dai primi giorni della malattia, nonostante le assicurazioni dei medici, capì che non si sarebbe più alzato. La contessa passò due settimane in poltrona al suo capezzale, senza mai spogliarsi. Ogni volta che gli dava una medicina, il conte le baciava in silenzio la mano, piangendo. L’ultimo giorno, fra i singhiozzi chiese perdono alla moglie e al figlio lontano di aver rovinato il patrimonio, la colpa più grande che sentiva di avere. Dopo aver fatto la comunione e aver ricevuto l’estrema unzione, morì quietamente, e il giorno dopo una folla di conoscenti venuti a dare l’estremo saluto al defunto, riempiva l’appartamento in affitto dei Rostov. Tutti questi conoscenti, che tante volte avevano pranzato e ballato in casa sua, che tante volte avevano riso di lui, ora con un identico sentimento di rimorso e di commozione, come giustificandosi di fronte a qualcuno, dicevano: «Sì, comunque la si pensi, era però un uomo eccellente. Uomini così oggi non se ne trovano più. E chi non ha le sue debolezze?»

Proprio nel momento in cui i suoi affari erano talmente aggrovigliati da rendere difficile pensare una via d’uscita se si fosse andati avanti così ancora per un anno, il conte improvvisamente morì.

Nikolaj si trovava con le truppe russe a Parigi quando gli giunse la notizia della morte del padre. Chiese subito il congedo e senza aspettarlo si fece dare una licenza e raggiunse Mosca. La situazione finanziaria a un mese dalla morte del conte si era perfettamente delineata, meravigliando tutti per l’enormità della cifra causata da vari piccoli debiti, di cui nessuno sospettava nemmeno l’esistenza. I debiti ammontavano al doppio del patrimonio.

I parenti e gli amici consigliarono a Nikolaj di rifiutare l’eredità. Ma in questo rifiuto Nikolaj vedeva una specie di rimprovero alla memoria, per lui sacra, del padre e perciò non ne volle sentir parlare e accettò l’eredità con l’obbligo di pagare i debiti.

I creditori, che avevano taciuto per tanto tempo, legati, finché il conte era in vita, da quella vaga ma potente influenza che esercitava su di loro la sua stanca bontà, adirono ad un tratto tutti alle vie legali. Si assistette così, come sempre succede, a una specie di gara a chi avrebbe ricevuto per primo quanto gli spettava e quelle stesse persone che, come Miten’ka e altri, avevano avuto in regalo cambiali senza valore, si dimostrarono ora i creditori più esigenti. A Nikolaj non si concedevano né dilazioni, né momenti di tregua, e quelli che evidentemente avevano avuto pietà del vecchio, che era il responsabile delle loro perdite (se perdite c’erano state), ora si scagliavano spietatamente contro il giovane erede che era evidentemente senza colpa di fronte a loro e che si era assunto volontariamente l’onere del pagamento.

Nessuna delle soluzioni proposte da Nikolaj riuscì; la tenuta fu venduta all’asta a metà prezzo, e la metà dei debiti rimase ancora da pagare. Nikolaj accettò trentamila rubli offertigli dal cognato Bezuchov per pagare quella parte dei debiti che egli riconosceva come debiti reali, debiti in denaro. E per non finire in carcere per gli altri debiti, cosa di cui i creditori lo minacciavano, decise di riprendere un impiego statale.

Tornare nell’esercito, dove al primo posto vacante sarebbe diventato comandante di reggimento, non era possibile, perché sua madre si era attaccata a lui come all’ultima ragione di vita; e perciò, nonostante la sua avversione a fermarsi a Mosca in un ambiente di persone che l’aveva conosciuto precedentemente, e la sua repulsione per un impiego civile, Nikolaj trovò a Mosca un posto nell’amministrazione civile e, toltasi l’amata uniforme, si stabilì con la madre e con Sonja in un piccolo appartamento a Sivcev-Vražëk.

Nataša e Pierre abitavano in quel periodo a Pietroburgo senza avere un’idea chiara della situazione di Nikolaj.

Prendendo a prestito del denaro dal cognato, Nikolaj aveva cercato di tenergli nascosta la sua disastrosa situazione.

Infatti, con i milleduecento rubli dello stipendio non solo doveva mantenere sé, Sonja e la madre, ma doveva mantenere sua madre in modo che non si accorgesse della loro povertà. La contessa non poteva capire come fosse possibile vivere senza quelle condizioni di lusso che le erano abituali sin dall’infanzia e senza rendersi conto delle difficoltà che creava al figlio, pretendeva ora la carrozza, che essi non avevano, per mandare a prendere una conoscente, ora dei cibi costosi per sé o del vino per il figlio, ora del denaro per fare una sorpresa a Nataša, a Sonja o allo stesso Nikolaj.

Sonja si occupava dell’andamento della casa, faceva compagnia alla zia, leggeva per lei ad alta voce, sopportava i suoi capricci e la sua malcelata insofferenza e aiutava Nikolaj a nascondere alla vecchia contessa la situazione di indigenza in cui versavano. Nikolaj sentiva nei riguardi di Sonja un debito di riconoscenza che non avrebbe mai potuto pagare, per quello che faceva per sua madre, ammirava la sua pazienza e la sua devozione, ma cercava di tenersela lontana.

Era come se in cuor suo la rimproverasse di essere troppo perfetta e di non offrir motivo di rimproveri. Sonja aveva tutte quelle qualità che fanno stimare una persona, ma poco di quelle che ti inducono ad amarla. Ed egli sentiva che quanto più la stimava, tanto meno l’amava. L’aveva presa in parola quando in quella lettera gli aveva restituito la libertà e ora si comportava con lei come se tutto ciò che c’era stato tra di loro fosse da tempo dimenticato e non potesse mai più ripetersi.

La situazione di Nikolaj peggiorava sempre di più. L’idea di poter fare dei risparmi sullo stipendio si era dimostrata un’illusione. Non solo non metteva niente da parte, ma per soddisfare le esigenze della madre, faceva dei piccoli debiti. Non intravvedeva nessuna via d’uscita dalla sua situazione. L’idea, suggeritagli dai parenti, di un matrimonio con una ricca ereditiera gli riusciva odiosa. L’altra via d’uscita da quella situazione - la morte della madre -

non gli balenò mai in mente. Non desiderava nulla, non sperava in nulla; e nel profondo dell’anima provava una cupa e severa voluttà nel sopportare con rassegnazione la situazione. Cercava di evitare i conoscenti di un tempo, la loro commiserazione e le avvilenti e offensive offerte d’aiuto, evitava ogni distrazione e ogni divertimento, persino a casa non si occupava di nulla se non di giocare a carte con sua madre, passeggiare in silenzio per la stanza e fumare una pipa dopo l’altra. Pareva custodire con cura quel suo stato d’animo tetro, nel quale solo si sentiva in grado di sopportare la sua situazione.

Guerra e Pace
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