VII
Il principe Vasilij aveva mantenuto la promessa fatta in casa di Anna Pavlovna alla principessa Drubeckaja che l’aveva pregato di intervenire a favore del suo unico figlio Boris. Venne fatto un esposto all’imperatore, e il giovane fu trasferito molto prima dei suoi compagni nella Guardia, come alfiere del reggimento Semënovskij. Boris, però, non venne nominato aiutante, o almeno addetto allo Stato Maggiore di Kutuzov, nonostante le trame e le mene di Anna Michajlovna. Pochi giorni dopo la serata da Anna Pavlovna, Anna Michajlovna ritornò a Mosca e si recò direttamente dai suoi ricchi parenti conti Rostov, presso i quali, appunto, abitava a Mosca e in casa dei quali era stato educato fin da bambino e aveva vissuto per anni il suo adorato Boren’ka, che era entrato da così poco tempo nell’esercito e subito era stato accolto tra gli alfieri della Guardia. La Guardia era già partita da Pietroburgo il 10 agosto, e Boris, che era rimasto a Mosca per equipaggiarsi, l’avrebbe raggiunta sulla via di Radzivilov.
In casa Rostov si festeggiavano gli onomastici della madre e della figlia minore che si chiamavano entrambe Natal’ja. Sin dal mattino era stato un viavai ininterrotto di carrozze a sei e più cavalli, che portavano gente in visita di augurio nella grande casa, conosciuta in tutta Mosca, della contessa Rostova in via Povarskaja. La contessa sedeva in salotto con la bella figlia maggiore, Vera, e con gli ospiti che non cessavano di avvicendarsi gli uni agli altri.
La contessa era una donna dal volto scarno, di tipo orientale, sui quarantacinque anni, palesemente estenuata dalle gravidanze: aveva avuto dodici figli. La lentezza dei suoi movimenti e del suo eloquio dovuta al suo stato di debolezza, le conferiva un’espressione particolare che ispirava rispetto. La principessa Anna Michajlovna Drubeckaja, quale persona di casa, sedeva con lei nella stanza e l’aiutava nel compito di ricevere gli ospiti e intrattenerli in conversazione. Quanto ai giovani, se ne stavano nelle stanze interne, non ritenendo necessario partecipare a quella cerimonia delle visite. Il conte accoglieva e riaccompagnava gli ospiti, invitandoli tutti a cena.
«Vi sono molto, molto grato, ma chère,» oppure mon cher (a tutti, senza eccezione diceva ma chère o mon cher, senza la minima sfumatura, fossero di condizione superiore o inferiore alla sua), «per me e per le care festeggiate.
E venite a cena, ve ne prego. Mi offendereste, mon cher. Ve ne prego di cuore, a nome di tutta la famiglia, ma chère.»
A tutti, senza eccezione e senza varianti, ripeteva queste parole, sempre con la stessa espressione sulla faccia piena, allegra e ben rasata e con una sempre uguale e robusta stretta di mano nonché ripetuti e brevi inchini.
Accompagnato uno degli ospiti alla porta, il conte tornava da quello o da quella che erano rimasti in salotto; accostava la poltrona, e divaricava giovanilmente le gambe posando le mani sulle ginocchia con l’aria dell’uomo che ama vivere e lo sa fare, poi prendeva a dondolarsi in modo pensoso, arrischiava previsioni sul tempo, dava consigli sulla salute, talvolta in russo, talvolta in un francese molto scadente ma molto disinvolto; poi, di nuovo, con l’aria di un uomo stanco ma risoluto ad adempiere al suo dovere, andava ad accompagnare l’ospite alla porta, ravviando i suoi radi capelli bianchi sulla testa calva, e rinnovava a costui l’invito a pranzo. Talvolta, di ritorno dall’anticamera, passando per il giardino d’inverno e un locale adibito a servizio di tavola, dava una capatina nella grande sala marmorea dove si stava apparecchiando la tavola con ottanta coperti, e guardando i camerieri portare argenteria e stoviglie, spostare tavoli e spiegare tovaglie damascate, chiamava a sé Dmitrij Vasil’eviè, un gentiluomo che si occupava di tutti i suoi affari, e diceva:
«Mi raccomando, Miten’ka, bada che tutto riesca bene. Così, così.» E contemplava soddisfatto l’enorme tavola allungata. «L’essenziale è che tutto si presenti bene. Già, già…» E se ne tornava in salotto con un sospiro di soddisfazione.
«Mar’ja L’vovna Karagina con sua figlia!» annunciò con voce di basso, affacciandosi alla porta del salotto l’enorme servitore del conte che era di servizio in anticamera. La contessa rifletté un momento e aspirò una presa di tabacco da una tabacchiera d’oro col ritratto in miniatura del marito.
«Queste visite mi hanno estenuata,» disse. «Via, riceverò ancora lei, ma sarà l’ultima. Si dà tali arie! Fa’
entrare,» disse poi al servitore con una voce triste e rassegnata che pareva dire: «Su, datemi il colpo di grazia.»
In un fruscio di vesti entrò in salotto una signora alta, piena, dall’aria altera, con una ragazzina dal viso tondo e sorridente.
« Chère comtesse, il y a si longtemps… elle a été alitée la pauvre enfant… au bal des Razoumovsky… et la comtesse Apraksine… j’ai été si heureuse…» Le animate voci femminili echeggiavano sovrapponendosi l’una all’altra e si fondevano col rumore degli abiti e delle seggiole spostate. Tosto prese avvio quella conversazione che s’intreccia quanto basta per potersi alzare alla prima pausa e in un frusciar d’abiti dire: « Je suis bien charmée; la santé de maman…
et la comtesse Apraksine,» passare di nuovo, sempre in un frusciar d’abiti, in anticamera, indossate la pelliccia o il mantello e andarsene. La conversazione cadde sulla principale novità cittadina del momento: la malattia del vecchio, ricchissimo e celebre conte Bezuchov, bellezza virile dei tempi di Caterina, e sul figlio illegittimo di lui, Pierre, che si era comportato in modo così sconveniente alla serata di Anna Pavlovna Šerer.
«Compiango molto il povero conte,» diceva l’ospite, «la sua salute è già tanto compromessa, e ora il figlio gli causa queste amarezze… Lo uccideranno!»
«Di che si tratta?» domandò la contessa come se non sapesse di che cosa parlava l’ospite, mentre invece aveva già sentito parlare almeno una quindicina di volte dei motivi di amarezza del conte Bezuchov.
«Ecco l’educazione d’oggigiorno!» continuò Mar’ja L’vovna «già all’estero quel giovanotto era abbandonato a se stesso, ma ora, dicono che a Pietroburgo ha commesso tali enormità che ne è stato espulso per ordine della polizia.»
«Dite davvero?» domandò la contessa.
«Ha scelto male le sue amicizie,» intervenne la principessa Anna Michajlovna. «Dicono che lui, il figlio del principe Vasilij, e un certo Dolochov, abbiano combinato Dio sa cosa. E tutti e due ora lo scontano. Dolochov è stato degradato a soldato semplice e il figlio di Bezuchov esiliato a Mosca. Quanto a Anatol’ Kuragin, il padre è riuscito in qualche modo a soffocare la cosa; comunque l’hanno allontanato da Pietroburgo.»
«Ma che cos’hanno fatto?» domandò ancora la contessa.
«Sono dei veri banditi, soprattutto Dolochov,» disse l’ospite. E pensare che è il figlio di Mar’ja Ivanovna Dolochova, una signora così per bene. Figuratevi che hanno trovato, chissà dove, un orso, l’hanno fatto salire con loro in carrozza e l’hanno portato da certe attrici. È accorsa la polizia per metterli al loro posto, e quelli hanno acchiappato il commissario del quartiere, l’hanno legato schiena a schiena all’orso e hanno lasciato cadere l’orso nella Mojka; l’orso nuotava e il commissario gli stava sopra.»
«Magnifica, ma chère, la figura di quel commissario,» esclamò il conte torcendosi dal ridere.
«Che orrore! Vi pare che ci sia da ridere, conte?»
Ma anche le signore senza volerlo ridevano.
«Quell’infelice è stato salvato a stento,» continuò l’ospite. «E questo è il bel modo di divertirsi di un figlio del conte Kirill Vladimiroviè Bezuchov! Eppure dicevano tutti che è così intelligente, così educato. Ecco dove è andata a finire la sua educazione all’estero. Spero che qui a Mosca nessuno vorrà riceverlo, nonostante sia così ricco. Volevano presentarmelo. Ho rifiutato recisamente; ho delle figlie, io.»
«Perché dite che quel giovanotto è così ricco?» domandò la contessa, chinandosi in modo da scostarsi dalle ragazze, le quali fecero subito finta di non ascoltare. «Il conte ha soltanto dei figli illegittimi, e a quanto pare… anche Pierre lo è.»
L’ospite fece un vago gesto con la mano.
«Ne avrà una ventina, quello, di illegittimi.»
La principessa Anna Michajlovna intervenne di nuovo, col palese desiderio di ostentare le sue relazioni e la sua conoscenza di tutti gli avvenimenti mondani.
«Si tratta di questo,» disse con aria allusiva e quasi sottovoce. «La reputazione del conte Kirill Vladimiroviè è nota… Dei figli che ha avuto ormai ha perso il conto, ma questo Pierre è sempre stato il suo prediletto.»
«Che bel vecchio era,» disse la contessa, «ancora fino all’anno scorso! Non ho mai visto un uomo così bello.»
«È molto cambiato adesso,» disse Anna Michajlovna. «Stavo dunque dicendo,» proseguì, «che per parte di moglie l’erede diretto di tutta la sostanza sarebbe il principe Vasilij, ma il padre ha sempre amato molto Pierre, si è preoccupato della sua educazione e ha anche scritto all’imperatore… Quindi, qualora il conte morisse (sta così male che la cosa può succedere da un momento all’altro, e Lorrain è accorso da Pietroburgo), nessuno può dire a chi toccherà questo immenso patrimonio: se a Pierre, cioè, o al principe Vasilij. Quarantamila anime e molti milioni di rubli. Io lo so bene, perché me l’ha detto il principe Vasilij in persona. E poi Kirill Vladimiroviè è mio zio in terzo grado dal lato materno. È stato anche padrino di Borja,» aggiunse, fingendo di non dare alcun peso a questa circostanza.
«Il principe Vasilij è arrivato a Mosca ieri. Mi hanno detto che va a un’ispezione,» continuò l’ospite.
«Sì, ma entre nous,» disse la principessa, «si tratta d’un pretesto; in realtà è venuto per il conte Kirill Vladimiroviè; ha saputo che sta così male…»
«Però, ma chère, è stato un bel tiro,» disse il conte e, avendo notato che l’anziana signora non lo ascoltava, si rivolse alle signorine: «Che figura quel commissario! Mi par di vederlo.»
E, facendo il verso del commissario che dimenava le braccia, scoppiò nuovamente in una sonora risata da basso che fece sussultare tutto il suo corpo pieno, come ridono gli uomini che mangiano e soprattutto bevono di gusto.»
«Allora, mi raccomando, venite a pranzo da noi,» disse.