IV

 

Lysye Gory, la tenuta del principe Nikolaj Andreiè Bolkonskij, si trovava a sessanta verste dietro Smolensk, e a tre verste dalla strada di Mosca.

La sera stessa in cui il principe impartiva disposizioni ad Alpatyè, Dessalles, chiesto un colloquio alla principessina Mar’ja, le aveva detto che, posto che il principe non era in perfette condizioni di salute e non prendeva alcuna misura precauzionale per la propria incolumità, mentre dalla lettera del principe Andrej si desumeva che la permanenza a Lysye Gory non andava esente da pericolo, egli con tutto il rispetto le suggeriva di inviare per mezzo di Alpatyè una lettera al governatore di Smolensk, pregandolo di informarla sulla situazione concreta e sull’entità del pericolo che gravava su Lysye Gory. Dessalles aveva scritto di suo pugno, a nome della principessina Mar’ja una lettera al governatore che lei poi firmò; dopo di che la missiva venne affidata ad Alpatyè con l’ordine di consegnarla al governatore e, in caso di pericolo, di far ritorno al più presto.

Avuti tutti gli ordini, Alpatyè, accompagnato dalla gente di casa, con un bianco cappello di pelo (dono del principe), e con la mazza esattamente come il principe, uscì di casa per salire sulla piccola kibitka dal mantice di cuoio, al quale erano stati attaccati tre pasciuti cavalli roani.

La sonagliera era stata legata e i sonagli riempiti di carta appallottolata: il principe non permetteva che nessuno, a Lysye Gory, circolasse con il campanello. Ma ad Alpatyè, quando era lontano, piaceva viaggiare coi bubboli e la sonagliera. La «corte» di Alpatyè, ossia l’agrimensore, l’impiegato dell’ufficio d’amministrazione, la cuoca di grosso e la cuoca di fino, due vecchie, un ragazzo che faceva da staffiere, il cocchiere e altri servitori, lo accompagnarono fino alla carrozza.

La figlia gli accomodava dietro la schiena e sul sedile i cuscini di piuma foderati di indiana. Una delle vecchie, sorella della moglie, gli passò di soppiatto un fagottino; poi uno dei cocchieri lo aiutò a montare prendendolo sotto il braccio.

«Via, via, con tutte queste premure, donnette! Eh, queste donne!» brontolò con spedito scilinguagnolo Alpatyè imitando il vecchio principe; poi sedette dentro a piccola kibitka. Dopo aver dato le ultime disposizioni all’agrimensore per i lavori in corso (e in questo non si curò di imitare il principe) Alpatyè si tolse il copricapo di pelo dalla testa calva e si fece tre volte il segno della croce.

«Per amor di Dio se ci fosse qualcosa che non va torna indietro. Jakov Alpatyè. Abbiate pietà di noi!» gli gridò la moglie alludendo alle voci che correvano sulla guerra e sul nemico.

«Donne, donne! Tutte premure da donnette, queste!» pensava Alpatyè e partì, girando lo sguardo intorno, sui campi a tratti gialli di segale, altrove ancor verdi di avena, in altri punti neri di terra smossa ove era appena iniziata la seconda aratura. Alpatyè procedeva compiacendosi dell’eccezionale raccolto di cereali di quell’anno: contemplava le strisce dei campi di segale, ove qua e là si cominciava a mietere; e da amministratore qual era faceva le sue considerazioni sulla semina e sul raccolto, e ricapitolava gli ordini ricevuti dal principe, nel timore che qualcuno gli fosse uscito di mente.

Dopo due soste per governare i cavalli lungo la strada, la sera del 4 agosto Alpatyè giunse in città.

Lungo la strada aveva incontrato e oltrepassato carriaggi e truppe. Poi, mentre si stava avvicinando a Smolensk sentì echeggiare fucilate lontane; ma quei rumori non lo stupirono. Lo sorprese assai di più, appressandosi a Smolensk, il vedere un magnifico campo d’avena che certi soldati stavano falciando, evidentemente per trarne foraggio; e qua e là vi si erano accampati; questa circostanza produsse viva impressione su Alpatyè, ma presto se ne scordò e tornò a pensare alle proprie incombenze.

Da più di trent’anni, ormai, tutti gli interessi della vita di Alpatyè erano circoscritti alla volontà del principe, ed egli non era mai uscito da questa sfera. Tutto ciò che non aveva attinenza con l’adempimento agli ordini del principe non soltanto non lo interessava, ma per lui non esisteva nemmeno.

Giunto a Smolensk la sera del 4 agosto, Alpatyè si fermò al di là del Dnepr, nel sobborgo di Gaèensk, alla locanda di Ferapontov presso il quale da trent’anni era uso far sosta. Dodici anni prima, con l’aiuto di Alpatyè, Ferapontov aveva comprato un bosco dal principe, si era dato al commercio e ora era proprietario di una casa, di una locanda e di una bottega di farine del capoluogo. Ferapontov era un contadino sui quarant’anni, nero, pingue, sanguigno con le labbra grosse, con un naso carnoso simile a un bernoccolo, un paio di analoghi bernoccoli sopra le nere sopracciglia, e un ventre gonfio e ridondante.

Ferapontov, in panciotto e camicia indiana, se ne stava sulla soglia della bottega, che si apriva sulla strada.

Vedendo Alpatyè, gli andò incontro.

«Salute, Jakov Alpatyè,» disse. «La gente scappa dalla città e tu ci vieni.»

«Ma che ragione hanno di scappare?» chiese Alpatyè.

«È quello che dico anch’io: la gente è stupida. Hanno una tal paura di questi francesi!»

«Tutte chiacchiere, roba da donnette!» esclamò Alpatyè.

«Pare proprio anche a me, Jakov Alpatyè. Io dico una cosa; se c’è un proclama che ingiunge di non lasciarli entrare, è segno che andrà così! E intanto i contadini vogliono tre rubli per una carretta. Dove hanno la coscienza, dico io?»

Jakov Alpatyè l’ascoltava distratto. Chiese che gli preparasse il samovar e del fieno per i cavalli; poi, quand’ebbe bevuto il suo tè, andò a dormire.

Per tutta la notte davanti alla locanda transitarono truppe. L’indomani Alpatyè indossò la giacca che portava soltanto in città e cominciò a sbrigare le sue commissioni. Era una mattina di sole: alle otto faceva già caldo. Una giornata ideale per mietere il grano, pensava Alpatyè. Di là dalla città fin dall’alba avevano preso ad echeggiare quei colpi.

Dalle otto in avanti, al crepitare della fucileria s’aggiunse il rombo delle cannonate. Le strade erano piene di gente che correva chissà dove, e molti soldati; ma le vetture di piazza circolavano come sempre, i negozianti se ne stavano sulla porta delle botteghe, nelle chiese si celebravano le funzioni religiose. Alpatyè fece le compere, si recò al tribunale, alla posta, dal governatore. E ovunque, al tribunale, nei negozi, alla posta, tutti parlavano della guerra, del nemico che già muoveva all’attacco della città. Tutti si domandavano a vicenda che cosa convenisse fare, e tutti cercavano di tranquillizzarsi a vicenda.

Davanti alla residenza del governatore Alpatyè trovò grande folla, alcuni cosacchi e una carrozza di lusso che apparteneva al governatore. Sull’ingresso s’imbatté in due signori nobili, proprietari terrieri, uno dei quali gli era noto.

Quest’ultimo, ex capo della polizia rurale, stava parlando con molta foga.

«C’è poco da scherzare,» diceva. «Fortunato chi è solo. Una testa anche se povera, è sempre una sola; ma quando in famiglia si è in tredici, e per giunta tutti i beni… Ci hanno ridotti al punto di finir tutti quanti in malora. Ma che razza di governo è mai questo? Bisognerebbe mandarli alla forca quei briganti…»

«Ma via, basta…» diceva l’altro.

«E che m’importa? Mi sentano pure! Dopo tutto non siamo cani,» continuò l’ex capo della polizia rurale. Si volse attorno e vide Alpatyè.

«Ah, Jakov Alpatyè, come mai siete qui?»

«Devo recarmi dal governatore per ordine di Sua Eccellenza!» rispose Alpatyè alzando fieramente il capo e portandosi una mano al petto, come faceva sempre quando nominava il principe. «Sua Eccellenza s’è degnato incaricarmi di prendere informazioni sulla situazione,» continuò.

«La situazione?» prese a gridare il proprietario. «Ci hanno ridotti al punto che non abbiamo nemmeno una carretta. Niente… Ecco, senti?» e indicò la direzione donde provenivano gli spari.

«Ci hanno ridotti al punto che finiremo tutti quanti in malora, quei briganti!» ripeté ancora una volta, e scese la scalinata dell’ingresso.

Alpatyè scosse il capo e salì i gradini. Nell’anticamera c’erano mercanti, donne, impiegati, che ogni tanto si scambiavano in silenzio un rapida occhiata. La porta dello studio si aprì: tutti si alzarono dai loro posti e si spinsero avanti. Dalla porta uscì di corsa un funzionario, confabulò brevemente con un mercante, chiamò un grasso funzionario e gli chiese di seguirlo, poi scomparve di nuovo dietro la porta, con l’evidente proposito di sottrarsi a tutti gli sguardi e alle innumerevoli domande che gli venivano rivolte. Alpatyè si portò avanti, e non appena il funzionario riapparve, infilò la mano sotto la giacca sbottonata porgendogli senza esitare le due lettere.

«Al signor barone Asch da parte del generale en chef principe Bolkonskij,» profferì in tono così solenne e significativo, che il funzionario fu costretto a prestargli attenzione e a prendere le lettere.

Pochi minuti dopo il governatore ricevette Alpatyè e frettolosamente gli disse:

«Riferisci al principe e alla principessa che io non so nulla. Ho agito in base a ordini superiori, ecco qua…» E

porse una carta ad Alpatyè. «Però, dal momento che il principe non sta bene, il mio consiglio è che partano per Mosca.

Anch’io sto per andarmene. Riferisci che…»

Ma il governatore non concluse la frase: dalla porta irruppe, coperto di polvere e madido di sudore, un’ufficiale che prese a dire qualcosa in francese. Sulla faccia del governatore si dipinse un’espressione sgomenta.

«Va!» disse facendo un cenno col capo ad Alpatyè e si mise a interrogare l’ufficiale.

Sguardi avidi, spaventati, impotenti si posarono su Alpatyè quando questi uscì dallo studio del governatore. A differenza di prima, ora istintivamente porgeva l’orecchio al crepitare degli spari, sempre più vicino e intenso. Alpatyè si affrettò a tornare alla locanda.

La carta che il governatore aveva consegnato ad Alpatyè diceva quanto segue:

«Vi assicuro che sulla città di Smolensk non incombe per ora il minimo pericolo e non vi è probabilità alcuna che possa essere minacciata in seguito. Io da una parte e il principe Bagration dall’altra procediamo per operare il congiungimento davanti a Smolensk, che verrà attuato il giorno 22; e allora le due armate, con le loro forze riunite, potranno erigersi a difesa dei compatrioti della provincia a voi affidata fino a quando i loro sforzi non avranno allontanato da loro i nemici della patria, o fino a quando le loro eroiche schiere non saranno annientate fino all’ultimo combattente. Come potete constatare, è nei vostri diritti tranquillizzare la popolazione di Smolensk, giacché infatti chi è difeso da due armate così valorose può fare assegnamento sulla loro vittoria.» ( Istruzioni di Barclay de Tolly al barone Asch, governatore civile di Smolensk nel 1812. )

Il popolo, inquieto, vagava per le strade.

Carri stracarichi di suppellettili domestiche, di sedie e di credenze uscivano senza posa dagli androni delle case e prendevano a percorrere le strade. Davanti alla casa adiacente a quella di Ferapontov erano fermi carri e carrette, e le donne si accomiatavano, fra singhiozzi e lamenti. Un cane da guardia si aggirava abbaiando tra le gambe dei cavalli.

Con passo più affrettato di quello al quale era abituato, Alpatyè entrò nel cortile e si diresse senza indugio alla rimessa; dov’erano riparati i propri cavalli e la vettura. Il cocchiere dormiva; lui lo svegliò e gli diede ordine di attaccare i cavalli, poi entrò nel vestibolo. Dalla camera dei padroni giungevano i singhiozzi strazianti di una donna, un pianto di bambini e il gridare rauco e iroso di Ferapontov. Quando Alpatyè entrò nell’andito, la cuoca si agitava qua e là, come una gallina spaventata.

«L’ha ammazzata, l’ha picchiata a morte!… L’ha picchiata, l’ha trascinata attorno, la mia padrona! Vedete com’è ridotta!»

«Perché?» domandò Alpatyè.

«Voleva partire. Sapete, le donne… Si capisce. Portami via, diceva, non farmi morire qui insieme coi miei bambini! La gente, dice, se n’è andata tutta; perché noi dobbiamo restare? dice. E così lui l’ha picchiata. Come l’ha battuta! L’ha trascinata di qua e di là!»

Alpatyè annuì come in un gesto di approvazione; poi non volendo saperne di più, si avviò verso la porta opposta a quella della camera dei padroni, dove aveva depositato le sue compere.

«Sei un mostro, un assassino!» urlò in quel momento la donna pallida ed emaciata con un bambino in braccio e con il fazzoletto a mezzo strappato dai capelli, uscendo a precipizio dalla porta e precipitandosi giù per la scaletta in cortile. Ferapontov uscì dietro di lei, ma nel vedere Alpatyè si accomodò il panciotto, si ravviò i capelli, ebbe uno sbadiglio ed entrò con Alpatyè nella propria camera.

«Come, vuoi già partire?» gli domandò.

Senza rispondere a quella domanda, e senza una sola occhiata per il padrone della locanda, Alpatyè chiese quanto gli dovesse per il pernottamento e intanto andava facendo ordine tra i suoi acquisti.

«Adesso faremo il conto! Allora, dimmi, sei stato dal governatore?» domandò Ferapontov. «Che decisione hanno preso?»

Alpatyè rispose che non c’era niente di preciso, in quel che gli aveva detto il governatore.

«Dunque, possiamo provvedere allo sgombero a spese nostre?» disse Ferapontov. «Di qui a Dorogobuž ci vogliono sette rubli per ogni carro! Quando ti dico che non hanno coscienza!» esclamò. «Selivanov, quello sì che ha fatto un bel colpo: ha venduto la farina all’esercito a nove rubli il sacco. Di’ un po’ la prendi una tazza di tè?» aggiunse.

Mentre provvedeva ad attaccare i cavalli, Alpatyè e Ferapontov bevvero il tè e chiacchierarono del prezzo del grano, del raccolto e del tempo favorevole alla mietitura.

«Pare che si siano un po’ calmati,» osservò Feranpotov, dopo aver bevuto tre tazze di tè e si alzò in piedi. «Si vede che i nostri hanno avuto la meglio. E poi lo hanno scritto che non li avrebbero lasciati passare. Vuol dire che la forza c’è… Oggi si diceva che Matvej Ivanyè Platov li ha cacciati a ridosso del fiume Marina; ne ha affogati diciottomila in un giorno!»

Alpatyè radunò tutte le sue compere, le diede al cocchiere e pagò l’albergatore. Sotto l’andito del portone echeggiò il rumore delle ruote, degli zoccoli e dei sonagli della kibitka che usciva dal cortile.

Mezzogiorno era già trascorso da un pezzo. Un lato della strada era in ombra, l’altro era illuminato dalla vivida luce del sole. Alpatyè guardò fuori della finestra e si avviò verso la porta. A un tratto si udì un rumore insolito simile a un sibilo acuto seguito da un tonfo. Subito dopo rimbombò a lungo un fragore confuso di cannonate, che fece tremare i vetri.

Alpatyè uscì sulla strada; due uomini correvano lungo la strada, in direzione del ponte. Da vari punti udivano sibili, tonfi di palle di cannone e scoppi di granate che piovevano sulla città. Ma questi rumori quasi non avvertivano e non calamitavano l’attenzione degli abitanti, in confronto al fragore del cannoneggiamento che giungeva da fuori città.

Era il cannoneggiamento che Napoleone aveva ordinato di aprire sulla città a partire dalle cinque del pomeriggio, mettendo in azione centotrenta cannoni. E sulle prime la popolazione non ne capì il significato.

Dapprima il fragore delle granate e il tonfo delle palle da cannone suscitarono soltanto curiosità. La moglie di Ferapontov, che fino a quel momento non aveva cessato di piangere e lamentarsi sotto la tettoia, era ammutolita di colpo, e col bambino in braccio s’era affacciata al portone guardando in silenzio la gente e tendendo l’orecchio ai rumori.

S’affacciarono dal portone anche la cuoca e un commesso di bottega. E, tutti, con allegra curiosità, cercavano di avvistare i proiettili che volavano sopra le loro teste. Da un angolo sbucò un gruppo di persone che chiacchieravano animatamente.

«Che forza!» diceva uno. «Tetto, soffitto, ha mandato tutto quanto in briciole!»

«Ha scavato in terra come un porco,» diceva un altro. «In gamba, eh? Mi ha messo l’allegria in corpo!»

aggiunse, ridendo. «Meno male che ho fatto quel salto se no finivo spiaccicato.»

La gente si rivolse a costoro, chiedendo spiegazioni. Questi soffermandosi, presero a raccontare come una palla di cannone aveva colpito una casa proprio mentre loro passavano. Intanto altri proiettili - le palle con un fischio subitaneo e sinistro, le granate con un sibilo smorzato e sommesso - non cessavano di volare sulla testa della gente; ma nessun proiettile cadeva nelle immediate vicinanze; tutti passavano oltre. Alpatyè salì sulla kibitka. Il padrone era in piedi sulla soglia.

«Che cosa stai a guardare!» gridò quest’ultimo alla cuoca che in gonna rossa e con le maniche rimboccate muovendo avanti e indietro i gomiti nudi si avvicinava alla cantonata per ascoltare che stavano raccontando.

«Cose da pazzi!» diceva lei; ma nell’udire la voce del padrone se ne tornò indietro abbassandosi la gonna.

Di nuovo, ma questa volta molto vicino, qualcosa fischiò come un uccello che volasse puntando verso il basso; in mezzo alla via balenò un chiarore, poi risuonò un colpo secco e la strada fu invasa dal fumo.

«Canaglia, che cosa fai?» gridò il padrone correndo verso la cuoca.

In quello stesso istante da varie parti si udirono voci lamentose di donne: un bambino spaventato scoppiò in lacrime e la gente si affollò in silenzio intorno alla cuoca, il viso pallido e contratto.

«Oh, povere colombelle mie! Colombelle mie, non lasciatemi morire! Ah, colombelle mie!…»

Cinque minuti più tardi nella strada non c’era anima viva. La cuoca che aveva una coscia dilaniata da un frammento di granata, venne trasportata in cucina. Alpatyè, il suo cocchiere, la moglie di Ferapontov con il bambino e il portiere della locanda erano chiusi in cantina e tendevano l’orecchio. Il boato dei cannoni, il sibilo dei proiettili e il cupo lamento della cuoca che sovrastava ogni altro clamore non si chetavano nemmeno un istante. La padrona ora cullava e tentava di tranquillizzare il bambino che teneva in collo, ora con un bisbiglio lamentoso chiedeva a tutti quelli che scendevano in cantina dove fosse suo marito, che era rimasto per la strada. Scese in cantina anche il commesso e le disse che il padrone era andato con tanta altra gente alla cattedrale, dove avevano esposto l’icona miraracolosa della Madonna di Smolensk.

Nel tardo pomeriggio le cannonate diminuirono d’intensità. Alpatyè uscì dalla cantina e indugiò sulla porta. Il cielo del crepuscolo, prima sereno, ora appariva velato di fumo, e attraverso quella coltre fumosa splendeva, stranamente, sospesa alta nello spazio, un’esile falce di luna. Dopo il tremendo frastuono dei cannoni che adesso era cessato, sopra la città sembrava incombere il silenzio, interrotto a tratti da un suono che pareva diffuso in tutta la città: un suono di passi, un echeggiare di grida lontane, un crepitare d’incendio. I gemiti della cuoca erano cessati. Da due luoghi diversi si levavano al cielo in nere volute le colonne di fumo prodotte dagli incendi. Per la strada soldati transitavano in corsa, disordinatamente, come formiche di un formicaio devastato, con uniformi diverse e in diverse direzioni. Sotto gli occhi di Alpatyè alcuni irruppero in cerca di riparo nel cortile di Ferapontov. Alpatyè uscì sul portone. C’era un reggimento che bloccava la strada, accalcandosi e affrettandosi per rifluire indietro.

«La città viene evacuata! Andate via, presto!» gli gridò un ufficiale che aveva notato la sua presenza; e subito dopo si volse strillando ai soldati: «Ve la do io, a infilarvi nei cortili!»

Alpatyè ritornò all’interno; chiamò il cocchiere e gli ordinò di uscire con la kibitka. Dietro di loro uscirono anche i familiari di Ferapontov. Nel vedere quel balenare delle fiamme degli incendi, che adesso, nella luce dell’incipiente crepuscolo, si scorgevano nitidamente, le donne, che fino a quel momento erano rimaste silenziose, scoppiarono a piangere e si misero a vociare, l’occhio fisso sugli incendi. Come a far loro eco, analoghi lamenti risuonarono in altri punti della strada. Alpatyè e il cocchiere sotto la tettoia con mani tremanti assestavano le redini imbrogliate e le tirelle dei cavalli.

Quando Alpatyè uscì dal portone con la kibitka scorse nella bottega aperta di Ferapontov una decina di soldati che in un gran baccano di voci riempivano i sacchi e gli zaini di farina di frumento e di semi di girasole. In quel momento, tornando dalla strada, entrò nella bottega Ferapontov. Vedendo i soldati, fu sul punto di gridare qualcosa; ma a un tratto si bloccò di colpo, e afferrandosi i capelli con le mani scoppiò in un riso convulso, in una risata rotta dal singulti.

«Portate via tutto, ragazzi! Non lasciate niente a quei maledetti» si mise a urlare; e di sua mano afferrava i sacchi e li scaraventava nella strada.

Alcuni soldati, spauriti, fuggirono; altri continuarono a fare il loro bottino. Quando vide Alpatyè, Ferapontov si rivolse a lui.

«È finita! Rasseja» gridò. «Alpatyè è finita, ti dico! Do fuoco a tutto, io. È finita…» E Ferapontov corse in cortile.

La strada era ingombra di soldati, che transitavano senza posa, tanto che Alpatyè non poté passare e fu costretto ad attendere. Anche la moglie di Ferapontov con i bambini era seduta in una carretta da contadini, in attesa che fosse possibile transitare.

Era ormai buio. Il cielo era stellato; e ogni tanto vi splendeva, velata dal fumo, quella tenue falce di luna.

Lungo la discesa verso il Dnepr la kibitka di Alpatyè e della moglie di Ferapontov, che procedevano lente fra le file dei soldati, dovettero fermarsi. Non lontano dal crocevia presso il quale si erano arrestati i due veicoli, andavano a fuoco in fondo a un vicolo una casa e alcune botteghe. L’incendio stava scemando. Le fiamme guizzavano più basse perdendosi nel fumo nerastro; poi, di colpo, divampavano vivide, e con strana evidenza illuminavano le facce della gente che si affollava all’incrocio. Contro il bagliore dell’incendio spiccavano ogni tanto nere sagome di persone, si udivano voci e richiami e grida. Alpatyè, che era sceso dal calesse, rendendosi conto che per il momento non avrebbe potuto proseguire si portò nel vicolo per osservare l’incendio. Soldati andavano e venivano senza un attimo di tregua davanti al fuoco; e vide, Alpatyè, che due di loro aiutati da un uomo con un pastrano d’ispida lana, trascinavano fuori dall’incendio, attraverso la strada, fino al cortile della casa attigua, alcune assi accese. Altri portavano bracciate di fieno.

Alpatyè si avvicinò a un folto gruppo di persone che osservavano un grande fienile divorato dalle fiamme. I muri erano avvolti dal fuoco; la parete posteriore era crollata, il tetto di tavole era sfondato, le travi ardevano. La folla, lo si capiva, attendeva di vedere sprofondare il tetto. E anche Alpatyè si mise in attesa con gli altri.

«Alpatyè!» A un tratto il vecchio si sentì chiamare da una voce che gli era nota.

« Batjuška, Eccellenza,» rispose, riconoscendo all’istante la voce del suo giovane principe.

Il principe Andrej avvolto in un mantello, in sella a un cavallo nero, era fermo dietro la folla e aveva lo sguardo fisso su Alpatyè.

«Come mai sei qui?» domandò.

«Vostra… Vostra Eccellenza,» prese a dire Alpatyè, la voce rotta dai singhiozzi. «Vostra… Vostra… ma siamo dunque perduti? Batjuška…»

«Come mai sei qui?» chiese ancora il principe Andrej.

In quel momento le fiamme divamparono più gagliarde e illuminarono agli occhi di Alpatyè il volto pallido ed esausto del suo giovane padrone. Alpatyè rispose che era stato mandato in città e che a stento e a fatica aveva potuto ripartire.

«Allora, Eccellenza, siamo davvero perduti?» domandò una seconda volta.

Senza rispondere, il principe Andrej estrasse un taccuino, e appoggiandosi a un ginocchio si mise a scrivere col lapis su un foglio che ne aveva strappato. Scriveva a sua sorella:

«Smolensk verrà evacuata. Lysye Gory cadrà in mano nemica fra una settimana. Partite senza indugio per Mosca. Rispondimi subito quando partirete mandando un corriere espresso a Usvjaž.»

Scritto e consegnato il foglio a Alpatyè, gli spiegò a voce come si dovesse organizzare la partenza del principe, della principessina e del figlio col precettore; e dove e come fargli avere una risposta immediata. Ma non aveva ancora finito di dare queste disposizioni, che un ufficiale dello Stato Maggiore a cavallo gli si fece accosto accompagnato dal seguito.

«Siete un comandante di reggimento?» gridò l’ufficiale di Stato Maggiore con un accento tedesco che al principe Andrej era ben noto. «In vostra presenza si incendiano le case e voi non intervenite? Che significa un simile contegno? Voi ne risponderete!» gridò Berg, che adesso era aiutante di Stato Maggiore del comandante l’ala sinistra delle truppe di fanteria della prima armata, un posticino gradevole e molto in vista, come lui stesso diceva.

Il principe Andrej gli lanciò un’occhiata senza nemmeno rispondergli e continuò a parlare ad Alpatyè:

«Sicché, di’ loro che fino al dieci aspetterò una risposta, ma se per il dieci non avrò avuto notizia che sono tutti partiti, dovrò abbandonare tutto e venire io stesso a Lysye Gory.»

«Se ho parlato così, principe» riprese Berg, che aveva riconosciuto il principe Andrej, «è perché sono ligio agli ordini ricevuti, che eseguo sempre col massimo scrupolo… Vi prego di scusarmi» aggiunse, quasi volesse trovare una giustificazione.

Ci fu un crepitio nel fuoco. Per un istante l’incendio parve calmarsi; di sotto al tetto si levarono nere volute di fumo; poi si udì uno schianto fragoroso e qualcosa di enorme crollò a terra.

«Uh!» gridò la folla, facendo eco al crollo del soffitto del fienile donde usciva un odore di biscotto a causa del grano bruciato. Le fiamme divamparono più forti, illuminando i volti eccitati, allegri e spossati delle persone che assistevano a quella devastazione.

L’uomo dal pastrano di lana ruvida levò le braccia al cielo e gridò:

«Così va bene! Tutto alla malora! Ragazzi, è così che si fa!…»

«Eppure quello è il padrone» disse qualcuno.

«Siamo d’accordo, allora,» disse il principe Andrej, rivolgendosi ad Alpatyè, «riferisci ogni cosa così come ti ho detto.»

E senza una sola parola di risposta per Berg, ammutolito al suo fianco, spronò il cavallo e si allontanò giù per il vicolo.

V

Da Smolensk le truppe continuarono a ritirarsi. Il nemico avanzava sulle loro orme. Il 10 agosto il reggimento comandato dal principe Andrej transitava sulla strada maestra davanti al viale che portava a Lysye Gory. Il caldo e la siccità duravano ormai da più di tre settimane. Nubi a pecorella passavano ogni giorno nel cielo, e a tratti nascondevano il sole, verso sera tornava il sereno e il sole tramontava in una caligine bruno-rossastra. Soltanto una copiosa rugiada rinfrescava di notte la terra. Il grano non mietuto disseccava, gli stagni si prosciugavano, il bestiame muggiva per la fame, non trovando nutrimento sui prati riarsi dal solleone. Solo di notte, e nei boschi, c’era un po’ di frescura, finché durava la rugiada. Ma lungo la strada maestra, che era quella battuta dalle truppe, neppure di notte c’era un po’ di frescura. La rugiada era invisibile nell’arido polverone della strada, smossa per più di un braccio di profondità. Non appena albeggiava, il movimento ricominciava. I carriaggi, l’artiglieria affondavano silenziosamente fino al mozzi e la fanteria fino al malleolo in quella polvere molle e soffocante che la notte non era bastata a raffreddare e conservava il calore del giorno innanzi. Una parte di questa polvere sabbiosa si impastava alle ruote e ai piedi, l’altra si sollevava e stagnava come una nube sopra le truppe, appiccicandosi agli occhi, ai capelli, alle orecchie, alle narici e soprattutto ai polmoni degli uomini e degli animali che procedevano lungo quella strada. Quanto più si alzava il sole, tanto più si sollevava la nube di polvere, e attraverso quella polvere calda e impalpabile era possibile fissare il sole ad occhi spalancati, anche se non era celato dalle nuvole. Il sole appariva simile a un grande globo scarlatto. Non c’era un alito di vento e gli uomini soffocavano in quell’atmosfera immobile. Marciavano col naso e la bocca coperti dai fazzoletti.

Quando arrivavano nei villaggi, tutti si precipitavano ai pozzi. Si battevano per un goccio d’acqua e la bevevano fino alla melma.

Il principe Andrej aveva il comando di un reggimento, e l’organizzazione del reggimento, il benessere dei suoi uomini, la necessità di ricevere e di impartire ordini assorbivano tutta la sua attività. L’incendio di Smolensk e l’abbandono della città avevano segnato una svolta, nella vita del principe Andrej. Un nuovo sentimento, il rancore contro il nemico, gli faceva dimenticare il proprio dolore. Era interamente dedito alle cure del reggimento, pieno di premure per i suoi uomini e i suoi ufficiali, e li trattava con affabilità. Nel reggimento lo chiamavano il nostro principe: erano fieri di lui e gli volevano bene. Ma egli si mostrava buono e mite solo con i suoi uomini come Timochin e gli altri, persone estranee che nulla sapevano del suo passato. Infatti, non appena si imbatteva in qualcuno dei suoi colleghi d’un tempo, gli uomini dello Stato Maggiore, subito tornava a drizzar gli aculei: si mostrava irascibile, sarcastico, sprezzante. Tutto ciò che lo riportava al passato suscitava la sua insofferenza: pertanto, nei riguardi del mondo ch’era stato il suo, si sforzava soltanto di non essere ingiusto e di adempiere correttamente al proprio dovere.

In realtà, tutto si presentava al principe Andrej in una luce sinistra, specie dopo l’evacuazione di Smolensk del 6 agosto (secondo il suo concetto, Smolensk poteva e doveva essere difesa) e dopo che suo padre malato aveva dovuto fuggire abbandonando al saccheggio la tanto amata residenza di Lysye Gory, da lui stesso costruita e abitata. Ma nonostante questo, grazie al reggimento di cui il principe Andrej aveva il comando, egli aveva modo di volgere altrove i suoi pensieri, a qualcosa di affatto autonomo dai problemi d’ordine generale, e cioè - appunto - il reggimento. Il 10

agosto la colonna di cui faceva parte il suo reggimento giunse all’altezza di Lysye Gory. Due giorni prima il principe Andrej aveva ricevuto la notizia che suo padre, il figlio, la sorella erano partiti per Mosca. Sebbene non avesse nulla da fare a Lysye Gory, per l’inclinazione tutta propria a esacerbare, decise che doveva vedere la casa paterna, almeno per un breve momento.

Ordinò che gli sellassero il cavallo, e dal luogo di tappa si diresse verso la tenuta paterna, dov’era nato e dove aveva trascorso la sua infanzia. Passando davanti allo stagno dove solitamente decine di donne, chiacchierando, battevano e risciacquavano la biancheria, il principe Andrej notò che lo stagno era deserto e che una piccola asse da lavare, galleggiava sull’acqua e vi navigava, semisommersa. Egli si avvicinò alla casetta del guardiano. All’ingresso di pietra non c’era nessuno e il portone era spalancato. I viottoli del giardino erano già invasi dalle male erbe, e vitelli e cavalli giravano in libertà per il parco all’inglese. Il principe Andrej si avvicinò alla serra: i vetri erano spezzati, le piante in vaso in parte rovesciate, in parte disseccate. Chiamò a gran voce Taras, il giardiniere. Nessuno rispose.

Girando intorno alla serra, dalla parte della mostra, vide che la palizzata di tavole lavorate era tutta spezzata e le susine strappate dai rami. Un vecchio contadino (che il principe Andrej aveva sempre visto presso il portone fin da quando era bambino) se ne stava lì seduto e intrecciava un paio di lapty su una panchina verniciata di verde.

Sordo com’era, non udì avvicinarsi il principe Andrej. Stava seduto sulla panchina su cui piaceva sedere anche al vecchio principe, e poco discosto di lì aveva appeso le strisce di corteccia di tiglio ai rami di una magnolia disseccata.

Il principe Andrej si avvicinò alla casa. Alcuni tigli del vecchio giardino erano stati abbattuti a colpi di accetta, una cavalla pezzata si aggirava col suo puledro proprio davanti alla casa, in mezzo ai rosai. La casa aveva tutte le imposte sbarrate: solo una finestra al pianterreno era aperta. Un ragazzetto, figlio di servitori, alla vista del principe Andrej scappò dentro.

Dopo aver allontanato la famiglia, Alpatyè era rimasto solo a Lysye Gory. In quel momento era seduto in casa e leggeva le Vite dei santi. Saputo dell’arrivo del principe Andrej, uscì con gli occhiali sul naso, abbottonando la giubba.

Si fece incontro al principe con passo affrettato; poi, senza dire una sola parola, scoppiò a piangere baciandolo su un ginocchio.

Ma tosto si drizzò, con un motto di stizza per la propria debolezza, e prese a riferire la situazione al principe Andrej. Tutte le suppellettili preziose, tutti gli oggetti di valore erano stati portati a Boguèarovo. Anche duecento quintali di grano erano stati trasportati via; il fieno e il grano maggengo - un raccolto, a detta di Alpatyè, veramente eccezionale, quell’anno - erano stati requisiti e falciati ancora verdi dalle truppe. I contadini erano ridotti alla fame, molti se n’erano andati anch’essi a Boguèarovo, solo qualcuno era rimasto.

Senza ascoltarlo fino in fondo, il principe Andrej chiese quando fossero partiti suo padre e sua sorella; e intendeva quando fossero partiti per Mosca. Alpatyè, credendo che la sua domanda si riferisse alla partenza per Boguèarovo, rispose che erano partiti il giorno sette, e tornò a diffondersi sui problemi dell’amministrazione, chiedendo istruzioni.

«Mi ordinate di consegnare l’avena alle truppe dietro ricevuta? Ce ne rimangono ancora circa milleduecento quintali,» disse Alpatyè.

«Che cosa posso rispondergli?» pensava il principe Andrej, guardando la testa calva del vecchio che riluceva al sole; e dal suo volto capiva che anch’egli si rendeva conto dell’intempestività di simili domande; ma si poneva quegli interrogativi al solo scopo di soffocare il proprio dolore.

«Sì, lascia pure che la prendano,» rispose Andrej.

«Forse avrete notato i danni in giardino,» disse Alpatyè, «ma era impossibile evitarli: sono passati tre reggimenti e ci hanno pernottato, specialmente i dragoni… Ho preso nota del grado e del nome del comandante per avanzare richiesta d’indennizzo.»

«Bravo. Ma tu cosa farai? Resterai qui, se arriverà il nemico?» gli chiese il principe Andrej.

Alpatyè voltò il viso verso il giovane padrone e lo guardò; poi, d’improvviso, alzò un braccio verso il cielo in un gesto solenne.

«Lui è il mio protettore,» disse. «Sia fatta la Sua Volontà!»

Una frotta di servi e contadini avanzava frattanto per il prato, a capo scoperto, muovendo incontro al principe Andrej.

«Ebbene, addio dunque!» disse il principe Andrej, chinandosi verso Alpatyè. «Parti anche tu, vattene di qui e porta via tutto quello che puoi e a questa gente ordina di andare nella proprietà di Rjazan o in quella vicino a Mosca.»

Alpatyè gli abbracciò le gambe e ruppe in singhiozzi. Dolcemente il principe Andrej lo scostò da sé; poi spronò il cavallo e si allontanò al galoppo lungo il viale.

Davanti alla mostra della serra, sempre del tutto indifferente a quanto accadeva intorno a lui, come una mosca sulla faccia di un defunto che ci è caro, se ne stava seduto quel vecchio e batteva su un ceppo i suoi lapty, mentre due bambine, con i grembiali colmi di susine che avevano strappato dagli alberi della serra, ne venivano di corsa e si trovarono di botto davanti al principe Andrej. Vedendo il giovane padrone, la maggiore delle bambine assunse un’espressione spaventata; afferrò per un braccio la sua amichetta più piccola e con lei si nascose dietro una betulla rinunciando a raccattare le verdi susine che le erano scivolate per terra.

Il principe Andrej con fretta spaurita si voltò dall’altra parte, temendo di far loro capire che lui le aveva viste.

Aveva provato un moto di pena per quella bimba tanto spaventata. Temeva di volger l’occhio su di lei, ma nello stesso tempo provava un desiderio irresistibile di farlo. Un nuovo confortante sentimento di sollievo s’impossessò di lui quando, guardando quelle bambine, aveva compreso l’esistenza di altri interessi umani, affatto estranei ai propri, e tuttavia non meno legittimi di quelli che lo assorbivano. Quelle bambine, era evidente, avevano un unico, ardente desiderio: portarsi via quelle susine acerbe e mangiarsele tutte senza essere colte in fallo, e il principe Andrej desiderava quanto loro che quell’impresa andasse in porto. Non poté trattenersi dal guardarle ancora una volta. Credendosi ormai fuori pericolo, le bimbe sbucarono dal loro nascondiglio e, pigolando qualcosa con le loro vocette acute, reggendosi la gonnella, corsero allegre e svelte sull’erba del prato con le loro gambette nude e abbronzate.

Il principe Andrej aveva tratto un lieve refrigerio da quella breve uscita dal polverone della strada maestra lungo la quale marciavano le truppe. Ma non lontano da Lysye Gory egli di nuovo ritornò sulla strada e raggiunse il proprio reggimento che bivaccava presso la diga di un piccolo stagno. Erano le due del pomeriggio. Il sole, un globo rosso emergente dalla nube di polvere, bruciava la schiena attraverso la giubba nera. Sempre immobile e stagnante, quel polverone incombeva sul vociare delle truppe in sosta. Non c’era un alito di vento. Mentre passava sopra la diga, il principe Andrej fu investito da una zaffata di odor di melma e di frescura. Avrebbe voluto buttarsi in quell’acqua, per quanto sporca fosse. Si volse allora a guardare lo stagno, donde provenivano grida e un suono di risate. La breve distesa d’acqua torbida, sparsa d’erbe palustri si era sollevata di almeno un paio di spanne, fino al punto di sommergere la diga, tanto brulicava di corpi nudi di uomini: soldati che vi sguazzavano, il bianco torace che contrastava con le mani, le facce e i colli color rosso mattone. Tutta questa nuda, bianca massa di carne umana si dimenava fra risa e schiamazzi in quella lurida pozzanghera, come un groviglio di barbi stipati in una nassa. Aveva un’aria di allegria, quel dibattersi di tanti corpi; e d’altronde proprio per questo ne derivava un senso di malinconia.

Un soldato giovane e biondo della terza compagnia (il principe Andrej aveva già avuto occasione di conoscerlo) con una cinghietta legata sotto il polpaccio, facendosi il segno della croce indietreggiò per prendere bene lo slancio e tuffarsi in acqua; un altro, un sottufficiale villoso, nero di capelli e sempre spettinato, era immerso fino alla cintola; stiracchiandosi il corpo muscoloso e sbuffando allegramente si annaffiava il capo con le braccia nere di peli fino alle mani. Risonavano le pacche che si davano a vicenda con le mani, fra strida, esclamazioni e sbuffi.

Sulla riva, lungo la diga, nello stagno, dappertutto si vedeva quella carne bianca, sana e muscolosa. L’ufficiale Timochin, col suo nasetto rosso, si strofinava sulla diga per asciugarsi; nel vedere il principe ebbe un moto di vergogna, ma decise egualmente di rivolgergli la parola: «Ah, come si sta bene, Eccellenza; perché non vi degnate anche voi?»

disse.

«È troppo fangosa, quest’acqua,» rispose il principe Andrej con una smorfia disgustata.

«Adesso provvediamo noi a fare un po’ di pulizia!»

E Timochin, ancora svestito, corse a far pulizia.

«Anche il principe vuol fare il bagno!»

«Quale principe? Il nostro?» chiesero alcune voci e tutti si diedero da fare con tale zelo e sollecitudine che il principe Andrej durò fatica a calmarli. Aveva pensato che la cosa migliore era lavarsi dentro la rimessa.

«Carne, corpi, chair à canon!» pensava, guardando adesso anche il proprio corpo nudo. E rabbrividiva, non di freddo quanto per un senso inesplicabile di repulsione e d’orrore alla vista di tutti quei corpi diguazzanti nell’acqua melmosa dello stagno.

Il 7 agosto il principe Bagratoin, alla tappa di Michajlovka, sulla strada di Smolensk, scriveva quanto segue:

«Egregio signor conte Aleksej Andreeviè.»

(Scriveva ad Arakèeev, ma sapeva che la sua lettera sarebbe stata letta dall’imperatore; onde, per quanto gli era possibile, meditava ogni parola.)

«Penso che il ministro abbia già fatto rapporto circa l’abbandono di Smolensk in mano nemica. È doloroso, è triste e tutto l’esercito è caduto in preda allo sconforto perché è stata abbandonata senza costrutto alcuno la posizione più importante. Da parte mia, gli avevo rivolto di persona le preghiere più vive e pressanti, e da ultimo gli avevo anche scritto; ma nulla è valso a persuaderlo. Giuro sul mio onore che Napoleone s’era cacciato in un sacco come mai gli era accaduto; e avrebbe potuto perdere metà dell’esercito, ma non impadronirsi di Smolensk. Le nostre truppe hanno combattuto e combattono eroicamente. Con quindicimila uomini li ho trattenuti per oltre trentacinque ore, ma lui non ha voluto resistere nemmeno quattordici. Questa è una vergogna e una macchia per il nostro esercito; e in quanto a lui, mi pare che non dovrebbe avere il coraggio di stare ancora al mondo. Se riferirà che le nostre perdite sono ingenti, si sappia che è una menzogna; assommeranno forse a quattromila uomini, non di più; ma anche se fossero diecimila, che cosa cambierebbe? Questa è la legge della guerra! Ma in compenso il nemico ne ha perduto un’enormità.

«Cosa sarebbe costato restare altri due giorni? Si sarebbero ritirati da sé, perché non avevano acqua per abbeverare né gli uomini, né i cavalli. Lui mi aveva dato la sua parola d’onore che non si sarebbe ritirato, ma poi, all’improvviso, ha diramato una disposizione per la quale si sarebbe ritirato nottetempo. A questo modo condurre la guerra è impensabile e in breve tempo condurremo il nemico sotto le mura di Mosca.

«Corre voce che voi pensiate alla pace. Che Dio ce ne preservi! Dopo tanti sacrifici, dopo tutte queste ritirate inconsulte, concludere la pace!… Sollevereste la Russia intera contro di voi e ognuno di noi considererebbe indegno indossare la divisa. Visto che le cose prendono questa piega, bisogna battersi finché la Russia resiste, fino a quando ci sarà un solo uomo in piedi…

«Bisogna che il comando sia affidato a una sola persona, non a due. Il vostro ministro è forse idoneo a coprire un dicastero, ma come generale non solo vale poco, ma è addirittura un disastro. Eppure gli hanno affidato il destino di tutta la nostra patria!… Credetemi, mi sembra d’impazzire per il dispetto; scusatemi se scrivo in modo tanto temerario, ma solo un uomo che non ami il sovrano e desideri la rovina di noi tutti può suggerire di concludere la pace e di affidare il comando dell’esercito al ministro. Pertanto io vi scrivo la verità: affrettatevi a preparare le milizie, giacché il ministro, con manovre davvero magistrali, sta conducendo il nemico nella capitale… Grande diffidenza suscita del pari in tutte le forze armate l’imperiale aiutante di campo signor Wohlzogen. Si dice che è più di Napoleone che nostro, e costui è il consigliere del ministro! Io non solo sono cortese con lui, ma gli obbedisco come un caporale, sebbene abbia un’anzianità superiore alla sua. È doloroso, ma per amore del mio benefattore e sovrano, mi assoggetto. Solo mi rammarico che Sua Maestà Imperiale, affidi il suo splendido esercito a mani come queste. Pensate che, in forza della nostra ritirata, abbiamo perduto per stanchezza e negli ospedali, oltre quindicimila uomini; mentre se fossimo avanzati, mai una sciagura simile si sarebbe verificata. Dite, per amor di Dio: che cosa dirà mai la nostra madre Russia, di questo panico dal quale ci lasciamo pigliare? Perché mai, dirà, abbandoniamo una patria generosa e diletta nelle mani di queste canaglie, in ogni suddito istilliamo l’odio e un sentimento di vergogna? Perché esser tanto vili? Chi dobbiamo temere?

Non è colpa mia se il ministro è vigliacco, dubbioso, cacadubbi, e concentra in sé ogni caratteristica peggiore. Tutto l’esercito piange e bestemmia contro quell’uomo…»

Guerra e Pace
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