III
Il giorno dopo, preso congedo soltanto dal vecchio conte, e senza nemmeno attendere che scendessero le signore, il principe Andrej ripartì per tornare a casa sua.
Era già il principio di giugno, quando, sulla via del ritorno, egli di nuovo si inoltrò nel bosco di betulle ove la vecchia quercia contorta aveva prodotto in lui un’impressione così profonda e memorabile. Nel bosco le sonagliere tintinnavano in modo ancora più sordo di un mese e mezzo addietro; tutto era denso, tutto era ombroso e folto; e i giovani abeti sparpagliati per il bosco non turbavano più la generale bellezza, ma, fondendosi al carattere del tutto, verdeggiavano teneri, coperti dei loro nuovi germogli.
La giornata era stata calda, in lontananza era parso addensarsi un temporale, ma poi soltanto una piccola nube aveva spruzzato di pioggia la polvere della strada e le foglie cariche di linfa. Il lato sinistro del bosco era cupo, in ombra; il lato destro, umido, lucido, scintillava al sole, oscillando appena nel vento. Tutto era in fiore; gli usignoli trillavano facendosi eco, ora vicini, ora lontani.
«Sì, in questo bosco, c’era quella quercia con la quale si andava d’accordo…» pensava il principe. «Ma dove sarà mai?» pensò ancora, guardando verso il lato sinistro della strada; e, senza neanche saperlo, senza riconoscerla, già stava ammirando la quercia che cercava. La vecchia quercia, del tutto trasfigurata, aveva aperto un baldacchino di tenere foglie verde cupo, e si beava, ondeggiando appena, nei raggi del sole al tramonto. Erano scomparse le dita contorte, le escare sulla corteccia, non c’erano più dolore e afflizione: non si vedeva più nulla del genere. Dalla dura corteccia secolare erano spuntate, sprovviste di rami, fresche, giovani foglie, tanto che non si riusciva a credere che le avesse generate quel vegliardo.
«Sì, è proprio quella stessa quercia,» pensò il principe Andrej, e di colpo senza alcun motivo lo assalì un senso primaverile di gioia e di rinnovamento. All’improvviso tutti i momenti più solenni della sua vita gli tornarono simultaneamente alla memoria: l’alto cielo di Austerlitz, il volto carico di rimprovero della moglie morta, Pierre sulla chiatta del traghetto, la fanciulla emozionata dalla bellezza della notte, e quella nottata, e quella luna: tutto, a un tratto, gli passò per la mente.
«No, la vita non finisce a trentun anni,» pensò a un tratto il principe Andrej con decisione ferma e immutabile.
«Non basta che io sappia tutto quello che passa dentro di me; bisogna che lo sappiano anche gli altri: Pierre, e questa fanciulla che voleva volare verso il cielo; bisogna che tutti mi conoscano, che la mia vita non scorra per me soltanto, che essi non vivano così fuori della mia vita, che la mia vita si rifletta in tutti e che tutti vivano insieme con me!»
Tornato da questo viaggio, il principe Andrej deliberò che in autunno si sarebbe recato a Pietroburgo e prese a meditare varie motivazioni che giustificassero quella sua decisione: una serie di argomenti ragionevoli e logici in base ai quali doveva assolutamente andare a Pietroburgo e magari anche prendervi servizio, era in qualunque momento a sua disposizione. Adesso non riusciva nemmeno a capire come avesse mai potuto dubitare della necessità di svolgere una funzione attiva nella vita, né più né meno come un mese prima gli pareva impensabile che potesse venirgli in mente di lasciare la campagna. Gli sembrava chiaro che tutte le esperienze fatte nel corso della sua esistenza sarebbero risultate assurde e inutili, se egli non le avesse tradotte in atto e non fosse tornato a partecipare attivamente alla vita. Non capiva nemmeno come, sulla base di deboli argomentazioni razionali, gli apparisse evidente che si sarebbe umiliato se, dopo le lezioni che aveva avuto dalla vita, avesse di nuovo creduto alla possibilità di essere utile, alla possibilità d’amare e di essere felice. Adesso la ragione gli suggeriva ben altre cose. Dopo questo viaggio il principe Andrej cominciò ad annoiarsi in campagna; le occupazioni di prima non lo interessavano più, e spesso, quando era solo nel suo studio, si alzava, andava allo specchio e a lungo osservava la sua immagine. Poi si volgeva a contemplare il ritratto di Lise, la moglie scomparsa, che lo guardava tenera e gaia con i suoi boccoli sollevati à la grecque: dall’oro della cornice, ella non diceva più al marito le tremende parole di un tempo, ma lo guardava con una sorta di curiosità semplice e gaia. E il principe Andrej passeggiava a lungo per la stanza, le mani intrecciate dietro la schiena, ora accigliandosi, ora sorridendo, rimuginando quei pensieri irrazionali, inesprimibili, segreti come un delitto, legati ora a Pierre, ora alla gloria, ora alla fanciulla della finestra, ora alla quercia, alla bellezza femminile e all’amore, che avevano mutato radicalmente la sua vita. E se qualcuno in quei momenti entrava nella stanza, egli si mostrava più che mai tagliente e severo, più che mai arido e soprattutto sgradevolmente dialettico.
« Mon cher,» gli diceva per esempio, entrando in uno di questi momenti, la principessina Marja, «oggi Nikoluška non può andare a passeggio: fa così freddo!»
«Se facesse caldo,» rispondeva asciutto il principe Andrej a sua sorella, «uscirebbe con indosso soltanto la camicia: ma siccome fa freddo, bisogna mettergli un vestito pesante, i vestiti pesanti sono stati inventati apposta per questo. Ecco che cosa consegue dal fatto che sia freddo: non già che si debba restare a casa, dato che il bambino ha bisogno di aria,» diceva con particolare e accentuata logica, come se volesse castigare qualcuno per tutto l’interiore lavorio segreto, affatto illogico, che avveniva in lui. In quei momenti la principessina Mar’ja pensava quanto l’attività intellettuale inaridisca l’uomo.