IX

 

La quinta compagnia si era accampata proprio sul ciglio del bosco. Un grande falò divampava vivido in mezzo alla neve, illuminando i rami degli alberi appesantiti dalla brina.

Nel cuore della notte i soldati della quinta compagnia avevano sentito nel bosco dei passi sulla neve e dei rami scricchiolare.

«Ragazzi, una strega,» disse un soldato.

Tutti alzarono la testa, mettendosi in ascolto, e dal bosco, nella chiara luce del fuoco, avanzarono due figure stranamente vestite che si sorreggevano a vicenda.

Erano due francesi che si erano nascosti nel bosco. Con voce rauca, dicendo qualcosa in un linguaggio incomprensibile ai soldati, si avvicinavano al fuoco. Il più alto di statura, con un berretto da ufficiale, sembrava completamente sfinito. Raggiunto il fuoco, tentò di sedersi, ma crollò a terra. L’altro, piccolo, tarchiato, con le guance fasciate da un fazzoletto, un soldato semplice, era in condizioni migliori. Sorresse il compagno e indicando la bocca disse qualcosa. I soldati circondarono i francesi, stesero per terra un cappotto per sdraiarvi il malato e portarono a entrambi kaša e vodka.

L’ufficiale francese allo stremo delle forze era Ramballe; quello con la faccia bendata il suo attendente Morel.

Dopo che ebbe bevuto della vodka e divorato una gavetta di kaša, Morel fu preso all’improvviso da un accesso di morbosa allegria e incominciò a parlare a mitraglia ai soldati che non capivano una sola parola. Ramballe invece aveva rifiutato il cibo e se ne stava sdraiato in silenzio vicino al fuoco; appoggiato su un gomito guardava i soldati russi con occhi rossi dall’espressione insensata. Emetteva a tratti un gemito prolungato, e poi ripiombava nel silenzio. Morel, indicando le spalline, cercava di far capire ai soldati che si trattava di un ufficiale e che bisognava riscaldarlo. Un ufficiale russo che si era avvicinato al fuoco, mandò a chiedere al colonnello se era disposto ad ospitarlo nella sua isba in modo da farlo riscaldare; e quando si seppe che il colonnello aveva ordinato di condurgli l’ufficiale, informò Ramballe che poteva andare. Egli si alzò e fece per avviarsi, ma barcollò e sarebbe caduto se non fosse stato sorretto da un soldato che gli era accanto.

«Come? Non ce la fai?» disse un soldato, ammiccando ironicamente verso Ramballe.

«Ehi, scemo! Che hai da parlare a vanvera? Un contadino, davvero un contadinaccio,» si udì dire da varie parti in tono di rimprovero al soldato motteggiatore.

Attorniarono Ramballe, due soldati lo issarono sulle braccia incrociate e lo portarono all’isba. Ramballe aveva passato le braccia attorno al collo dei soldati e mentre lo portavano prese a dire in tono lamentoso:

« Oh, mes braves, oh mes bons, mes bons amis! Voilà des hommes! Oh, mes braves, mes bons amis! » e come un bambino appoggio il capo sulla spalla di un soldato.

Intanto Morel era seduto nel posto migliore, attorniato dai soldati.

Morel, un francese piccolo e tarchiato, con gli occhi infiammati e lacrimosi, oltre al fazzoletto annodato sopra il berretto come usano le contadine, indossava una pelliccetta da donna. Palesemente brillo, cingeva con un braccio un soldato seduto accanto a lui e cantava con voce rauca e spezzata una canzonetta francese. I soldati guardandolo si sbellicavano dal ridere.

«Su, su, insegnami, com’è? Io imparo subito. Come è?…» diceva un cantore burlone che Morel teneva abbracciato.

« Vive Henri quatre! Vive ce roi vaillant! » canterellò Morel ammiccando con un occhio. « Ce diable à quatre… »

« Vivaricà! Vis seruvarù! Sidiablacà… » ripeté il soldato agitando una mano e afferrando realmente il motivo.

«Bravo, bene! Oh, oh, oh, oh, oh…» si levò da varie parti una rozza gioiosa ilarità.

Anche Morel rideva facendo smorfie.

«Su, dacci sotto!»

« Qui eut le triple talent

De boire, de battre

Et d’être un vert galant … »

«Anche questa va bene. Tocca a te Zaletaev. « Chiù-iù-iù… » pronunciò con sforzo Zaletaev. « Chiù-iù-iù… »

strascicò la parola arrotondando con cura le labbra, « letriptalà de bu de ba e detravagalà,» canterellò.

«Ah, benissimo! Pare proprio un francese! Ohi… oh-oh-oh-oh! E vuoi ancora da mangiare?

«Dagli dell’altra kaša; ce ne vuole per fargli passare la fame.»

Gli diedero ancora kaša, e Morel, ridendo, attaccò la terza gavetta. Tutti i volti dei giovani soldati che stavano a guardarlo erano illuminati da un gioioso sorriso. I vecchi soldati, che ritenevano sconveniente occuparsi di simili sciocchezze, se ne stavano sdraiati dall’altra parte del fuoco, ma ogni tanto si sollevavano sul gomito e ammiccavano sorridenti in direzione di Morel.

«Sono uomini anche loro,» disse uno di essi, avviluppandosi nel cappotto. «Perfino l’assenzio ha la sua radice.»

«Oh! Signore! Quante stelle! Un subisso! Segno di gelo…»

E tutto piombò nel silenzio. Le stelle, come se sapessero che ora nessuno le guardava più, scintillavano al massimo nel cielo nero. Ora ravvivandosi, ora smorzandosi, bisbigliavano fra loro comunicandosi qualcosa di gioioso e misterioso insieme.

X

Le truppe francesi diminuivano in modo costante, secondo una progressione matematicamente esatta. Anche quel passaggio della Berezina, sul quale tanto si è scritto, non fu che uno dei gradi intermedi della distruzione dell’esercito francese, e non l’episodio decisivo della campagna. Se da parte francese si è scritto e si scrive tanto sulla Berezina, ciò è accaduto e accade unicamente perché sul ponte crollato della Berezina le sventure, che prima l’esercito francese aveva subito secondo un ritmo regolare, qui si addensarono a un tratto in un solo momento, in un solo spettacolo tragico che rimase impresso nella memoria di tutti. Da parte russa, poi, si è parlato e si è scritto tanto della Berezina solo perché, lontano dal teatro di guerra, a Pietroburgo, era stato redatto un piano (da Pfül) per attirare in una trappola strategica Napoleone sulla Berezina. Tutti erano convinti che ogni cosa si sarebbe svolta come nel piano, e perciò si ostinarono a dire che era stato proprio il passaggio della Berezina a provocare la rovina dei francesi. In sostanza, invece, i risultati del passaggio della Berezina furono molto meno disastrosi per i francesi - quanto a perdita di cannoni e di uomini - che non i combattimenti di Krasnoe, come dimostrano le cifre.

Il passaggio della Berezina è importante solo perché dimostrò con indubbia evidenza la erroneità di tutti i piani elaborati per tagliare la ritirata ai francesi e la giustezza dell’unico modo d’agire possibile, voluto da Kutuzov e da tutte le truppe, che consisteva nell’inseguire semplicemente il nemico. La folla dei francesi fuggiva con una velocità che cresceva costantemente, con tutta l’energia rivolta al raggiungimento della meta. Fuggiva come una belva ferita e non era possibile bloccarle la strada. Questo fu dimostrato non tanto da come fu organizzato il passaggio, quanto dal movimento sui ponti. Quando i ponti furono abbattuti, i soldati disarmati, gli abitanti di Mosca, le donne con bambini che si trovavano nei convogli dei francesi, tutti, sotto la spinta della forza d’inerzia, non si arresero, ma continuarono a fuggire in avanti, sulle barche, nell’acqua gelata.

Questa tendenza era ragionevole. La situazione era egualmente difficile tra i fuggiaschi e tra gli inseguitori.

Restando con i suoi compagni, ciascuno in caso di sventura confidava nell’aiuto del compagno, in quel posto determinato che occupava in mezzo ai suoi. Arrendendosi ai russi, invece, si trovava sempre nella stessa situazione di sventura, ma scendeva all’ultimo posto nella suddivisione di tutto ciò che poteva soddisfare i suoi bisogni vitali. Ai francesi non occorrevano informazioni sicure per sapere che la metà dei prigionieri, di cui i russi non sapevano che fare, nonostante la loro buona volontà, perivano di freddo e di fame; sapevano che non poteva essere diversamente. Persino i comandanti russi più inclini alla compassione o - ammiratori come erano dei francesi - i francesi in servizio presso i russi, non potevano fare nulla per i prigionieri. I francesi morivano per la stessa situazione di indigenza in cui versava l’esercito russo. Non si potevano togliere il pane e gli abiti ai soldati affamati e che erano necessari, e darli ai francesi, non più dannosi, né odiati o colpevoli, ma semplicemente inutili. Alcuni facevano anche questo, ma si trattò solo di eccezioni.

Alle spalle la rovina era sicura; davanti, la speranza. I vascelli erano stati bruciati; non c’era altra via di salvezza che la fuga collettiva e ad essa erano rivolte tutte le energie dei francesi.

Quanto più i francesi proseguivano nella fuga, quanto più miserevoli erano i resti del loro esercito (specialmente dopo la Berezina, nella quale si riponevano particolari speranze per via del piano elaborato a Pietroburgo), tanto più forti esplodevano le passioni dei comandanti russi che si accusavano a vicenda e soprattutto accusavano Kutuzov. Supponendo che l’insuccesso del piano pietroburghese alla Berezina sarebbe ricaduto su Kutuzov, il malcontento e il disprezzo nei suoi confronti e anche l’irrisione venivano espressi in modo sempre più accentuato.

L’irrisione e il disprezzo, naturalmente, si manifestavano in una forma rispettosa, in una forma tale che Kutuzov non poteva neanche domandare di che cosa e perché fosse accusato. Con lui non parlavano seriamente, e facendogli rapporto o chiedendo la sua autorizzazione, avevano l’aria di adempiere un triste rito, ma si strizzavano l’occhio dietro le sue spalle e a ogni passo cercavano di ingannarlo.

Per tutti questi uomini, proprio perché non potevano capirlo, era pacifico che col vecchio non valeva la pena di parlare, che non avrebbe mai capito tutta la profondità dei loro piani, che avrebbe risposto con le sue solite frasi (a loro sembravano solo frasi vuote) sul ponte d’oro, sul fatto che non si poteva arrivare al confine con una turba di straccioni, e così via. Tutte cose che avevano già sentito da lui. E tutto ciò che Kutuzov diceva: per esempio, che bisognava aspettare i rifornimenti, che gli uomini erano senza stivali, era così semplice, mentre tutto ciò che proponevano loro era talmente complesso e intelligente da rendere indubbio che Kutuzov era stupido e vecchio e loro dei condottieri geniali, defraudati del potere supremo.

Quando l’esercito del brillante ammiraglio e eroe di Pietroburgo Wittgenstein si congiunse a quello di Kutuzov, questo stato d’animo e queste calunnie dello stato maggiore raggiunsero la massima intensità. Kutuzov se ne accorgeva e sospirando si limitava a stringersi nelle spalle. Solo una volta dopo la Berezina si arrabbiò e scrisse a Bennigsen, che indipendentemente da lui mandava rapporti all’imperatore, la seguente lettera:

«In conseguenza dei vostri accessi morbosi, vogliate, Eccellenza, appena ricevuta la presente, recarvi senza indugi a Kaluga ove rimarrete in attesa di ulteriori disposizioni e destinazioni da Sua Maestà Imperiale.»

Ma subito dopo l’allontanamento di Bennigsen arrivò al campo il granduca Konstantin Pavloviè, che aveva fatto l’inizio della campagna ed era poi stato allontanato dall’esercito su richiesta di Kutuzov. Raggiunto il campo, il granduca comunicò a Kutuzov il malcontento dell’imperatore per i mediocri successi delle nostre truppe e per la lentezza dei movimenti. Sua Maestà in persona aveva intenzione di raggiungere a giorni le truppe.

Questo vecchio altrettanto esperto delle faccende di corte che di quelle militari, questo Kutuzov che nell’agosto dello stesso anno era stato eletto comandante in capo contro la volontà dell’imperatore, che aveva allontanato dall’esercito il granduca e erede al trono, e che di sua autorità, contro la volontà dell’imperatore, aveva ordinato l’abbandono di Mosca, questo stesso Kutuzov ora comprese immediatamente che il suo tempo era scaduto, che la sua parte era stata recitata fino in fondo, e che aveva perso del tutto il suo fittizio potere. E non lo capiva solo per l’atmosfera di corte. Da una parte vedeva che la guerra, nella quale aveva recitato la sua parte, era finita, e sentiva che la sua missione era compiuta. Dall’altra, nello stesso tempo, cominciava ad avvertire la stanchezza fisica nel suo vecchio corpo e la necessità di un riposo fisico.

Il 29 novembre Kutuzov entrò in Vilno, nella sua «buona Vilno» come egli la chiamava. Per due volte nella sua carriera Kutuzov era stato governatore di Vilno. Nella ricca e intatta Vilno, oltre alle comodità della vita, di cui da tempo era stato privato, Kutuzov trovò vecchi amici e ricordi. E voltando di colpo le spalle a tutte le preoccupazioni militari e statali, si immerse in una vita tranquilla e uniforme, nella misura in cui lo lasciavano in pace le passioni che gli ribollivano intorno, come se tutto ciò che stava accadendo o sarebbe accaduto nel mondo della storia non lo toccasse minimamente.

Èièagov, uno dei più accaniti sostenitori dei piani miranti a tagliar fuori e sbaragliare il nemico, Èièagov, che in un primo momento avrebbe voluto fare una diversione in Grecia, e poi a Varsavia, ma che non voleva a nessun costo andare dove gli veniva ordinato, Èièagov, che considerava Kutuzov una persona da lui beneficata perché, quando nel 1811 era stato inviato, all’insaputa di Kutuzov, a stipulare la pace con la Turchia, convintosi che la pace era già bell’e fatta, aveva riconosciuto di fronte all’imperatore che il merito dell’aver concluso la pace spettava a Kutuzov, questo Èièagov fu il primo ad accogliere Kutuzov a Vilno, nel castello in cui doveva alloggiare. Èièagov, in sola uniforme da ammiraglio, con lo spadino, tenendo il berretto sotto l’ascella, consegnò a Kutuzov il rapporto sulle forze della piazza e le chiavi della città. Quell’atteggiamento di rispettoso disprezzo tipico dei giovani verso il vecchio ormai svanito si manifestava in sommo grado in tutto il modo di fare di Èièagov, che era al corrente delle accuse mosse a Kutuzov.

Conversando con lui, Kutuzov gli disse fra l’altro che le carrozze cariche di vasellame che gli erano state prese a Borisova, erano intatte e gli sarebbero state restituite.

« C’est pour me dire que je n’ai pas sur quoi manger… Je puis au contraire vous fournir de tout dans le cas même où vous voudriez donner des dîners» esclamò avvampando Èièagov che con ogni sua parola voleva mostrare d’aver ragione e perciò supponeva che anche Kutuzov avesse lo stesso tipo di preoccupazione. Kutuzov abbozzò il suo fine e penetrante sorriso e stringendosi nelle spalle osservò:

« Ce n’est que pour vous dire ce que je vous dis. »

A Vilno Kutuzov, contro la volontà dell’imperatore, fece fermare la maggior parte delle truppe. Stando a chi gli era vicino, durante questo suo soggiorno a Vilno Kutuzov si lasciò andare e si indebolì fisicamente. Si occupava in modo svogliato delle questioni militari, lasciando far tutto ai suoi generali e in attesa dell’imperatore si dava a una vita dissipata.

Partito il 7 dicembre da Pietroburgo con il suo seguito (il conte Tolstoj, il principe Volkonskij, Arakèeev ed altri) l’imperatore arrivò l‘11 a Vilno e si recò subito al castello con la sua slitta da viaggio. Davanti al castello, nonostante il gelo intenso, lo attendevano un centinaio di generali e di ufficiali di Stato Maggiore in alta uniforme e il picchetto d’onore del reggimento Semënovskij.

Un corriere, arrivando di corsa al castello con un tiro a tre di cavalli madidi di sudore, in modo da precedere l’imperatore, gridò: «Arriva!» Konovnicyn si precipitò nel vestibolo ad avvertire Kutuzov che aspettava nella guardiola del portone.

Un minuto dopo la grande e massiccia figura del vecchio in alta uniforme, con tutte le decorazioni che gli ricoprivano il petto e la sciarpa che gli stringeva il ventre, comparve dondolandosi sulla scalinata d’ingresso. Kutuzov si era messo il cappello, teneva in mano i guanti e scendendo gli scalini obliquamente, con una certa fatica, arrivò giù ed estrasse il rapporto preparato per l’imperatore.

Un rapido viavai, mormorii, un altro corriere che passò in un lampo, e tutti gli sguardi si concentrarono su una slitta che giungeva al galoppo e nella quale già si distinguevano le figure dell’imperatore e di Volkonskij.

Tutto questo, per un’abitudine che durava da cinquant’anni, gettò nell’agitazione il vecchio generale: si palpò addosso con ansia, si accomodò il cappello e proprio nel momento in cui l’imperatore scendeva dalla slitta e alzava gli occhi su di lui, facendosi forza e raddrizzandosi nella persona, gli consegnò il rapporto e attaccò a parlare con la sua voce misurata e suadente.

Con rapido sguardo l’imperatore squadrò Kutuzov dalla testa ai piedi, si accigliò per un istante, ma subito, dominandosi, gli si avvicinò e aprendo le braccia, abbracciò il vecchio generale. Di nuovo, per una vecchia, abituale impressione, e per una certa relazione con i suoi intimi pensieri, quest’abbraccio ebbe come sempre il suo effetto su Kutuzov che scoppiò in lacrime.

L’imperatore salutò gli ufficiali, il picchetto d’onore del reggimento Semënovskij e dopo aver stretto ancora una volta la mano al vecchio, entrò con lui nel castello.

Rimasto a tu per tu col feldmaresciallo, l’imperatore gli espresse il proprio malcontento per la lentezza dell’inseguimento, per gli errori commessi a Krasnoe e alla Berezina e gli comunicò le proprie considerazioni sulla futura campagna oltre le frontiere. Kutuzov non fece né obiezioni né commenti. Sul suo volto era impressa la stessa espressione mansueta e ottusa con cui sette anni prima aveva ascoltato gli ordini dell’imperatore sul campo di Austerlitz.

Quando Kutuzov uscì dal gabinetto di Sua Maestà e con il suo passo pesante e ondeggiante attraversò a testa bassa il salone, una voce lo fermò.

«Altezza serenissima,» disse qualcuno.

Kutuzov alzò la testa e fissò a lungo negli occhi il conte Tolstoj fermo davanti a lui con un piccolo oggetto su un piatto d’argento. Kutuzov sembrava non capire che cosa volessero da lui.

A un tratto parve ricordare; un sorriso appena percettibile balenò sulla sua faccia grassoccia ed egli, con un inchino profondo e rispettoso, prese l’oggetto dal piatto. Era la croce di San Giorgio di primo grado.

Guerra e Pace
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