VI
Arrivata a Mosca dopo il suo incontro con Rostov, la principessina Mar’ja aveva trovato lì il nipotino con il precettore, e una lettera del principe Andrej, in cui quest’ultimo indicava l’itinerario da seguire per raggiungere Voronež, dove li avrebbe ospitati la zia Malvincseva. Il daffare per il trasferimento, l’inquietudine per il fratello, la sistemazione nella nuova casa, le nuove persone, l’educazione del nipotino; tutto ciò aveva soffocato nell’animo della principessina Mar’ja quel sentimento, come di tentazione, che l’aveva torturata durante la malattia e dopo la morte di suo padre, e soprattutto dopo l’incontro con Rostov. Era triste. L’impressione della perdita del padre, che nella sua anima si univa al dolore per la rovina della Russia, ora che era trascorso un mese da quei giorni, e nella nuova situazione si era un po’
tranquillizzata, provocava in lei una angoscia sempre più dolorosa. Era anche inquieta: il pensiero dei pericoli a cui era esposto suo fratello, l’unica persona cara che le fosse rimasta, la tormentava incessantemente. L’angustiava anche il problema dell’educazione del nipote, di fronte alla quale aveva una sensazione di assoluta incapacità; ma nel profondo dell’animo si sentiva d’accordo con se stessa, cosciente com’era d’aver soffocato dentro di sé i sogni e le speranze connesse all’apparizione di Rostov nella sua vita.
Quando, il giorno successivo al suo ricevimento, la governatrice si recò dalla Malincseva e, dopo aver parlato con la zia dei suoi progetti (premettendo la riserva che, se pure nelle attuali circostanze non si poteva neanche pensare a un fidanzamento in piena regola, si poteva tuttavia fare in modo che i due giovani s’incontrassero, permettere loro di conoscersi l’un l’altro) e averne avuto l’approvazione, si mise a parlare, in presenza della principessina Mar’ja, di Rostov, tessendone gli elogi e raccontando come fosse arrossito al sentir menzionare la principessina, quest’ultima non provò nessuna gioia, ma, al contrario, un’acuta sofferenza: il suo accordo interiore si rompeva, e nuovamente si sollevavano i desideri, i dubbi, i rimorsi e le speranze.
Nei due giorni che trascorsero fra questa notizia e la visita di Rostov, la principessina Mar’ja non smise un attimo di pensare a come avrebbe dovuto comportarsi nei suoi confronti. Ora decideva tra sé che non si sarebbe nemmeno presentata in salotto quando lui sarebbe venuto a trovare la zia, perché sarebbe stato sconveniente ricevere ospiti per una persona in lutto stretto; ora pensava che un simile comportamento sarebbe stato scortese dopo quanto lui aveva fatto per lei; ora credeva di indovinare che sua zia e la governatrice avevano dei progetti intorno a lei e Rostov (talvolta i loro sguardi e le loro parole sembravano confermare questa supposizione); ora si diceva che soltanto lei, nella sua perversità, poteva concepire simili pensieri, giacché loro non potevano aver dimenticato che nella sua posizione, mentre portava ancora il lutto, la proposta di fidanzamento sarebbe stata offensiva sia per lei, sia per la memoria di suo padre. Dicendo che si sarebbe presentata in salotto per salutarlo, la principessina Mar’ja cercava di immaginarsi quello che lui le avrebbe detto, e quello che lei avrebbe risposto: e ora le sue risposte le sembravano immeritatamente fredde, ora troppo piene di significato. La cosa che più di tutte temeva, nell’incontrarlo, era quel turbamento che, ne era sicura, si sarebbe impadronito di lei e l’avrebbe tradita, non appena se lo fosse veduto innanzi agli occhi.
Ma quando, il pomeriggio della domenica, il domestico venne ad annunciare in salotto che era arrivato il conte Rostov, la principessina non dimostrò alcun turbamento; soltanto un leggero rossore le affiorò sulle guance e i suoi occhi si illuminarono di una luce nuova, raggiante.
«Voi l’avete già visto, zia?» chiese la principessina Mar’ja con voce calma, senza sapere nemmeno lei come le fosse possibile mantenere esteriormente tanta calma e naturalezza.
Quando Rostov entrò nella stanza, la principessina restò per un istante a testa bassa, come per lasciare all’ospite il tempo di salutare la zia, e poi, proprio nel momento in cui Nikolaj si rivolse a lei, sollevò il capo e incontrò con occhi splendenti il suo sguardo. Con un movimento pieno di dignità e di grazia e con un sorriso di gioia, si alzò, gli porse la sua mano sottile, delicata, e gli disse qualcosa con una voce, in cui per la prima volta risonavano nuove, profonde note femminili. M.lle Bourienne, che era presente nel salotto, guardava la principessina Mar’ja con perplessa meraviglia. Lei stessa, che pure era un’esperta civetta, non avrebbe saputo comportarsi meglio nell’incontrare l’uomo al quale voleva piacere.
«O il nero le dona molto, o davvero in questi ultimi tempi si è imbellita senza che io me ne accorgessi. E, soprattutto, che tatto, che grazia,» pensava M.lle Bourienne.
Se in quel momento la principessina Mar’ja fosse stata in grado di pensare, ancora più di M.lle Bourienne si sarebbe stupita del cambiamento che in lei s’era prodotto. Da quando le era apparso quel simpatico, amabile viso, una nuova energia vitale si era impossessata di lei, costringendola a parlare e ad agire indipendentemente dalla sua volontà.
Dall’istante in cui era entrato Rostov, il volto le si era improvvisamente trasfigurato. Con la stessa inattesa e stupefacente bellezza con cui accendendo una luce dentro una lanterna dipinta e arabescata, sulle pareti si palesa quel complicato, squisito lavoro artistico che finora sembrava rozzo, oscuro e senza senso, così, improvvisamente, s’era trasfigurato il volto della principessina Mar’ja. Per la prima volta s’era palesato all’esterno tutto quel limpido lavorio interiore, spirituale, di cui era vissuta fino a quel momento. Tutto quell’intimo lavorio interiore, mai soddisfatto di sé, le sue sofferenze, l’aspirazione al bene, la mitezza, l’amore, l’abnegazione, tutto questo risplendeva adesso in quegli occhi radiosi, nel delicato sorriso, in ogni tratto del suo viso delicato.
Rostov poté scorgere tutto questo così chiaramente, come se avesse conosciuto ogni intimo particolare della vita di lei. Sentì che la creatura che gli stava di fronte era assolutamente diversa, assolutamente migliore di tutte quelle che finora aveva avuto modo d’incontrare e, anzitutto, migliore di lui stesso.
La conversazione fu tra le più semplici e insignificanti. Parlarono della guerra, esagerando senza volerlo, come facevano tutti, la propria afflizione in rapporto a quegli avvenimenti; parlarono dell’ultimo incontro, argomento da cui subito Nikolaj cercò di deviare il discorso, parlarono della buona governatrice, dei parenti di Nikolaj e della principessina Mar’ja.
La principessina Mar’ja non parlava del fratello, e non appena sua zia accennava a parlare di Andrej, deviava il discorso su altri argomenti. Era chiaro che, delle sciagure della Russia riusciva a parlare con ipocrisia, ma suo fratello era un argomento troppo vicino al cuore perché volesse o potesse parlarne alla leggera. Nikolaj notò questo particolare, così come del resto, con un eccezionale spirito d’osservazione a lui inconsueto, andava via via notando tutte le sfumature del carattere della principessina Mar’ja; e queste non facevano che confermare la sua iniziale convinzione che si trattava di una creatura assolutamente fuori dall’ordinario. Proprio come la principessina Mar’ja, anche Nikolaj arrossiva e si turbava quando gli parlavano di lei, e persino quando pensava a lei; ma, in sua presenza, agiva con piena naturalezza e non diceva mai ciò che s’era preparato, ma ciò che gli passava per la testa momento per momento, e peraltro sempre a proposito.
Durante la sua breve visita, come sempre succede dove ci sono bambini, in un momento di silenzio Nikolaj ricorse al figlioletto del principe Andrej, carezzandolo e domandandogli se da grande avrebbe voluto fare l’ussaro. Prese in braccio il bambino, lo fece girare su se stesso allegramente, e d’un tratto si volse a guardare la principessina Mar’ja.
Commosso, felice e timido, il suo sguardo seguiva il bambino a lei tanto caro, tra le braccia dell’uomo che le era caro.
Nikolaj notò anche questo sguardo e, come se ne avesse colto il significato, arrossì di piacere e si mise a baciare il bambino con bonaria allegria.
A causa del lutto la principessina Mar’ja non usciva mai di casa, e Nikolaj non ritenne opportuno ripetere la sua visita, ma la governatrice continuava nelle sue mene matrimoniali e, dopo aver riferito a Nikolaj ciò che di lusinghiero aveva detto di lui la principessina Mar’ja, e viceversa, insistette perché Rostov si dichiarasse alla principessina. Per rendere possibile la dichiarazione, infine, combinò un incontro fra i due giovani dall’arcivescovo, prima della messa.
Nikolaj disse alla governatrice che non intendeva dichiararsi alla principessina Mar’ja, e tuttavia promise di essere presente.
Come a Tilsitt non si era permesso di dubitare se fosse bene o male ciò che tuti riconoscevano come un bene, così anche adesso, dopo una breve ma sincera lotta fra il tentativo di organizzare la sua vita secondo i propri criteri, e la rassegnata sottomissione alle circostanze, Rostov scelse quest’ultimo partito e si abbandonò completamente a quella forza che (ne aveva viva la percezione) lo trascinava irresistibilmente verso il punto stabilito dal destino. Sapeva bene che, avendo fatto quella promessa a Sonja, dichiarare ora i propri sentimenti alla principessina Mar’ja era esattamente quello che definiva una bassezza. E sapeva anche che non sarebbe mai stato capace di commettere una bassezza. Ma sapeva (anzi non lo sapeva, ma lo sentiva nel profondo dell’anima) che ora, abbandonandosi in balia delle circostanze e delle persone che lo guidavano, non solo non faceva nulla di male, ma faceva qualcosa di molto, molto importante, più importante di qualsiasi azione da lui mai compiuta.
Dopo il colloquio con la principessina Mar’ja, sebbene la sua vita esteriore fosse sempre la stessa, i piaceri di un tempo avevano perso per lui ogni fascino. Pensava spesso alla principessina, ma non come pensava a tutte le signorine che aveva incontrato in società, o come aveva a lungo pensato, e una volta con entusiasmo, a Sonja. Un tempo, come quasi tutti i giovani onesti, era solito pensare ad ogni ragazza come a una moglie potenziale, attribuendole nella propria fantasia le varie circostanze della vita coniugale: la vestaglia bianca, la moglie al samovar, la carrozza della moglie, i bambini, i loro rapporti con lei, maman et papa, ecc. ecc.; e queste immagini del futuro gli davano piacere. E invece, pensando alla principessina Mar’ja, a cui stavano per fidanzarlo, non riusciva a immaginarsi nulla di quella vita coniugale. Se anche tentava di farlo, tutto gli appariva deformato e falso. Provava soltanto un senso di penosa oppressione.