XXXVIII

 

L’aspetto terribile del campo di battaglia, coperto di cadaveri e di feriti, insieme con la pesantezza alla testa e con la notizia che venti generali suoi conoscenti erano stati uccisi e feriti, e con la consapevolezza dell’impotenza della sua mano prima così forte, avevano prodotto un’impressione inaspettata su Napoleone, il quale prima amava invece di contemplare gli uccisi e i feriti per provare (com’egli credeva) la sua forza d’animo. Quel giorno l’orrendo aspetto del campo di battaglia vinse quella forza d’animo in cui egli credeva che stessero il suo merito e la sua grandezza.

Napoleone si allontanò in fretta dal campo di battaglia e ritornò al tumulo di Ševardino. Giallo, gonfio, pesante, con gli occhi torbidi, il naso rosso e la voce rauca, stava seduto sulla sedia pieghevole ascoltando senza volerlo i rumori del cannoneggiamento, senza alzare gli occhi. Con morbosa angoscia aspettava la fine di quell’azione di cui si considerava la causa, ma che non poteva più fermare. Un sentimento umano e personale aveva preso per un breve istante il sopravvento su quell’artificiale simulacro di vita a cui aveva servito per tanto tempo. S’immedesimava con le sofferenze e la morte che aveva visto sul campo di battaglia. La pesantezza alla testa e al petto gli ricordavano la possibilità di sofferenze e di morte anche per lui. In quel momento non voleva per sé né Mosca, né la vittoria, né la gloria. (Che bisogno aveva ancora di gloria?) L’unica cosa che adesso desiderava era: riposo, tranquillità e libertà. Ma, quando era sull’altura di Semenovskoe, il capo dell’artiglieria gli aveva proposto di piazzare ancora qualche altra batteria su quelle alture per intensificare il fuoco contro le truppe russe che si raggruppavano davanti a Knjazkovo, Napoleone aveva acconsentito e aveva ordinato di informarlo sull’effetto che avrebbero prodotto queste batterie.

Arrivò un aiutante di campo a dire che, per ordine dell’imperatore, duecento cannoni erano stati puntati contro i russi, ma che i russi continuavano a resistere.

«Il nostro fuoco li falcia a file intere, ma loro resistono,» disse l’aiutante.

« Ils en veulent encore! » disse Napoleone con voce rauca.

« Sire? » ripeté l’aiutante che non aveva sentito bene.

« Ils en veulent encore, » disse accigliato Napoleone con voce quasi afona tanto era rauca, « donnez leur-en. »

Anche senza suo ordine, si faceva quello che egli più non voleva ed egli diede quella disposizione solamente perché sapeva che da lui si aspettavano ordini. E di nuovo si trasferì in quel suo mondo artificiale di prima: dei fantasmi di chissà quale grandezza e di nuovo (come il cavallo che cammina sulla ruota inclinata del maneggio si immagina di fare qualcosa per sé), si mise a eseguire docilmente quella crudele, triste e gravosa e disumana parte che gli era stata assegnata dal destino.

E non soltanto in quell’ora e in quel momento furono ottenebrate la mente e la coscienza di quell’uomo, che più gravosamente di tutti gli altri partecipanti a quell’impresa recava su di sé tutto il peso di quanto avveniva; ma mai, sino alla fine della vita, mai egli poté capire né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato, delle sue azioni che erano troppe contrarie al bene e alla verità, che erano troppo lontane da tutto quanto è umano perché egli ne potesse capire il significato. Egli non poteva rinnegare i propri atti, esaltati da una metà del mondo, e perciò doveva rinnegare la verità e il bene e tutto quanto c’è di umano.

Non soltanto quel giorno, percorrendo il campo di battaglia disseminato di morti e mutilati (per sua volontà, egli credeva), guardando quegli uomini egli contò quanti fossero i russi caduti per ogni francese e, ingannando se stesso, trovò motivi per rallegrarsi perché la proporzione dei morti era d’un francese per ogni cinque russi. Non soltanto in quel giorno egli scriveva in una lettera a Parigi che le champ de bataille a été superbe, perché vi giacevano cinquantamila cadaveri, ma anche all’isola di Sant’Elena, nella quiete della solitudine, dove disse che aveva intenzione di dedicare il suo tempo libero all’esposizione delle grandi imprese che aveva compiuto, scrisse:

« La guerre de Russie eût dû être la plus populaire des temps modernes; c’était celle du bons sens et de vrais intérêts, celle du repos et de la sécurité de tous; elle était purement pacifique et conservatrice.

C’était pour la grande cause, la fin des hasards et le commencement de la sécurité. Un nouvel horizon, de nouveaux allaient se dérouler, tout plein de bien-être et de la prospérité de tous. Le système européen se trouvait fondé; il n’etait plus question que de l’organiser.

Satisfait sur ces grands points et tranquille partout, j’aurais eu aussi mon congrès et ma sainte alliance. Ce sont des idées qu’on m’a volées. Dans cette réunion de grands souverains, nous eussions traités de nos intérêts en famille et compté de clerc à maître avec les peuples.

L’Europe m’eût bientôt fait de la sorte véritablement qu’un même peuple, et chacun, en voyageant partout, se fût trouvé toujours dans la patrie commune. Il eût demandé toutes les rivières navigables pour tous, la communauté des mers, et que les grandes armées permanentes fussent réduites désormais à la seule garde de souverains.

De retour en France, au sein de la patrie, grande, forte, magnifique, tranquille, glorieuse, j’eusse proclamé ses limites immuables; toute guerre future, purement défensive; tout agrandissement nouveau antinational j’eusse associé mon fils à l’Empire; ma dictature eût fini, et son règne constitutionnel eût commencé…

Paris eût été la capitale du monde, et les Français l’envie des nations!…

Mes loisirs ensuite et mes vieux jours eussent été consacrés, en compagnie de l’impératrice et durant l’apprentissage royal de mon fils, à visiter lentement et en vrai couple campagnard, avec nos propres chevaux, tous les recoins de l’Empire, recevant les plaintes, redressant les torts, semant de toutes parts et partout les monuments et les bienfaits. »

Egli, destinato dalla provvidenza alla triste e obbligata parte del carnefice dei popoli, voleva persuadere se stesso che il fine delle sue azioni era stato il bene dei popoli e che lui poteva dirigere i destini di milioni di uomini e fare cose buone per mezzo del potere!

« Des 400.000 hommes qui passèrent la Vistule, » scrisse più oltre della guerra di Russia, « la moitié était Autrichiens, Prussiens, Saxons, Polonais, Bavarois, Wurtembergeois, Mecklenbourgeois, Espagnols, Italiens, Napolitains. L’armée impériale, proprement dite, était pour un tiers composée de Hollandais, Belges, habitants de bords du Rhin, Piémontais, Suisses, Génevois, Toscans, Romains, habitants de la 32 division militaire, Brême, Hambourg, etc.; elle comptait à peine 140.000 hommes parlant français. L’expédition de Russie coûta moins de 50.000

hommes à la France actuelle; l’armée russe dans la retraite de Wilna à Moscou, dans les différentes batailles, a perdu quatre fois plus que l’armée française; l’incendie de Moscou a coûté la vie à 100.000 russes, morts de froid et de misère dans les bois; enfin dans sa marche de Moscou à l’Oder, l’armée russe fût aussi atteinte par l’intempérie de la saison; elle ne comptait à son arrivée à Wilna que 50.000 hommes, et à Kalisch moins de 18.000. »

Egli s’immaginava che la guerra con la Russia fosse avvenuta per sua volontà e l’orrore di quanto era accaduto non sbigottiva la sua anima. Egli si assumeva audacemente tutta la responsabilità dell’avvenimento, e la sua mente ottenebrata vedeva una giustificazione nel fatto che su centinaia di migliaia di uomini uccisi i francesi fossero meno numerosi dei soldati dell’Asha e della Baviera.

Guerra e Pace
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