XXI
Dopo il reciso rifiuto che gli era stato opposto, Petja se ne andò nella sua stanza; e qui, dopo aver chiuso la porta a chiave, pianse amaramente. Tutti fecero finta di niente quando, all’ora del tè, si presentò taciturno e cupo, gli occhi rossi di pianto.
Il giorno dopo arrivò l’imperatore. Alcuni servitori dei Rostov chiesero il permesso di andare a vedere lo zar.
Quel mattino Petja impiegò molto tempo per vestirsi, pettinarsi e accomodarsi il colletto come i grandi. Faceva smorfie davanti allo specchio, gestiva, si stringeva nelle spalle. Alla fine, senza dirlo a nessuno, si mise il berretto e sgattaiolò fuori di casa dall’ingresso di servizio cercando di non farsi notare. Aveva deciso di recarsi direttamente là ove si trovava l’imperatore e dichiarare apertamente a qualche ciambellano (Petja non dubitava che il sovrano fosse sempre circondato da ciambellani) che lui, il conte Rostov, nonostante fosse tanto giovane, desiderava servire la patria, poiché infatti l’estrema giovinezza non poteva costituire un ostacolo alla devozione al sovrano, e lui era pronto a… Mentre si preparava, Petja aveva mentalmente elaborato molte bellissime frasi da dire al ciambellano.
Egli contava sul buon esito della sua presentazione all’imperatore proprio perché era un ragazzo (Petja, anzi, pensava allo stupore generale davanti alla sua giovane età); ma nello stesso tempo, nella foggia in cui si era accomodato il colletto e pettinato, nell’andatura lenta e posata, cercava di assumere i modi di un adulto. Senonché, quanto più proseguiva, tanto più veniva distratto dalla gente che affluiva senza posa verso il Cremlino e tanto più andava scordandosi di mantenere quella lentezza e posatezza proprie degli adulti. Avvicinandosi al Cremlino, poi, cominciò a preoccuparsi che non lo prendessero a urtoni e spinse in fuori i gomiti con gesto risoluto e con fare minaccioso. Ma a Troickie Voroty, nonostante il suo piglio deciso, la folla, che logicamente non poteva sapere quale patriottica aspirazione lo inducesse a recarsi al Cremlino, premette con tale violenza Petja contro le mura, che il ragazzo dovette rassegnarsi e fermarsi, mentre sotto l’androne della grande porta passavano le carrozze con un fragore che echeggiava sotto le volte. Accanto a Petja c’erano una popolana insieme con un servitore, due mercanti e un soldato in congedo.
Dopo aver indugiato qualche momento sotto la porta, Petja senza attendere che fossero passate tutte le carrozze, avrebbe voluto proseguire prima degli altri e prese a sgomitare con energia; ma la donna che gli stava davanti, e contro la quale per prima aveva diretto le sue gomitate, gli gridò in un impeto di collera: «Be’, che cos’hai da spingere, signorino. Lo vedi che tutti stanno fermi. Dove vorresti intrufolarti?»
«A questo modo son buoni tutti di andare avanti,» aggiunse il servitore; e mettendosi anche lui a lavorar di gomiti, costrinse Petja a spostarsi verso un angolo maleodorante dell’androne.
Con le mani Petja si terse il sudore che gli copriva il viso e si aggiustò alla bell’e meglio il colletto (bagnato anch’esso di sudore) che a casa si era accomodato con tanta cura alla foggia degli adulti.
Sentiva di avere un aspetto impresentabile e temeva che mostrandosi così al cospetto dei gentiluomini di camera, non lo avrebbero ammesso alla presenza di Sua Maestà Imperiale. Ma la calca gli toglieva ogni possibilità di rimettersi in sesto e cambiar posto. Uno dei generali che passavano in carrozza era un conoscente dei Rostov. Petja avrebbe voluto chiedergli d’intervenire in suo aiuto, ma considerò che questo sarebbe stato un gesto poco virile. Quando tutte le carrozze furono passate, la folla si riversò all’esterno e trascinò anche Petja sulla piazza, ormai gremita. La gente era sparsa dappertutto: non solo nella piazza, ma sui tetti e sui cornicioni. Non appena Petja si trovò nella piazza, gli giunse nitido il suono delle campane che colmava tutto il Cremlino, sovrastando il gioioso vociare del popolo.
Per qualche momento sulla piazza si aprì uno spazio libero; ma all’improvviso tutte le teste si scoprirono, tutti si buttarono avanti. Petja si trovò così pigiato, che durava fatica a respirare, mentre tutti gridavano: «Urrà! Urrà! Urrà!»
Il ragazzo si alzò in punta di piedi, diede spintoni, si abbarbicò agli altri; ma non riuscì a veder nulla, tranne la ressa che lo circondava.
Tutte le facce esprimevano un eguale sentimento di commozione e di entusiasmo. Una venditrice ambulante accanto a Petja singhiozzava e le lacrime le scorrevano giù dagli occhi.
«Padre, angelo, batjuska!» ripeteva, tergendosi le lacrime con le dita.
«Urrà!» si gridava da ogni parte.
Per qualche istante la folla rimaneva ferma dov’era, poi tornava a lanciarsi avanti.
Immemore di sé, stringendo i denti e sgranando ferocemente gli occhi, Petja si buttò avanti sgomitando. E
anch’egli gridava «Urrà!» come se in quel momento fosse stato pronto a uccidere se stesso e ogni altro; ma ai suoi lati irrompevano visi altrettanto feroci che del pari urlavano: «Urrà!»
«Ecco dunque cosa significa, essere l’imperatore!» pensava Petja. «No, non posso presentargli di persona la mia supplica, sarebbe un gesto troppo temerario!»
Con tutto ciò non desisteva dal buttarsi avanti, sempre con lo stesso disperato accanimento, finché in mezzo alle schiene di quelli che stavano dinanzi a lui balenò per un attimo uno spazio vuoto con una guida rossa di panno stesa per terra; ma in quel momento la folla ondeggiò sospinta all’indietro (davanti, i poliziotti respingevano quelli che si erano avvicinati troppo al corteo: l’imperatore stava recandosi dal palazzo alla Cattedrale Uspenskij) e Petja si buscò un colpo così violento e inaspettato alle costole, che tutto gli si annebbiò davanti agli occhi e perse coscienza. Quando tornò in sé, un prelato con un ciuffo di capelli grigi sulla fronte e una logora tunica azzurra (probabilmente un suddiacono) lo sorreggeva sotto l’ascella con una mano e con l’altra lo difendeva dalla folla che incalzava da ogni parte.
«Hanno schiacciato questo povero signorino!» diceva il suddiacono. «Ma che modi sono, questi!… Piano!…
Adagio!… lo avete schiacciato.»
L’imperatore aveva raggiunto la cattedrale Uspenskij. Di nuovo la folla si sparpagliò e il suddiacono condusse Petja, pallido e stremato, fino allo «Zar Cannone». Qualcuno ebbe pietà di Petja, finché a un tratto tutta la folla prese a interessarsi di lui e intorno alla sua persona si assiepò la calca. I più vicini lo soccorrevano, gli sbottonavano la giacchetta, lo facevano sedere sulla parte più alta del cannone, se la prendevano con quelli che l’avevano ridotto a quel modo.
«Così si ammazza la gente! Questo si chiama commettere un assassinio! Guardate, poverino, è bianco come un lenzuolo!» risuonavano qua e là varie voci.
Petja non tardò a riprendersi; il viso ritrovò il suo colorito, il dolore passò e, grazie a quell’incidente passeggero, ebbe un posto sul cannone, donde sperava di scorgere l’imperatore, che di certo avrebbe fatto, tornando, lo stesso percorso! Petja ormai non pensava più a consegnare la supplica. Si accontentava di vederlo: si sarebbe considerato abbastanza fortunato!
Mentre nella cattedrale Uspenskij si celebrava la messa (e a questa si aggiungeva un Te Deum per l’arrivo dell’imperatore e una preghiera di ringraziamento per la stipulazione della pace con i turchi) la folla si diradò; comparvero vocianti venditori di kvas, di panpepato, di semi di papavero - dei quali Petja era particolarmente ghiotto -
mentre intorno risuonavano i soliti discorsi. Una venditrice ambulante mostrava il suo scialle strappato e andava ripetendo quanto caro le fosse costato; un’altra si lamentava che ormai i tessuti di seta erano tutti carissimi. Il suddiacono, il salvatore di Petja, chiacchierava con un funzionario menzionando a uno a uno i prelati, che quel giorno avevano celebrato col reverendissimo vescovo. Il suddiacono ripeté più volte la parola «pontificare», di cui Petja non capiva il significato. Due giovani della piccola borghesia scherzavano con certe ragazze della servitù che sgranocchiavano nocciole. Tutti quei discorsi, e soprattutto gli scherzi con le ragazze, per Petja, data la sua età, potevano rivestire particolare attrattiva; ma in un simile frangente non lo interessavano. Se ne stava lassù, sopra il cannone, in preda all’emozione che sempre provava al pensiero dell’imperatore e dell’amore che aveva per lui. La coincidenza della sensazione di dolore e di spavento, quando la folla lo aveva schiacciato, e del sentimento di entusiasmo, accentuava in lui la consapevolezza della solennità di quel momento.
A un tratto dal lungofiume echeggiarono dei colpi di cannone (sparavano per celebrare la pace con i turchi) e la folla si buttò a precipizio in quella direzione, a vedere i cannoni che sparavano. Anche Petja avrebbe voluto correre laggiù, ma il suddiacono, che aveva preso il signorino sotto la sua protezione, non glielo permise. Le cannonate risuonavano ancora, quando dalla cattedrale Uspenskij uscirono di corsa ufficiali, generali, gentiluomini di camera; poi, meno concitati, uscirono altri personaggi. Di nuovo le teste si scoprirono, e quelli che erano corsi a guardare i cannoni, si precipitarono indietro. Finalmente dalla porta della cattedrale uscirono altri quattro uomini con uniformi e fusciacche.
«Urrà! Urrà!» gridò di nuovo la folla.
«Qual è? Qual è?» domandava Petja con voce piagnucolante a chi gli stava attorno; ma nessuno gli rispondeva.
Tutti erano in preda all’entusiasmo. Allora Petja, sceltasi una di quelle quattro persone di cui, a causa delle lacrime che gli venivano agli occhi per la gioia, non riusciva da discernere i tratti, concentrò su di essa tutto il suo entusiasmo; e sebbene costui non fosse l’imperatore, si mise a gridare «urrà!» a squarciagola, mentre fra sé pensava che l’indomani stesso a qualunque costo, sarebbe stato un soldato.
La folla corse dietro l’imperatore, accompagnandolo fino alla reggia, poi cominciò a disperdersi. Era già tardi; Petja non aveva mangiato nulla e grondava di sudore, ma non andò a casa. Mescolato a quella folla diradata ma ancora abbastanza numerosa indugiò davanti al palazzo ove adesso Sua Maestà sedeva a mensa, spiando le finestre, in attesa che accadesse qualcos’altro e preso da invidia sia per i dignitari che varcavano l’ingresso per prender parte alla cena dell’imperatore, sia per i camerieri che servivano a tavola e s’intravedevano dietro le impannate.
Alla tavola dell’imperatore, Valuev disse a un tratto, voltandosi verso la finestra:
«Il popolo spera di vedere ancora Vostra Maestà.»
Il pranzo volgeva al termine. L’imperatore si alzò, terminando di mangiare un biscotto, e uscì sul balcone. Il popolo, con Petja in mezzo, si precipitò verso il balcone.
«Angelo, batjuška! Urrà! Padre… Urrà!» gridarono Petja e tutti gli altri; e di nuovo le baby e alcuni uomini più vulnerabili (fra cui lo stesso Petja) si misero a piangere di emozione e di felicità.
Il biscotto che l’imperatore teneva in mano si ruppe e finì sulla ringhiera del balcone, e di qui cadde a terra. Un cocchiere in caffettano, che era più vicino di tutti, si avventò su quel pezzo di biscotto e lo raccolse. Qualcuno si buttò sul cocchiere. L’imperatore se ne accorse, e ordinato di portargli il piatto dei biscotti si mise a gettarne dal balcone.
A Petja gli occhi si iniettarono di sangue: il pericolo di finire schiacciato lo eccitò ancor di più, e si gettò sui biscotti. Non sapeva perché, ma capiva che bisognava prendere un biscotto dalle mani dello zar, non si poteva dare per vinto. Si buttò avanti e fece stramazzare una vecchia che stava per raggiungere uno dei biscotti. Ma la vecchia non si diede per vinta, sebbene fosse finita lunga e distesa (annaspava per prendere i biscotti ma non mirava giusto). Petja le scostò violentemente il braccio con un colpo di ginocchio, afferrò il biscotto e, come se avesse paura di non arrivare a tempo, gridò di nuovo «urrà!» con voce ormai arrochita.
Il sovrano si ritirò, dopo di che la maggior parte della folla si disperse definitivamente.
«Lo dicevo io che bisognava aspettare! È stato proprio così!» si udiva ripetere qua e là in tono di giubilo.
Per quanto Petja fosse felice, lo rattristava il pensiero di tornare a casa e la consapevolezza che tutta la gioia di quella giornata era ormai finita. Perciò dal Cremlino andò dal suo amico Obolenskij, che aveva quindici anni e a sua volta intendeva arruolarsi nell’esercito. Finalmente, tornato a casa, dichiarò in modo fermo e risoluto che se non l’avessero lasciato andare, sarebbe fuggito. E il giorno dopo, pur non essendosi ancora del tutto arreso, il conte Il’ja Andreiè andò a informarsi dove fosse possibile sistemare Petja in modo che corresse il minor pericolo.