XV
Sorse l’ultimo giorno di Mosca. Era una limpida, lieta giornata autunnale. Era domenica. Come in tutte le altre domeniche, da tutte le chiese le campane invitavano a messa. Nessuno ancora, a quanto pareva, capiva quel che aspettava Mosca.
Soltanto due sintomi, della vita sociale, riflettevano l’esatta situazione di Mosca: la plebe, ossia i poveri, e i prezzi. Operai, domestici, contadini, in una folla immensa a cui si univano funzionari, seminaristi e nobili, all’alba di quel giorno, si incamminarono verso le Tri Gory. Dopo aver sostato a lungo lassù, stanchi di aspettare Rastopèin, e convinti che Mosca sarebbe stata abbandonata, tutti costoro si sparpagliarono per Mosca, per bettole e trattorie. Anche i prezzi quel giorno indicavano la reale situazione. I prezzi delle armi, dell’oro, dei carri e dei cavalli continuavano a salire, mentre i prezzi delle cotonate e degli articoli di lusso continuavano a scendere, tanto che verso la metà della giornata ci furono casi in cui merci costose, come le stoffe, furono portate via dai vetturali a metà prezzo, mentre per un cavallo di contadini venivano pagati cinquecento rubli; quanto ai mobili, agli specchi e ai bronzi, invece, venivano dati via per nulla.
Nella nobile e vecchia casa dei Rostov il disgregarsi delle consuete condizioni di vita aveva avuto riflessi assai deboli. Avvenne soltanto che di tutta la numerosa servitù nella notte scomparvero tre uomini, ma niente era stato rubato; e per quanto riguardava i prezzi, risultò che i trenta carri giunti dalle campagne costituivano un’immensa ricchezza che molti invidiavano e per la quale offrivano ai Rostov somme enormi. Non solo venivano offerte somme enormi per quei carri, ma fin dalla sera e dall’alba del I° settembre, nel cortile dei Rostov giunsero numerosi attendenti e domestici inviati dagli ufficiali feriti, che si unirono agli stessi feriti alloggiati in casa Rostov e nelle case vicine a supplicare i domestici di fare l’impossibile perché i padroni concedessero loro qualche carro per uscire da Mosca. Il maggiordomo al quale rivolgevano simili richieste, benché provasse compassione per i feriti, rifiutava categoricamente, dicendo che non aveva nemmeno il coraggio di parlarne al conte. Per quanta pena facessero i feriti costretti a rimanere lì, era evidente che se si fosse dato un carro, non ci sarebbe stato motivo per non darne un altro e poi un altro ancora, e poi tutti, fino alle vetture dei padroni. Trenta carri non potevano salvare tutti i feriti e, nella sventura comune, non si poteva non pensare a se stessi e alla propria famiglia.
Così pensava il maggiordomo per il suo padrone.
Il mattino del I° settembre, il conte Ilija Andreiè, svegliatosi per primo, uscì pian piano dalla camera da letto per non svegliare la contessa che si era assopita soltanto verso il mattino e si affacciò alla scala d’ingresso nella sua vestaglia di seta lilla. I carri, coi carichi ben assicurati dalle corde, stavano nel cortile. Davanti alla scalinata d’ingresso stavano le carrozze. Il maggiordomo era presso la scalinata e discorreva con un vecchio attendente e con un giovane ufficiale pallido, che aveva un braccio legato al collo. Vedendo il conte, il maggiordomo fece all’ufficiale e all’attendente un gesto severo e significativo perché si allontanassero.
«Allora, è tutto pronto, Vasiliè?» disse il conte grattandosi la testa calva, guardando bonariamente l’ufficiale e l’attendente e facendo un cenno con il capo. (Al conte piacevano le facce nuove.)
«Si può attaccare anche subito, Eccellenza.»
«Benissimo, appena si sveglierà anche la contessa, ci metteremo in viaggio, con l’aiuto di Dio! Voi cosa desiderate, signori?» si rivolse all’ufficiale. «Siete sistemati in casa mia?»
L’ufficiale si fece avanti. Sul suo volto pallido avvampò improvviso un vivido rossore.
«Conte, fatemi la grazia, permettetemi… per amor di Dio… di sistemarmi in qualche modo sui vostri carri. Qui con me non ho nulla… Magari in cima a un carico… è lo stesso…»
L’ufficiale non aveva ancora finito di parlare che l’attendente si rivolse al conte con la stessa preghiera per il suo signore.
«Oh, sì, sì, sì,» s’affrettò a dire il conte. «Ne sarò lieto, molto lieto. Vasiliè, disponi tu, fa sgomberare uno o due carri, insomma quello che occorre…» disse il conte impartendo istruzioni in termini assai vaghi.
Ma nello stesso istante la calorosa espressione di riconoscenza dell’ufficiale consolidò le sue intenzioni. Il conte si guardò attorno: nel cortile, nell’andito del portone, alle finestre del padiglione, ovunque c’erano feriti e attendenti. Tutti guardavano il conte e avanzavano verso la scalinata.
«Vogliate salire in galleria, eccellenza; che cosa ordinate per quanto riguarda i quadri?» disse il maggiordomo.
E il conte entrò insieme a lui nella casa, ripetendo il suo ordine di non respingere i feriti che chiedessero di partire.
«D’altra parte credo che si possa scaricare qualcosa,» aggiunse con voce sommessa e furtiva, come se temesse di essere udito da qualcuno.
Alle nove si svegliò la contessa, e Matrëna Timofeevna, sua antica cameriera, che ora presso di lei svolgeva le funzioni di capo dei gendarmi, venne a riferire alla sua signora che Mar’ja Karlovna era molto offesa e che gli abiti estivi delle signorine non potevano restare lì. Quando la contessa chiese perché m.me Schoss fosse tanto offesa, si scoprì che il suo baule era stato tolto da un carro e che tutti i carri venivano slegati, e al posto delle casse venivano caricati i feriti che il conte, nella sua semplicità, aveva dato ordine di portar via con loro. La contessa fece chiamare in camera il marito.
«Cos’è, mio caro, questa cosa che m’hanno riferito? Scaricano la roba?»
«Sai, ma chère, ti volevo dire… ma chère contessuccia… è venuto un ufficiale a pregarmi di dare qualche carro per trasportare i feriti. Questa è tutta roba che si può ricomprare, mentre loro come possono restare, pensaci!… Il fatto è che sono qui da noi in cortile, siamo stati noi a chiamarli, ci sono pure degli ufficiali… Sai, io penso, davvero, ma chère, ecco, ma chère… lascia che li carichino… tanto, che fretta c’è?…»
Il conte diceva tutto questo timidamente, come sempre quando c’erano in ballo questioni d’interesse. La contessa, dal canto suo, era ormai abituata a questo tono, che precedeva sempre qualche iniziativa destinata a danneggiare i figli, come, per esempio, la costruzione di una galleria, di una serra, l’allestimento di un teatro o di un’orchestra privata; ed era anche abituata, e lo considerava suo dovere, ad opporsi a ciò che veniva esposto con quel tono timido.
Assunse la sua solita aria sottomessa e querula e disse al marito:
«Senti, conte, hai fatto in modo che per la casa ormai non ci danno più niente e adesso vuoi distruggere così tutto il patrimonio nostro, e dei nostri figli. Ma se dici tu stesso che in casa c’è roba per centomila rubli! Io, amico mio, non sono d’accordo, assolutamente! Fa come vuoi!… Ai feriti pensa il governo. Loro lo sanno. Guarda qui di fronte, dai Lopuchin, già l’altro ieri hanno portato via tutto, fino all’ultima briciola. Ecco come fa la gente. Soltanto noi siamo così stupidi. Se non di me, abbi almeno compassione dei tuoi figli.»
Il conte agitò le braccia e usci dalla stanza senza dir niente.
«Papà! Che cosa c’è?» disse Nataša che era entrata subito dopo di lui nella stanza della madre.
«Niente! Di che cosa t’impicci!» disse arrabbiato il conte.
«No, ho sentito…» disse Nataša. «E perché la mamma non vuole?»
«Ma di che t’impicci?» ripeté il conte urlando.
Nataša se ne andò alla finestra e rimase pensierosa.
«Papà, arriva Berg,» esclamò a un tratto, guardando fuori dalla finestra.