IX

 

Vennero le feste di Natale e, oltre alla messa solenne, oltre ai solenni e noiosi auguri degli amici e dei servitori, oltre ai vestiti nuovi per tutti, non accadde nulla di speciale a contrassegnare quelle festività; ma, con quei venti gradi sotto zero, con quel gelo senza vento, con quel sole sfolgorante e accecante e, di notte, quell’invernale scintillio delle stelle si sentiva il bisogno di qualcosa che desse colore a simili giornate.

Il terzo giorno delle feste, dopo il pranzo, tutti i familiari si erano ritirati nelle loro camere. Era il momento più noioso della giornata. Nikolaj, che quella mattina era andato in visita dai vicini, dormiva nella stanza dei divani. Il vecchio conte riposava nel suo studio. In salotto Sonja, seduta al tavolo rotondo, ricalcava il disegno per un ricamo. La contessa disponeva le carte per un solitario. Nastas’ja Ivanovna, il buffone, se ne stava seduto con aria melanconica accanto alla finestra in compagnia di due vecchiette. Nataša entrò nella stanza, si avvicinò a Sonja, guardò che cosa faceva, poi si accostò a sua madre e si fermò in silenzio.

«Perché giri come un’anima in pena?» le chiese la contessa. «Che cosa ti occorre?»

«Ho bisogno di lui… subito, in questo istante, ho bisogno di lui,» disse Nataša con gli occhi lucenti, senza sorridere.

La contessa alzò il capo e guardò attentamente sua figlia.

«Non guardatemi, mamma, non guardatemi: se no mi metto subito a piangere.»

«Siediti, sta un po’ qui con me,» disse la contessa.

«Mamma, io ho bisogno di lui. Perché devo sprecarmi così, mamma?…»

La voce le si spezzò; le lacrime le salirono agli occhi; per nasconderle, ella si volse frettolosamente e uscì dalla stanza. Andò nella stanza dei divani, si fermò un momento pensierosa e poi andò nella stanza delle cameriere. Qui una vecchia domestica stava brontolando contro una ragazza che era giunta di corsa dal cortile, senza fiato per il freddo.

«Basta giocare,» diceva la vecchia. «C’è tempo per tutto.»

«Lasciala stare, Kondrat’evna,» disse Nataša, «Va’, Mavruša, va’ pure.»

E, lasciata andar fuori Mavruša, Nataša attraversò la sala per raggiungere l’anticamera. Tre domestici, due giovani e un vecchio, giocavano a carte. Vedendo entrare la signorina, interruppero il gioco e si alzarono.

«Che debbo fare di loro?» pensò Nataša.

«Sì, Nikita, per piacere, va’…» («Dove potrei mandarlo?…»)

«Sì, va in cortile, e portami un gallo, per piacere; e tu, Miša, portami un poco di avena.»

«Vi devo portare un poco di avena?» disse Miša, con allegro zelo.

«Va’, spicciati,» disse il vecchio di rincalzo.

«Tu trovami del gesso, Fëdor.»

Passando davanti alla dispensa diede ordine di portare il samovar sebbene non fosse affatto l’ora del tè.

Il dispensiere Foka era l’uomo più burbero di tutta la casa. A Nataša piaceva sperimentare su di lui la propria autorità. Foka, infatti, non le credette e andò a domandare se fosse vero.

«Ah, questa padroncina!» commentò Foka, fingendo di essere contrariato con Nataša.

Nessuno in casa mandava tanta gente a destra e a manca, né gli dava tanto da fare quanto Nataša. Le bastava vedere qualcuno, e subito lo spediva in qualche posto. Si sarebbe detto che volesse provare se qualcuno di loro non si sarebbe arrabbiato, non le avrebbe tenuto il broncio; ma invece non c’era nessuno ai cui ordini la servitù adempisse tanto volentieri come a quelli di Nataša.

«Che cosa potrei fare? Dove potrei andare?» pensava Nataša, camminando lentamente per il corridoio.

«Nastas’ja Ivanovna, chi mai potrà nascere da una persona come me?» domandò al buffone, che le veniva incontro col suo giubbetto da donna.

«Pulci, cicale, grilli!» rispose il buffone.

«Dio mio, Dio mio, sempre le stesse cose! Ah, dove potrei andare a cacciarmi? Che cosa posso fare di me?»

E prese a correre svelta, battendo i piedi, su per le scale, per andare da Vogel, che abitava con la moglie al piano di sopra. Da Vogel c’erano le due governanti; sulla tavola c’erano piatti con uva secca, noci, mandorle. Le governanti discutevano per stabilire se la vita fosse meno costosa a Mosca oppure a Odessa. Nataša sedette, prese ad ascoltare i loro discorsi con aria seria e pensierosa, poi si alzò.

«L’isola di Madagascar,» disse. «Ma-da-ga-scar,» ripeté spiccando distintamente ogni sillaba e, senza rispondere a M.me Schoss che le chiedeva che cosa stesse mai dicendo, uscì dalla stanza.

Anche Petja era di sopra; insieme col suo tutore stava trafficando insieme a un fuoco d’artificio che aveva intenzione di lanciare quella notte.

«Petja, Petja!» gridò Nataša. «Portami giù.»

Petja le corse vicino e le porse la schiena. Lei gli saltò sopra, gli cinse il collo con le braccia e lui corse giù saltellando.

«No, non bisogna… l’isola di Madagascar,» disse e, scivolando giù dalla schiena del fratello, scese da sola.

Come avesse fatto il giro di un suo reame per mettere alla prova il suo potere, e si fosse convinta che tutti erano sottomessi, ma che, ad onta di questo, ci si annoiava, Nataša andò in sala, prese la chitarra, si sedette in un angolo buio, dietro uno stipetto, e prese a pizzicare le corde in tono di basso, suonando una frase che ricordava, da un’opera che aveva udito a Pietroburgo insieme col principe Andrej.

Per gli estranei che la stavano ascoltando, le note sprigionate dalla chitarra non avevano alcun senso, ma nell’immaginazione di Nataša rinasceva da quei suoni tutta una serie di ricordi. Stava seduta dietro lo stipetto, con gli occhi fissi su una striscia di luce che usciva dalla porta della dispensa, ascoltava se stessa e si abbandonava all’onda dei ricordi.

Sonja attraversò la sala con un bicchierino d’acqua in mano, diretta alla dispensa. Nataša la guardò, poi guardò la fessura della porta della dispensa e le parve di ricordare che già un’altra volta la luce dalla porta filtrava proprio come ora, e Sonja era passata col bicchierino in mano. «Sì, questo è già accaduto, tale e quale,» pensò.

«Sonja, che cos’è questo?» gridò Nataša pizzicando la corda più grossa.

«Ah, sei qui!» esclamò Sonja, trasalendo; si avvicinò e rimase in ascolto. «Non lo so. La bufera? » propose timidamente, temendo di sbagliare.

«Ecco, era trasalita anche allora: proprio così. Si era avvicinata e anche l’altra volta aveva sorriso timidamente,» pensò Nataša, «e proprio nello stesso modo… anche allora avevo pensato che in lei manca qualcosa.»

«No, è il coro del Portatore d’acqua, senti?» E Nataša prese a cantare il motivo del coro perché Sonja potesse rendersene conto. «Dove stavi andando?» domandò poi.

«A cambiare l’acqua nel bicchiere. Sto per finire di ricalcare il ricamo.»

«Tu hai sempre qualcosa da fare, mentre io non ne sono capace,» disse Nataša. «E Nikolen’ka dov’è?»

«Dorme, mi pare.»

«Va’ a svegliarlo, Sonja,» disse Nataša. «Digli che sono io che lo cerco, per cantare.»

Si sedette e cominciò a pensare cosa volesse dire il fatto che tutto fosse già accaduto un’altra volta; poi, senza risolvere quel problema e senza nemmeno dolersene troppo, la sua immaginazione la riportò al periodo in cui era insieme con lui e lui la guardava con occhi innamorati.

«Ah, se almeno arrivasse presto! Ho tanta paura che questo non avvenga! E, soprattutto, invecchio! In me non ci sarà più tutto quello che c’è ora. Ma invece, chissà, forse arriverà oggi, arriverà subito. Forse è già arrivato ed è all’albergo. Forse è già arrivato, è arrivato ieri e io me ne sono dimenticata.» Si alzò, posò la chitarra e andò in salotto.

Tutti i familiari, i tutori, le governanti e gli invitati erano già seduti alla tavola del tè, intorno alla quale stavano in piedi i domestici; ma il principe Andrej non c’era, e la solita vita, la vita di tutti i giorni, continuava.

«Ah, eccola,» disse Il’ja Andrejè, vedendo Nataša che entrava. «Suvvia, siediti qui accanto a me.»

Ma Nataša si fermò vicino alla madre, guardandosi attorno come se cercasse qualcuno.

«Mamma!» esclamò. «Datemi lui, datemelo, mamma, ma presto, presto!» E di nuovo trattenne a fatica i singhiozzi.

Si sedette a tavola, mettendosi ad ascoltare i discorsi degli anziani e di Nikolaj che a sua volta aveva raggiunto il gruppo per il tè.

«Dio mio, Dio mio, sempre le stesse facce, gli stessi discorsi, il papà che regge sempre la tazza nello stesso modo e nello stesso modo soffia sul tè!» pensava Nataša, sgomenta di accorgersi che in lei nasceva un senso di disgusto, nel confronto di tutti i familiari, per il semplice fatto che fossero sempre eguali.

Dopo il tè Nikolaj, Sonja e Nataša andarono nella sala dei divani, nel loro angolo preferito, dove sempre avevano luogo le loro conversazioni più intime.

X

«Ti succede,» chiese Nataša a Nikolaj quando furono seduti nella stanza dei divani, «ti succede di avere l’impressione che non accadrà più niente; che tutto quello che può accadere di bello è già accaduto? E di provare una sensazione, non di noia, ma di tristezza?»

«Come no!» rispose Nikolaj. «Capita che tutto vada bene, che tutti siano contenti; e io, invece, ho l’impressione che tutto ormai è noioso e tutti, ormai, devono morire. Una volta, al reggimento, non ho nemmeno approfittato della libera uscita; eppure si sentiva suonare la musica… ma, a un tratto, tutto m’era preso in uggia…»

«Ah, la conosco questa cosa. Lo so, lo so,» confermò Nataša. «Ero ancora piccola che questo mi capitava già.

Ti ricordi che una volta mi avevano punito per certe prugne, e tutti voi ballavate e io me ne stavo nella stanza di studio a singhiozzare. Non lo dimenticherò mai: ero triste e provavo pena per tutti, per me e per tutti. E, soprattutto, non avevo nessuna colpa,» disse Nataša, «ti ricordi?»

«Mi ricordo,» disse Nikolaj. «Mi ricordo che poi sono venuto da te e avrei voluto consolarti. E mi vergognavo, sai? Eravamo molto buffi tutti e due. Avevo un giocattolo, un fantoccio, e volevo regalartelo. Ti ricordi?»

«E ti ricordi,» disse Nataša con un sorriso assorto, «che tanto, tanto tempo fa, quando eravamo ancora piccoli, lo zio ci aveva chiamati nello studio, ancora nella vecchia casa, e faceva buio; e noi ci siamo andati, ma, tutt’a un tratto, lì, in piedi vediamo…»

«Un moro,» finì Nikolaj al posto suo, con un sorriso pieno di gioia, «come vuoi che non mi ricordi? Ancora adesso non so se fosse proprio un negro o se ce lo fossimo sognato o se ce l’abbiano raccontato.»

«Era grigio, ti ricordi? Con i denti bianchi; stava lì in piedi e ci guardava…»

«Voi ve ne ricordate, Sonja?» domandò Nikolaj.

«Sì, sì, anche a me sembra di ricordare qualcosa,» rispose Sonja, timidamente.

«Io poi ho domandato di quel negro al papà e alla mamma,» disse Nataša, «loro dicono che non c’è mai stato nessun negro. Ma tu te ne ricordi bene!»

«Come no, mi ricordo i suoi denti come fosse ora.»

«Com’è strano! È come se fosse stato un sogno. Questo a me piace.»

«E ti ricordi di quando facevamo rotolare le uova nel salone e, a un tratto, sono comparse due vecchie e hanno cominciato a fare le piroette sul tappeto? Questo è accaduto, sì o no? Ti ricordi com’era bello?»

«Sì. E ti ricordi di quando il papà con la pelliccia blu ha sparato con il fucile sull’ingresso?»

Riandavano così nella memoria, sorridendo, abbandonandosi al piacere di ricordare: e non era il mesto ricordare senile, ma il poetico ricordare giovanile: quelle impressioni del passato in cui i sogni si fondono con la realtà, e ridevano piano, contenti di chissà che.

Come sempre, Sonja se ne stava in disparte, sebbene i loro ricordi fossero comuni.

Sonja non si ricordava di molte cose che loro andavano rievocando, e anche ciò di cui conservava il ricordo non suscitava in lei quel sentimento poetico che provavano Nikolaj e Nataša. Lei provava semplicemente piacere al vedere la loro gioia e si sforzava di mostrare che vi partecipava.

In realtà partecipò alle loro rievocazioni solo quando si ricordarono di lei che arrivava per la prima volta in casa loro. Allora raccontò di come avesse paura di Nikolaj, perché aveva dei cordoncini sulla blusa e la njanja le aveva detto che avrebbero cucito anche lei con quei cordoncini.

«E a me, figurati, avevano detto che tu eri nata sotto un cavolo,» disse Nataša, «e mi ricordo che allora non osavo non crederci, ma sapevo che non era vero e mi sentivo imbarazzata.»

Durante questi discorsi alla porta posteriore della stanza dei divani si affacciò la testa di una cameriera.

«Signorina, hanno portato il gallo,» disse la ragazza a bassa voce.

«Non serve, Polja, di’ che lo riportino via,» disse Nataša.

Mentre era in corso la conversazione nella stanza dei divani, entrò Dimmler e si avvicinò all’arpa che stava in un angolo. Tolse la fodera e l’arpa emise un suono falso.

«Eduard Karliè, per piacere suonate il mio prediletto Nocturne di monsieur Field,» disse la voce della contessa dal salotto.

Dimmler prese un accordo e, rivolgendosi a Nataša, a Nikolaj e a Sonja, disse:

«Come se ne sta seduta buona buona, questa gioventù!»

«Sì, stiamo filosofando,» disse Nataša, voltandosi a guardare per un momento. Poi continuò la conversazione, che ora verteva sui sogni.

Dimmler cominciò a suonare. Nataša si avvicinò al tavolo in punta di piedi, prese una candela, la portò fuori, e, ritornata indietro, sedette senza far rumore al suo posto. Nella stanza, soprattutto intorno al divano sul quale loro erano seduti, c’era buio, ma, attraverso le grandi finestre, pioveva sul pavimento il raggio della luna piena.

«Sai,» disse Nataša in un bisbiglio, facendosi più accosto a Nikolaj e a Sonja, quando ormai Dimmler aveva finito e continuava a starsene lì seduto, pizzicando le corde, evidentemente indeciso se smettere di suonare o cominciare un nuovo brano, «sai, io penso che quando si ricorda così, si ricorda proprio tutto; allora si ricordano tante cose che ci sembra di ricordare anche quello che è accaduto prima di venire al mondo…»

«Questa è la metempsicosi,» disse Sonja, che aveva sempre studiato con diligenza e si ricordava di tutto. «Gli antichi egizi credevano che le nostre anime fossero dapprima vissute nel corpo degli animali e poi tornassero a trasmigrarvi, dopo esser state dentro di noi.»

«No, sai, io non credo che noi prima fossimo negli animali,» disse Nataša, sempre a bassa voce, sebbene la musica fosse finita, «e so con certezza che eravamo angeli in qualche luogo, e siamo stati anche qui; per questo, dopo, ricordiamo tutto…»

«Posso unirmi a voi?» domandò piano Dimmler, che si era avvicinato; e sedette accanto a loro.

«Ma se eravamo angeli, perchè siamo caduti più in basso?» disse Nikolaj. «No, questo non è possibile!»

«Non più in basso; chi ti ha detto che siamo più in basso?… Forse che io posso sapere che cos’ero prima?»

replicò Nataša, convinta. «L’anima è immortale, no? Dunque, se vivrò sempre, vivevo anche prima, vivo in eterno.»

«Sì, ma per noi è difficile immaginare l’eternità,» osservò Dimmler, che si era avvicinato ai giovani con un tenue sorriso di disprezzo, ma adesso parlava con loro a bassa voce e in tono molto serio.

«Perché dovrebbe essere difficile immaginare l’eternità?» disse Nataša. «È oggi, sarà domani, sarà sempre; ed era anche ieri, e l’altroieri…»

«Nataša, adesso è il tuo turno. Cantami qualcosa,» si fece udire la voce della contessa, «perché ve ne state seduti lì come dei cospiratori?»

«Mamma, non ne ho proprio voglia,» rispose Nataša, ma intanto si era alzata.

Nessuno di loro, nemmeno Dimmler che non era più giovane, aveva voglia di interrompere la conversazione e di allontanarsi da quell’angoletto della stanza dei divani, ma Nataša si era alzata e allora Nikolaj sedette al clavicembalo.

Come sempre, mettendosi in mezzo alla sala e scegliendo il posto migliore per la risonanza, Nataša cominciò a cantare il brano che sua madre prediligeva.

Aveva detto che non aveva voglia di cantare, ma da molto tempo non aveva cantato come cantò quella sera e per molto tempo dopo non le accadde di cantare più così. Dallo studio, dove stava consultandosi con Miten’ka, il conte Il’ja Andreiè ascoltava il suo canto e, come uno scolaretto che ha fretta di andare a giocare allorché la lezione volge al termine, s’imbrogliava nelle parole mentre dava le disposizioni all’amministratore: infine tacque, mentre Miten’ka, ponendosi anche lui in ascolto, stava in piedi davanti al conte, sorridendo. Nikolaj non distoglieva gli occhi dalla sorella e riprendeva fiato solo quando lo riprendeva lei. Sonja, ascoltando, pensava all’enorme differenza che la separava dalla sua amica e come non le riuscisse nemmeno lontanamente di avere il fascino di sua cugina. La vecchia contessa sedeva col suo sorriso fra il triste e il lieto, e ogni tanto scuoteva la testa mentre le lacrime le salivano agli occhi. Pensava a Nataša e alla propria giovinezza, e a come, in quell’imminente matrimonio di Nataša col principe Andrej, ci fosse qualcosa d’artificioso che le metteva paura.

Dimmler, che si era seduto accanto alla contessa, ascoltava con gli occhi chiusi.

«No, contessa,» disse alla fine, «è un talento di portata europea, non ha bisogno di imparare altro; è di una dolcezza, di una tenerezza, di una forza…»

«Ah, quanta paura provo per lei, quanta paura,» disse la contessa senza ricordarsi chi fosse la persona alla quale stava parlando.

Il suo istinto materno le diceva che in Nataša c’era un’esuberanza di vitalità, qualcosa che avrebbe finito per renderla infelice. Nataša non aveva ancora finito di cantare che nella stanza entrò di corsa il quattordicenne Petja, il quale, tutto entusiasta, recò la notizia che erano arrivate le maschere.

Nataša si fermò d’improvviso.

«Stupido!» gridò al fratello; corse verso la sedia, vi si lasciò cadere e scoppiò in singhiozzi, tanto che per un pezzo non riuscì più a riprendersi.

«Non è niente, mamma, non è niente credimi; e solo che Petja mi ha spaventata,» diceva Nataša, cercando di sorridere, ma le lacrime continuavano a sgorgare e i singhiozzi le serravano la gola.

I servi, mascherati da orsi, da turchi, da osti, da signore, alcuni spaventosi, altri buffi, recando con sé l’allegria e il freddo dall’esterno, prima si pigiarono timidamente in anticamera, poi, nascondendosi l’uno dietro l’altro, si affollarono nel salone; infine, dapprima timidi, poi sempre più allegri e rilassati, cominciarono le loro canzoni, i loro balli, i loro girotondi e i giochi di Natale. La contessa, dopo aver riconosciuto i visi e aver riso delle maschere, andò nel salone. Qui il conte Il’ja Andreiè se ne stava seduto con un raggiante sorriso di compiacenza per le maschere. I giovani erano scomparsi chissà dove.

Mezz’ora dopo, fra le altre maschere, nella sala comparve anche una vecchia signora in jupon: era Nikolaj.

Petja era una turca, Dimmler un pagliaccio, Nataša un ussaro e Sonja un circasso, con i baffi e le sopracciglia disegnate con un turacciolo bruciacchiato.

Dopo che le persone non mascherate ebbero manifestato la loro compiacente meraviglia ed ebbero finto di non riconoscerli, i giovani decisero che i loro costumi erano così belli che bisognava mostrarli a qualcun altro.

Nikolaj, che aveva una gran voglia di condurre tutti nella sua trojka su una bellissima strada, propose di andare dallo zio e di portare con sé una decina dei servi in maschera.

«No, povero vecchio, perché volete andarlo a frastornare?» protestò la contessa. E poi da lui non si riesce nemmeno a rigirarsi. Se volete proprio andare, andate dai Meljukov.»

La Meljukova era una vedova con vari figli di diversa età, governanti e precettori, e abitava a quattro verste dai Rostov.

«Ecco, ma chère, questa sì è una buona idea,» approvò il vecchio conte tutto allegro. «Lasciate che mi metta in maschera anch’io e vengo con voi. La scuoterò io, quella Pachette.»

Ma la contessa non accettò di lasciar andare il conte: per tutti quei giorni aveva sentito male a una gamba.

Decisero che lui non poteva andare, ma che se Luiza Ivanovna (M.me Schoss), le avesse accompagnate, sarebbero potute andare anche le signorine. Sonja, sempre timida e ritrosa, questa volta si mise a pregare con più insistenza degli altri affinché Luiza Ivanovna non ricusasse.

Il costume di Sonja era il più bello di tutti. I baffi e le sopracciglia disegnati col turacciolo le stavano straordinariamente bene. Tutti le dicevano che era molto bella e lei era in uno stato d’animo euforico che non le era consueto. Una voce interna le diceva che la sua sorte si sarebbe decisa quel giorno o mai e nel suo vestito maschile, sembrava tutt’altra persona. Luiza Ivanovna accondiscese ad andare e mezz’ora dopo si avvicinarono all’ingresso quattro trojke fischiando e stridendo coi pattini sulla neve gelata, fra un tintinnio di sonagli e di campanelli.

Nataša era la prima a dare il la all’allegria natalizia, e quest’allegria, riverberandosi dall’uno all’altro, andava crescendo sempre più. Giunse al più alto grado nel momento in cui tutti uscirono in quel gelo e, chiacchierando, chiamandosi a vicenda, ridendo e gridando, presero posto nelle slitte.

Due trojke erano da corsa; la terza, di proprietà del vecchio conte, era trainata da un buon trottatore di razza di Orël; la quarta era la trojka di Nikolaj con al centro il suo morello basso, dal pelo fitto. Nikolaj, con il suo costume da vecchia, sul quale aveva indossato il mantello da ussaro legato alla cintola, se ne stava in mezzo alla sua slitta con le redini in mano.

Era così chiaro, che Nikolaj vedeva scintillare alla luce della luna le fibbie e gli occhi dei cavalli, i quali si voltavano a guardare spaventati i passeggeri che facevano chiasso sotto la buia tettoia dell’ingresso.

Nella slitta di Nikolaj presero posto Nataša, Sonja, M.me Schoss e due giovani cameriere. Sulla slitta del vecchio conte salirono Dimmler con sua moglie e Petja; nelle altre montarono i domestici in maschera.

«Va’ avanti tu, Zachar!» gridò Nikolaj al cocchiere di suo padre, per avere poi l’occasione di superarlo lungo la strada.

La trojka del vecchio conte, sulla quale erano saliti Dimmler e altre persone mascherate, si mosse per prima gemendo con i pattini, come se si fosse incollata alla neve, con un sonoro tintinnio del campanello. I due cavalli laterali si stringevano alle stanghe e sprofondavano nella neve dura e lucente, rovesciandola come zucchero.

Nikolaj si mosse dietro la prima trojka; dietro di lui rintronarono e stridettero le altre. Prima andarono al piccolo trotto lungo la strada stretta. Finché costeggiarono il giardino, le ombre degli alberi spogli si alternarono veloci sulla strada schermando la luce abbacinante della luna, ma non appena oltrepassarono il muro di cinta, da ogni parte si aprì la pianura innevata, splendida e, come sparsa di diamanti, tutta pervasa dal fulgore lunare, immobile, con riflessi blu. Una, due volte, la slitta di testa sobbalzò su una buca, nello stesso modo sobbalzarono le slitte che la seguivano e che, violando sfrontatamente quel silenzio sepolcrale, si allungavano in corsa una dietro l’altra.

«Una traccia di lepre, quante tracce!» echeggiò la voce di Nataša nell’aria gelida e immota.

«Come si vede chiaro, Nicolas!» disse la voce di Sonja.

Nikolaj si voltò verso di lei e si piegò per distinguere meglio il suo volto. Dal pelo di ermellino si affacciava un viso del tutto nuovo, un caro viso con le sopracciglia e i baffi neri, vicino e lontano, al tempo stesso, in quella luce lunare.

«Questa, prima, era Sonja,» pensava Nikolaj

La scrutò più da vicino e sorrise.

«Che cosa c’è, Nicolas?»

«Niente,» disse lui, e si volse di nuovo verso i cavalli.

Sbucati sulla grande strada battuta, resa lucente dai pattini e tutta solcata dai segni delle slitte che spiccavano alla luce lunare, i cavalli cominciarono a tendere le redini e ad accelerare l’andatura. Il cavallo di sinistra teneva la testa ripiegata e ogni tanto dava strattoni alle sue tirelle. Il cavallo di centro sbandava di qua e di là, drizzando le orecchie, come se domandasse: «Si comincia o è ancora presto?» Davanti si distingueva nettamente sulla neve bianca la trojka nera di Zachar, che li aveva distaccati e tintinnava col suono fitto del suo campanello che si udiva sempre più lontano.

Giungevano da quella slitta grida e risate, e le voci delle maschere.

«A voi, carissimi!» gridò Nikolaj, tirando da una parte le redini e agitando la mano col frustino.

E soltanto per il vento che batteva vigoroso sui volti, e per gli strattoni dei cavalli che tendevano le redini continuando ad accelerare il galoppo, ci si poteva accorgere di come la trojka procedesse veloce.

Nikolaj si voltò indietro a guardare. Le altre trojke lo incalzavano con grida e stridore, mentre le fruste si levavano per spingere al galoppo i cavalli. Il cavallo di centro continuava a tendersi ora da una parte ora dall’altra, sotto la duga, non pensando nemmeno lontanamente di rallentare e promettendo anzi di correre ancora di più, quando fosse stato necessario.

Nikolaj raggiunse la prima trojka. Discesero il dorso di un’altura e sbucarono su un largo sentiero ben tracciato che attraversava un prato, lungo il fiume.

«Per dove andiamo?» pensò Nikolaj. «Dev’essere il prato di Kosoj. Ma no, è un posto nuovo, un posto che non ho mai visto. Non è il prato di Kosoj e nemmeno l’altura di Dëmkino, lo sa Dio che razza di posti sono! Posti nuovi e posti magici! Be’, che importa, dopotutto?» E, data la voce ai cavalli, si accinse a sorpassare la prima trojka.

Zachar trattenne i cavalli e voltò la faccia, già tutta ricoperta di brina fino alle sopracciglia.

Nikolaj lanciò i suoi cavalli; Zachar, tendendo le braccia in avanti, fece schioccare la lingua e lanciò i suoi.

«Tienti ben saldo, padroncino!» esclamò.

Le trojke volarono l’una a fianco dell’altra, ancora più veloci, e le zampe dei cavalli al galoppo si alternavano rapide. Nikolaj incominciò a guadagnar terreno; Zachar, senza cambiare la posizione delle braccia tese, alzò una mano che brandiva le redini.

«Sbagli, padroncino,» gridò a Nikolaj

Nikolaj lanciò i cavalli ventre a terra e oltrepassò Zachar. I cavalli infarinavano di neve minuta e asciutta le facce dei passeggeri, al cui fianco echeggiavano senza posa le sonagliere, mentre nel rapido movimento le zampe e le ombre della trojka che stavano sorpassando si confondevano tra loro. Da varie parti si udivano strilli femminili e il sibilare dei pattini sulla neve.

Nikolaj frenò di nuovo i cavalli e si guardò attorno. Vedeva sempre la stessa pianura magica, imbevuta di luce lunare e come sparsa di stelle.

«Zachar mi grida di voltare a sinistra, ma perché a sinistra?» pensò Nikolaj. «Stiamo forse andando dai Meljukov? È forse questa Meljukovka? Dio solo sa dove stiamo andando e che cosa sta succedendo, ma quello che sta succedendo è molto strano e molto bello.»

Si volse a guardare dentro la slitta.

«Guarda, ha i baffi e le ciglia tutte bianche,» disse una di quelle strane, graziose creature sconosciute con sottili baffi e sopracciglia, che vi stavano sedute dentro.

«Questa, mi sembra, era Nataša,» pensò Nikolaj, «e quella è M.me Schoss; ma forse anche no; e quel circasso coi baffi non so proprio chi sia, ma gli voglio bene lo stesso.»

«Non avete freddo?» domandò.

Esse non risposero e scoppiarono a ridere. Dimmler gridò qualcosa dalla slitta che stava dietro: probabilmente qualcosa di buffo, ma non fu possibile capire che cosa avesse gridato.

«Sì, sì,» risposero varie voci, ridendo.

Ed ecco ora una foresta incantata con nere ombre cangianti e sprazzi di diamanti che si alternavano e una specie di enfilade di scalini di marmo e certi tetti d’argento di magici palazzi e le grida laceranti di chissà quali belve.

«Ma se questa è davvero Meljukovka, è ancora più strano che si sia andati chissà per quali strade e ora si sia giunti a MeIjukovka,» pensò Nikolaj.

Ma era proprio il villaggio di Meljukovka e all’ingresso della casa padronale accorrevano ragazze e servitori con le candele accese e le facce allegre.

«Chi sarà mai?» domandava qualcuno dalla scalinata.

«Sono maschere del conte, lo vedo dai cavalli,» rispondevano altre voci.

Guerra e Pace
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