IX

 

Al posto di guardia dove Pierre era stato condotto, l’ufficiale e i soldati che l’avevano arrestato lo trattavano ostilmente, ma non senza un certo rispetto. Risentivano ancora delle incertezze sulla sua identità (poteva essere un personaggio importante), mentre il ricordo ancor fresco della lotta che avevano dovuto ingaggiare per catturarlo provocava la loro ostilità.

Ma quando, il mattino dell’indomani, ci fu il cambio della guardia, Pierre comprese che per i nuovi arrivati -

per gli ufficiali come per i soldati - egli non aveva più la stessa importanza che aveva avuto per quelli da cui era stato catturato. E in realtà, in quell’uomo grande e grosso in caffetano di contadino, le nuove guardie non videro più l’uomo che si era disperatamente battuto con il saccheggiatore e con i soldati di pattuglia, quello che aveva pronunciato la solenne frase sulla bambina tratta in salvo; per loro era soltanto il diciassettesimo dei russi, catturati e trattenuti lì per una ragione o per l’altra, secondo le disposizioni delle supreme autorità. Gli unici aspetti singolari di Pierre erano la sua sicurezza, la sua aria tranquilla e pensierosa e la sua scioltezza nell’esprimersi in francese, cosa che stupì grandemente le guardie. Malgrado questo, quel giorno stesso Pierre fu messo insieme agli altri prigionieri sospetti, dato che la stanza isolata, da lui occupata il giorno precedente, si era resa necessaria a un ufficiale.

Tutti i russi trattenuti in arresto insieme a Pierre erano persone di umilissime condizioni. E tutti, riconoscendo in Pierre un signore, lo evitavano, tanto più che parlava in francese. Pierre avvertiva con tristezza l’atmosfera di diffidenza che lo circondava.

La sera del giorno dopo, Pierre seppe che tutti i trattenuti (quindi, probabilmente anche lui con loro,) sarebbero stati giudicati come incendiari. Il terzo giorno, fu condotto insieme agli altri, in una casa, dov’erano riuniti un generale francese coi baffi bianchi, due colonnelli e altri francesi con delle sciarpe al braccio. E a Pierre, come agli altri, con la precisione e la stringatezza, apparentemente superiori alle umane debolezze, con cui abitualmente vengono interrogati gli imputati, furono rivolte le domande di prammatica: chi siete? dove vi trovavate? a quale scopo? e così via.

Simili domande, che prescindevano dalla sostanza del fatto, e anzi escludevano ogni possibilità di mettere in luce tale sostanza, come tutte le domande che si fanno nei processi, avevano l’unico scopo di tracciare quella sorta di condotto lungo il quale i giudicanti volevano che scorressero le risposte dell’imputato, spingendolo verso la meta desiderata, cioè verso il capo d’accusa. Non appena egli incominciava a dire qualcosa che non corrispondesse agli scopi dell’accusa, essi chiudevano quel condotto e l’acqua poteva scorrere via a suo piacimento. Inoltre Pierre provava ciò che prova l’imputato in tutti i processi: la sensazione di non comprendere assolutamente la ragione per cui tutte quelle domande gli venivano rivolte. Gli sembrava che soltanto per condiscendenza, o persino per cortesia, quegli uomini ricorressero a quel genere d’interrogatorio. Sapeva di essere in loro potere, sapeva che soltanto il loro potere lo faceva trovare lì dentro, che soltanto il potere dava loro il diritto di esigere da lui delle risposte, che l’unico scopo del gruppo che gli stava di fronte consisteva nell’accusarlo. E quindi, giacché era chiara l’esistenza di quel potere e della volontà di accusarlo, non si capiva che bisogno ci fosse di quell’interrogatorio. Era evidente che ogni domanda doveva condurre alla dimostrazione della colpevolezza. Quando gli chiesero cosa stesse facendo quando l’avevano catturato, Pierre rispose, con una certa tragicità, che stava riportando ai suoi genitori la bambina qu’il avait sauvé des flammes. Perché era venuto alle mani col saccheggiatore? Pierre rispose che voleva difendere una donna, che difendere una donna offesa è dovere di ogni uomo, che… Lo fermarono: questo sconfinava dall’imputazione. Perché si trovava nel cortile della casa in fiamme, dove numerosi testimoni l’avevano visto? Rispose che andava in giro a vedere quello che succedeva a Mosca. Lo interruppero di nuovo: non gli avevano chiesto dove andasse, ma perché si trovasse nei pressi di un incendio.

Chi era? Per la seconda volta gli posero la domanda, alla quale aveva dichiarato di non poter rispondere. E lui, ancora una volta, dichiarò che questo non poteva dirlo.

«Mettete a verbale: la cosa non va affatto bene, anzi, va molto male,» esclamò severamente il generale dai baffi bianchi e dal rosso, florido viso.

Il quarto giorno gli incendi incominciarono a scoppiare lungo il Bastione Zubovskij.

Pierre fu portato con altri tredici al Krymskij Brod, nella rimessa d’una casa di mercante. Nel passare per le strade, Pierre faceva fatica a respirare per il fumo che sembrava riempire tutta la città. Si scorgevano incendi da tutte le parti. Pierre, allora, ancora non sapeva che cosa significasse il fatto che Mosca bruciava e guardava con orrore tutto quel fuoco.

Pierre restò altri quattro giorni nella rimessa di quella casa presso il Krymskij Brod, e, dai discorsi dei soldati francesi, venne a sapere che tutti coloro che erano trattenuti lì dentro erano in attesa della decisione del maresciallo, che doveva giungere da un giorno all’altro. Di quale maresciallo si trattasse, Pierre non riuscì a saperlo dai soldati. Per loro, evidentemente, il maresciallo costituiva il supremo, e alquanto misterioso, anello della catena del potere.

Quelle prime giornate fino all‘8 settembre, giorno in cui i prigionieri subirono un secondo interrogatorio, furono per Pierre le più penose.

X

L‘8 settembre, nella rimessa dov’erano rinchiusi i prigionieri, entrò un ufficiale molto importante, a giudicare dell’ossequio con cui lo accolsero le guardie. Quest’ufficiale, probabilmente dello stato maggiore, con una lista di nomi in mano, fece l’appello di tutti i russi, chiamando Pierre celui qui n’avoue pas son nom. E, guardando tutti i prigionieri con aria indifferente e pigra, ordinò all’ufficiale delle guardie di vestirli e rassettarli a dovere prima di condurli davanti al maresciallo. Un’ora dopo arrivò una compagnia di soldati, e Pierre e gli altri tredici furono condotti al Devièie Pole.

La giornata era limpida, dopo la pioggia era tornato il sole, e l’aria era insolitamente pura. Il fumo non si stendeva in nuvole basse come quando Pierre era stato trasferito dal posto di guardia del Bastione Zubovskij: nell’aria limpida, oggi, il fumo si sollevava in alte colonne. Non si scorgevano in nessun luogo i fuochi degli incendi: dappertutto si alzavano colonne di fumo, e tutta Mosca, tutto ciò che di Mosca Pierre poteva scorgere, era un unico ammasso di ceneri.

Dappertutto si vedevano spiazzi deserti, ingombri di stufe e di canne fumarie, e più di rado i muri, anneriti dal fuoco, delle case in muratura. Pierre guardava gli avanzi degli incendi e non riusciva più a riconoscere i ben noti quartieri cittadini. Qua e là s’intravvedeva la mole di qualche chiesa risparmiata dal fuoco. Il Cremlino, intatto, biancheggiava in lontananza con le sue torri e il campanile di Ivan il Grande. Poco lontano, lietamente brillava al sole la cupola del Monastero Novodevicij, di dove, particolarmente sonoro, giungeva lo scampanìo della messa. Il suono delle campane ricordò a Pierre che era domenica, la festa della Natività della Vergine. Ma sembrava che nessuno celebrasse la ricorrenza: dappertutto rovina e devastazione; in quanto ai russi, solo di rado si incontravano persone lacere e spaurite, che alla vista dei francesi si nascondevano.

Evidentemente, il nido russo era perso, distrutto; ma, in seguito alla distruzione dell’ordine di vita russo, Pierre sentiva inconsciamente che sopra quel nido devastato s’era stabilito un diverso ordine, a sé stante, saldo: quello francese. Lo sentiva vedendo i soldati che marciavano baldanzosi, in file serrate, scortando lui e gli altri prigionieri; lo sentiva vedendo un alto funzionario francese che passava, in senso opposto al loro, su una carrozza tirata da due cavalli e guidata da un soldato. Lo sentiva udendo gli allegri suoni di una banda militare, provenienti dalla parte sinistra dell’accampamento, e soprattutto lo sentiva e lo capiva dall’elenco che, facendo l’appello dei prigionieri, l’ufficiale francese aveva letto quella mattina. Pierre era stato catturato da qualche soldato, l’avevano condotto prima in un posto e poi in un altro, insieme ad altre decine di persone; era dunque possibile che lo dimenticassero, lo confondessero con gli altri. E invece no: le risposte, che aveva dato durante l’interrogatorio, gli erano ritornate sotto forma di quell’appellativo: celui qui n’avoue pas son nom. E sotto questo appellativo, che a Pierre suonava strano e terribile, adesso lo stavano portando chissà dove, fermamente convinti (lo si poteva leggere nei loro volti) che tutti quei prigionieri, e lui insieme agli altri, fossero proprio le persone che servivano al loro scopo, e che li stavano conducendo proprio lì dove occorreva.

Pierre si sentiva come un’insignificante scheggia di legno caduto fra gli ingranaggi di una macchina, che lui non conosceva, ma che funzionava secondo tutte le regole.

Pierre e gli altri prigionieri furono condotti, costeggiando il lato destro del Devièie Pole, in una grande casa bianca dall’enorme giardino, non lontana dal monastero. Era la casa del principe Šèerbatov, dove tante volte Pierre s’era recato in visita, e in cui adesso, come seppe dai discorsi dei soldati, risiedeva il maresciallo duca di Eckmühl.

Li condussero fino all’ingresso e li fecero entrare nella casa uno per volta. Pierre fu il sesto. Attraverso la galleria, il vestibolo, l’anticamera, a Pierre ben noti, lo condussero in uno studio, lungo e basso, sulla cui porta stava un aiutante.

Davout era seduto a un tavolo, in fondo alla camera, con gli occhiali sul naso. Pierre gli si avvicinò. Davout, senza alzare gli occhi, era evidentemente molto preso dall’incartamento che stava sfogliando. Sempre senza alzare gli occhi, domandò a bassa voce:

« Qui êtes vous?

Pierre restò in silenzio, non aveva la forza di pronunciare le parole. Per Pierre, Davout non era soltanto un generale francese. Fissando il gelido viso di Davout che, come un maestro severo, accettava di pazientare qualche istante in attesa di una risposta, Pierre sentiva che ogni secondo d’indugio poteva costargli la vita, ma non sapeva cosa dire. A ripetere quello che aveva detto durante il primo interrogatorio non si decideva; d’altronde, rivelare il suo nome e la sua posizione era un rischio e una vigliaccheria. Così, continuava a tacere. Ma prima che fosse riuscito a prendere una qualsiasi decisione, Davout alzò la testa, sollevò gli occhiali sulla fronte, socchiuse gli occhi e lo guardò attentamente.

«Io conosco quest’uomo,» disse con voce fredda, misurata, evidentemente calcolata a bella posta per spaventare Pierre.

I brividi di gelo che fino a quel momento gli erano corsi lungo la schiena, ora vennero a serrare la testa di Pierre in una gelida morsa.

« Mon général, vous ne pouvez pas me connaître, je ne vous ai jamais vu… »

« C’est un espion russe,» lo interruppe Davout, rivolgendosi a un altro generale che stava nella stanza e che Pierre non aveva notato. E Davout si voltò dall’altra parte. Con una inattesa sicurezza, nella voce, improvvisamente Pierre ruppe il suo silenzio:

« Non, Monseigneur,» disse, ricordando che Davout era duca. « Non, Monseigneur, vous n’avez pas pu me connaître. Je suis officier militionnaire et je n’ai pas quitté Moscou. »

« Votre nom? » ripetè Davout.

« Besouhof»

« Qu’est ce qui me prouvera que vous ne mentez pas? »

« Monseigneur! » gridò Pierre con voce non offesa, ma di supplica.

Davout sollevò gli occhi e fissò Pierre con attenzione. Per alcuni secondi i loro sguardi s’incrociarono: fu la salvezza di Pierre. In quello sguardo, al di là di tutte le circostanze della guerra e del procedimento giudiziario, un rapporto umano, tra i due uomini, si stabiliva. In quei brevi istanti entrambi provarono confusamente, un’infinita quantità di sensazioni, compresero di essere fratelli, figli dell’umanità.

Sulle prime, quando Davout aveva sollevato la testa dal suo incartamento, l’elenco in cui le vicende e la vita degli uomini erano designate da numeri, per lui Pierre non era che un numero tra gli altri, e Davout avrebbe potuto farlo fucilare senza alcun rimorso: adesso, però, scorgeva in lui un uomo. Rifletté un istante.

« Comment me prouverez vous la vérité de ce que vous me dites? » disse egli freddamente.

Pierre ricordò Ramballe, nominò il suo reggimento, disse il suo nome e quello della strada dove si trovava la casa.

« Vous n’êtes pas ce que vous dites,» disse di nuovo Davout.

Pierre, con voce tremante, spezzata, si mise a citare prove della verità di quanto diceva.

Ma in quel momento entrò l’aiutante e riferi qualcosa a Davout.

Costui parve rallegrarsi immensamente della notizia che l’aiutante gli aveva comunicato, e cominciò ad abbottonarsi l’uniforme. A quanto pareva, s’era già dimenticato di Pierre.

Quando l’aiutante gli ricordò il prigioniero, Davout, accigliandosi, fece un cenno in direzione di Pierre, e ordinò che lo portassero via. Ma dove mai dovessero condurlo, Pierre non lo sapeva: di nuovo nella baracca, o nel luogo preparato per l’esecuzione, quello che i compagni gli avevano indicato passando per il Devièie Pole?

Si voltò indietro e vide che l’aiutante chiedeva ancora qualche precisazione.

« Oui, sans doute! » disse Davout; ma a cosa si riferisse quel «sì», Pierre non lo sapeva.

Senza rendersi conto di quanto tempo camminasse e in quale direzione, in uno stato di assoluta ebetudine e storditezza, senza vedere nulla intorno a sé, mosse i piedi insieme agli altri, e si fermò quando tutti si fermarono.

Aveva un solo pensiero fisso, che non l’abbandonava: chi, in fin dei conti, l’aveva condannato a morte? Non certo gli uomini che l’avevano interrogato la prima volta: nessuno di loro voleva farlo, né poteva, evidentemente. Non certo Davout, che l’aveva guardato in modo così umano. Ancora un istante e Davout avrebbe compreso il proprio errore, non c’era stato perché proprio allora era entrato l’aiutante. E anche quell’ aiutante, evidentemente, non voleva certo fargli del male, ma non aveva potuto fare a meno di entrare. Chi era, allora, colui che lo condannava, che lo uccideva, lo privava della vita, lui, Pierre, con tutti i suoi ricordi, le sue aspirazioni, le sue speranze, le sue idee? Chi faceva questo a Pierre? E Pierre sentiva che non era nessuno.

Era l’ordine delle cose, era la piega che avevano preso le circostanze.

Un certo ordine di cose uccideva lui, Pierre; lo privava della vita, di tutto: lo annientava.

Guerra e Pace
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