VII
Dopo tutto quello che gli aveva detto Napoleone, dopo quelle esplosioni di collera e dopo quelle secche parole conclusive: « Je ne vous retiens plus, général, vous recevrez ma lettre», Balašëv era convinto che non soltanto Napoleone non desiderasse di rivederlo, ma soprattutto volesse evitare di incontrarlo, lui ambasciatore offeso e testimone delle sue indecorose escandescenze. Invece, con suo grande stupore, quello stesso giorno ricevette tramite Duroc un invito alla tavola dell’imperatore.
Al pranzo partecipavano alcuni alti ufficiali, come Bessières, Caulaincourt e Berthier.
Napoleone accolse Balašëv con espressione lieta e affabile. Non solo in lui non si coglieva il minimo atteggiamento di vergogna o di rampogna verso se stesso per il modo in cui aveva smodatamente trasceso nella mattinata, ma, anzi, egli cercava di incoraggiare Balašëv. Da un pezzo, ormai, Napoleone era convinto che per lui non sussistesse possibilità di errori e che, secondo il suo concetto, tutto ciò che faceva era bene non già perché coincidesse col concetto di ciò che è bene o è male, ma perché lo faceva lui.
L’imperatore era rientrato molto allegro dalla sua passeggiata a cavallo per le strade di Vilno, dove la folla lo aveva accolto e seguito con entusiasmo. A tutte le finestre delle vie che aveva percorso erano stati esposti drappi, bandiere, stemmi col suo nome, mentre le signore polacche sventolavano i fazzoletti in segno di saluto.
A pranzo, fece accomodare Balašëv accanto a sé; e non soltanto lo trattò con molto garbo, ma quasi mostrando di considerarlo come uno dei suoi intimi di corte, come una delle persone tenute ad approvare i suoi piani e a rallegrarsi dei suoi successi. Fra un discorso e l’altro, prese a parlare di Mosca e a far domande a Balašëv sulla grande città russa, non nel modo in cui un viaggiatore curioso può informarsi di una nuova località che ha intenzione di visitare, ma come se fosse stato persuaso che Balašëv, in quanto russo, dovesse sentirsi lusingato di una siffatta curiosità.
«Quanti abitanti ha Mosca? quante case?» domandava. «È, vero che Moscou è detta Moscou la sainte? Quante chiese ci sono a Moscou?»
E, alla risposta che le chiese erano più di duecento:
«A che servono tante chiese?» fu la sua domanda.
«I russi sono molto devoti,» rispose Balašëv.
«Un così alto numero di chiese e di monasteri è sempre sintomo di arretratezza di un popolo,» osservò Napoleone, voltandosi a guardare Caulaincourt onde esternasse il suo apprezzamento per questo giudizio.
Balašëv rispettosamente si permise di non consentire con l’opinione dell’imperatore francese.
«Ogni paese ha i suoi costumi,» disse.
«Ma in nessun paese d’Europa sopravvive qualcosa di simile,» disse Napoleone.
«Chiedo scusa a Vostra Maestà,» disse Balašëv, «ma oltre alla Russia c’è la Spagna: anche in Spagna ci sono innumerevoli chiese e monasteri.»
Questa risposta di Balašëv, che alludeva alla recente sconfitta dei francesi in Spagna, venne più tardi altamente apprezzata alla corte dell’imperatore Alessandro (secondo quanto ebbe a raccontare lo stesso Balašëv) ma assai poco gradita in quel momento, alla tavola di Napoleone, dove passò senza alcun rilievo.
Dall’indifferenza e dall’incomprensione espressa dal volto dei signori marescialli fu evidente che essi non avevano afferrato in che cosa consistesse l’arguzia a cui il tono di Balašëv pareva alludere. «Se pur c’è stata, o noi non l’abbiamo capita o non è affatto spiritosa,» dicevano le loro espressioni. Quella risposta fu così poco apprezzata, che Napoleone nemmeno se ne accorse e, anzi, domandò ingenuamente a Balašëv quali città toccasse la strada più diretta per Mosca. Balašëv, che durante tutto il pranzo si era tenuto in guardia, rispose che comme tout chemin mène à Rome, tout chemin mène à Moscou; che c’erano altre strade, e che fra tanti itinerari diversi c’era la strada di Poltava, che aveva scelto Carlo XII: e così dicendo, senza volerlo, arrossì per il piacere di questa felice sortita. Balašëv non aveva fatto in tempo a pronunciare la parola Poltava, che già Caulaincourt cominciava a parlare dei disagi della strada da Pietroburgo a Mosca e dei suoi ricordi pietroburghesi.
Dopo pranzo andarono a bere il caffè nello studio di Napoleone, che fino a quattro giorni prima era stato lo studio dell’imperatore Alessandro. Napoleone si sedette, mescolando il caffè nella tazzina di Sèvres, e intanto indicava a Balašëv una sedia accanto a sé.
Nell’uomo che ha appena pranzato c’è una particolare disposizione d’animo che lo induce a sentirsi soddisfatto di sé al di fuori d’ogni fattore razionale, e a considerare tutti come suoi amici. Napoleone si trovava appunto in tali condizioni di spirito. Gli sembrava di essere circondato da una turba adorante ed era convinto che anche Balašëv, dopo il pranzo offertogli, si sentisse suo amico e fosse disposto ad adorarlo. Gli si rivolse pertanto con un sorriso garbato e lievemente ironico:
«A quanto mi è stato detto, questa è la stessa stanza nella quale risiedeva l’imperatore Alessandro. Curioso, generale, non le pare?» disse, senza, evidentemente, il minimo dubbio che quella considerazione potesse riuscire sgradita al suo interlocutore, dato che stava a dimostrare la sua superiorità, dell’imperatore francese, su Alessandro.
Balašëv non rispose e chinò il capo in silenzio.
«Sì, in questa stanza quattro giorni fa si consultavano Wintzingerode e Stein,» proseguì Napoleone con lo stesso sorriso ironico compiaciuto. «Quello che non capisco,» aggiunse, «è come l’imperatore Alessandro abbia trasformato in suoi intimi tutti questi miei nemici personali. È un fatto, questo, che… non capisco. Non ha pensato che anch’io potrei fare altrettanto?» disse, rivolgendosi a Balašëv in tono interrogativo; e questo ricordo parve spingerlo di bel nuovo sul solco della collera mattutina, che ancora gli era fresca nell’animo. «E sappia, dunque, che lo farò,» disse poi, alzandosi e scostando con la mano la tazzina del caffè. «Scaccerò dalla Germania tutti i suoi parenti, quelli del Württemberg, del Baden, di Weimar… sì, li caccerò via tutti. Che pensi a preparare un rifugio in Russia, per costoro!»
Balašëv chinò la testa, per dimostrare col suo atteggiamento che avrebbe desiderato allontanarsi, e ascoltava solo perché non poteva esimersene. Ma Napoleone non si accorse di quest’espressione; egli non trattava Balašëv come l’ambasciatore del proprio nemico, ma come uomo che ormai gli era assolutamente devoto e non poteva non rallegrarsi dell’umiliazione del suo antico padrone.
«E perché l’imperatore Alessandro ha preso il comando delle truppe? A che scopo? La guerra è mestiere mio; il suo è quello di regnare, non di guidare le truppe. Perché assumersi una simile responsabilità?»
Una volta di più cercò la tabacchiera, più volte percorse la stanza in silenzio; poi, inopinatamente, si avvicinò a Balašëv, e con un lieve sorriso, con la stessa sicurezza, rapidità e semplicità che avrebbe avuto se avesse fatto qualcosa non solo d’importante ma anche di piacevole per Balašëv, alzò la mano verso il volto del quarantenne generale russo, gli prese un orecchio, e glielo tirò leggermente accennando con le sole labbra a un lieve sorriso.
Avoir l’oreille tirée par l’empereur era considerato il massimo degli onori e dei favori presso la corte imperiale di Francia.
« Et bien vous ne dites rien, admirateur et courtisan de l’Empereur Alexandre? » esclamò Napoleone, come se fosse stato disdicevole e buffo essere, al suo cospetto, ammiratore di qualcuno che non fosse lui stesso, l’imperatore dei francesi. «Sono pronti i cavalli per il generale?» aggiunse poi, con un lieve cenno del capo in risposta all’inchino di Balašëv. «Dategliene alcuni dei miei: ha molta strada da percorrere…»
La lettera che Balašëv riportò con sé fu l’ultima missiva diretta da Napoleone ad Alessandro. L’imperatore di Russia fu informato di ogni minimo particolare del colloquio, e la guerra ebbe inizio…