XIV

 

«Allora, è carina? No, caro, la mia vestita di rosa è proprio un incanto: si chiama Dunjaša…»

Ma, scrutando il volto di Rostov, Il’in ammutolì. Vedeva che il suo eroe e comandante era immerso in tutt’altro ordine di idee.

Rostov gli lanciò un’occhiata furiosa e, senza rispondergli, si diresse a rapidi passi verso il villaggio.

«Gliela farò vedere io, li sistemerò per le feste, quei briganti» diceva fra sé.

Alpatyè con passo ondeggiante, allungato perché non voleva correre, raggiunse a fatica Rostov.

«Che decisione vi siete degnato di prendere?» gli domandò quando lo ebbe raggiunto.

Rostov si fermò e, stringendo i pugni, tutt’a un tratto lo afferrò con un’aria minacciosa.

«Decisione? Che decisione? Vecchio scemo!» gli gridò. «Tu, dove avevi gli occhi? Eh? I contadini si rivoltano, e tu non sai sbrigartela? Sei un traditore anche tu. Vi conosco io, vi caverò la pelle a tutti io…» E, come se temesse di sprecare per nulla la riserva del suo furore, piantò in asso Alpatyè e si avviò rapidamente avanti.

Soffocando il suo risentimento, Alpatyè seguì con passo sostenuto Rostov e continuò a esporgli le proprie considerazioni. Diceva che i contadini si erano irrigiditi, che in quel momento era imprudente contrariarli senza avere a disposizione un distaccamento militare, che forse sarebbe stato meglio mandar prima a chiamare i soldati.

«Glielo darò io il distaccamento militare… Io mi opporrò,» ripeteva insensatamente Nikolaj, ansimando in preda a un’irragionevole rabbia animalesca e al bisogno di sfogarla.

Senza riflettere su quello che avrebbe fatto, inconsciamente, Rostov si mosse verso la folla con passo rapido e deciso. E, quanto più si avvicinava, tanto più Alpatyè sentiva che quell’atto imprudente poteva invece dare buoni risultati. La stessa cosa sentirono anche i contadini, guardando la sua andatura rapida e, ferma e la sua faccia decisa e accigliata.

Dopo che gli ussari erano arrivati nel villaggio e Rostov si era recato dalla principessina, nella folla era sorta una certa discordia e molta confusione. Alcuni contadini si erano messi a dire che quei nuovi venuti erano russi e manifestavano il timore che si offendessero se non si lasciava partire la signorina. Dron era della stessa opinione, ma, non appena la espresse, Karp e gli altri contadini gli diedero addosso.

«Per quanti anni ti sei rimpinzato a spese della comunità?» gridò Karp. «Per te fa tutto lo stesso! Tu dissotterrerai la pentola, te la porterai via; a te che importa se le nostre case vanno in rovina o no?»

«È stato detto che si mantenga l’ordine, che nessuno se ne esca dalle case, che non si porti via neanche un granello di polvere, ecco tutto!» gridò un altro.

«Era il turno per tuo figlio di partire soldato, ma tu, perdio, il tuo caruccio l’hai risparmiato,» disse a un tratto rapidamente un vecchietto, dando addosso a Dron, «e il mio Vanka l’hai fatto arruolare. Eh, dovremo pur morire un giorno!»

«Si sa che moriremo!»

«Io, la mia comunità, non l’ho rinnegata,» disse Dron.

«Macché rinnegata, ci hai messo su pancia!…»

I due contadini, lunghi come pertiche, dicevano la loro. Non appena Rostov, accompagnato da Lavruška, da Il’in e da Alpatyè, si avvicinò alla folla, Krap, infilandosi le mani nella cintola, si fece avanti con un sorriso a fior di labbra. Dron, al contrario, si ritirò nelle ultime file e la folla si strinse più compatta.

«Ehi! Chi è lo starosta qui tra voi?» gridò Rostov, avvicinandosi a rapidi passi alla folla.

«Lo starosta? E che vi serve?» domandò Karp.

Ma non fece in tempo a dir questo che il berretto gli volò via e la testa gli si piegò da un lato alla violenza del colpo.

«Giù i berretti, traditori!» gridò la voce sanguigna di Rostov. «Dov’è lo starosta?» urlò con voce furibonda.

«Lo starosta, chiamate lo starosta… Dron Zacharyè, vuole voi,» si sentirono qua e là delle voci, frettolose e mansuete, mentre i berretti cominciavano a scomparire dalle teste.

«Noi non ci possiamo ribellare, noi osserviamo gli ordini,» disse Karp, mentre parecchie voci, dietro di lui, in quello stesso istante dicevano:

«Come hanno deciso i vecchi… Voialtri siete in tanti, a dare ordini…» «Volete discutere?… È una rivolta!…

Briganti! Traditori!» si mise a urlare Rostov in modo insensato, con voce irriconoscibile, afferrando per il bavero Karp.

«Legatelo, legatelo!» gridò, sebbene non ci fosse nessuno che potesse legarlo, fuorché Lavruška e Alpatyè.

Lavruška, tuttavia, corse vicino a Karp e lo afferrò di dietro per le braccia.

«Ordinate di chiamare i nostri che stanno sotto il monte?» esclamò.

Alpatyè si rivolse ai contadini, facendo il nome di due di loro, affinché legassero Karp. Docilmente i due contadini uscirono dalla folla e cominciarono a togliersi le cinture di cuoio.

«Lo starosta dov’è?» gridò Rostov.

Dron uscì dalla folla con il viso accigliato e pallido.

«Tu sei lo starosta? Legalo, Lavruška!» gridò Rostov come se anche quell’ordine non potesse incontrare ostacoli.

Ed effettivamente, altri due contadini si misero a legare Dron il quale, come per aiutarli, si tolse la cintura e gliela porse.

«E voi tutti ascoltatemi,» Rostov si rivolse ai contadini: «Adesso marsc a casa e che non senta più la vostra voce.»

«Be’, non abbiamo fatto male a nessuno. Abbiamo fatto così, insomma, solo per ignoranza. Si è fatta solo una bambinata… Lo dicevo io, che questo era contro la legge,» si sentivano le voci che si rimproveravano a vicenda.

«Ecco, io ve l’avevo detto,» disse Alpatyè rientrando nei suoi diritti. «Non finisce bene, ragazzi!» «Tutto per ignoranza nostra, Jakov Alpatyè,» rispondevano le voci e la folla cominciò subito a disperdersi e sparpagliarsi per il villaggio.

I due legati furono condotti nel cortile padronale. I due vecchi ubriachi li seguivano.

«Eh, voglio proprio guardarti!» diceva uno di loro, rivolgendosi a Karp.

«E che, si può parlare in quel modo con i signori? Tu, che cosa ti eri messo in testa? Imbecille,» incalzava l’altro, «sei proprio un imbecille!»

Due ore dopo, le carrette erano pronte nel cortile della casa di Boguèarovo. I contadini, pieni di animazione, portavano fuori e caricavano sulle carrette i bagagli dei signori, e Dron, che per desiderio della principessina Mar’ja era stato liberato dallo sgabuzzino dove l’avevano richiuso, ritto nel cortile, impartiva ordini ai contadini.

«Non metterla così male,» disse uno dei contadini, un uomo alto con una faccia tonda e sorridente, prendendo dalle mani della cameriera una scatola. «Anche questa costa quattrini. Se la butti così, ecco, o la metti sotto la corda, si rovina. Così non va proprio. Le cose vanno fatte scrupolosamente, secondo tutte le regole. Ecco, così, sotto una stuoia, e coprila con un po’ di fieno che la ripara… Così va benone!»

«Eh, quanti libri,» diceva un altro contadino che portava gli scaffali della biblioteca del principe Andrej. «E tu non urtarmi! Quanto pesano, ragazzi, sono ben grossi questi libri!»

«Sì, chi li ha scritti non si è mica trastullato!» esclamò, strizzando l’occhio in modo significativo, il contadino alto dal viso tondo, indicando i grossi dizionari che stavano ammucchiati sopra.

Rostov, non volendo imporre la propria compagnia alla principessina, non andò da lei, ma rimase nel villaggio, in attesa della sua partenza. Quando vide la carrozza della principessina Mar’ja lasciare la casa, Rostov montò in sella e la scortò fino alla strada occupata dalle nostre truppe, a dodici verste da Boguèarovo. A Jankovo, alla locanda, si congedò rispettosamente da lei, e per la prima volta si permise di baciarle la mano.

«Come fate a dire certe cose,» rispose arrossendo alla principessina Mar’ja che gli esprimeva la sua riconoscenza per averla salvata (così lei definiva l’azione di Rostov) «qualsiasi commissario di polizia avrebbe fatto altrettanto. Se dovessimo combattere solamente con i contadini, non avremmo permesso davvero al nemico di venire tanto avanti!» disse ancora, provando un indefinibile senso di vergogna e cercando di cambiare discorso. «Di una sola cosa sono felice: che ho avuto l’occasione di conoscervi. Addio, principessa, vi auguro felicità e consolazione e spero d’incontrarvi in circostanze più fortunate. Se non volete farmi arrossire, vi prego, non ringraziatemi.»

Ma la principessina, se non lo ringraziava più con le parole, lo ringraziava tuttavia con tutta l’espressione del viso, raggiante di riconoscenza e di tenerezza. Non poteva credergli, che non ci fosse motivo di ringraziarlo. Al contrario, le pareva che non ci fossero dubbi che se non ci fosse stato lui, sarebbe finita chissà come, sia per mano dei rivoltosi, sia dei francesi; le pareva che lui per salvarla si fosse esposto ai più evidenti e gravi pericoli; e più che mai le pareva il fatto che egli fosse un uomo d’animo elevato e nobile, che aveva saputo comprendere la sua situazione e il suo dolore. I suoi occhi buoni e onesti bagnati di lacrime, mentre lei gli aveva parlato, piangendo, della disgrazia che l’aveva colpita, non le uscivano dalla mente.

Dopo averlo salutato, e fu rimasta sola, la principessina Mar’ja a un tratto si sentì le lacrime agli occhi; e allora, e non per la prima volta, le si affacciò la strana domanda: era innamorata di lui?

Seguitando il viaggio per Mosca, sebbene la situazione della giovane principessa non fosse allegra, Dunjaša, che era con lei in carrozza, notò più volte che la padrona, affacciandosi al finestrino, sorrideva a qualcosa con un’aria gioiosa e triste insieme.

«Ebbene, e se lo amassi?» pensava la principessina Mar’ja.

Per quanto si vergognasse di confessare a se stessa di essersi innamorata per prima d’un uomo, che forse mai l’avrebbe riamata, si consolava con il pensiero che nessuno l’avrebbe mai saputo e che non sarebbe stata una colpa da parte sua, se avesse amato fino alla fine della vita, senza parlarne ad alcuno, colui di cui s’era innamorata per la prima e l’ultima volta.

Di tanto in tanto ricordava gli sguardi di lui, la sua partecipazione al suo dolore, le sue parole, e la felicità non le sembrava impossibile. Ed era appunto in questi momenti che Dunjaša notava che lei, sorridendo, guardava attraverso il finestrino della carrozza.

«E doveva venire proprio lui a Boguèarovo e proprio in questo momento!» pensava la principessina Mar’ja. «E

doveva proprio accadere che sua sorella rifiutasse il principe Andrej!» E, in tutto questo, la principessina Mar’ja vedeva la volontà della Provvidenza.

Quanto a Rostov, l’impressione ricevuta dalla principessina Mar’ja era stata molto piacevole. Quando si ricordava di lei diventava allegro; e quando i compagni, che avevano saputo della sua avventura a Boguèarovo, ci scherzavano sopra dicendo che, andato per fieno, aveva agganciato una delle più ricche ragazze da marito della Russia, Rostov si adirava. Andava in collera proprio perché l’idea di sposare la mite principessina Mar’ja, che gli era piaciuta, erede di un enorme patrimonio, gli era venuta in mente più volte contro la sua volontà. Per quel che lo riguardava, Nikolaj non poteva desiderare una moglie migliore della principessina Mar’ja: un matrimonio con lei avrebbe fatto la felicità della contessa sua madre, e avrebbe rimesso in sesto gli affari di suo padre; ma non solo, e Nikolaj lo sentiva, avrebbe reso felice la principessina Mar’ja.

Ma Sonja? E la parola data? Ed era appunto per questo che Rostov si adirava quando, scherzando, i compagni gli parlavano della principessina Bolkonskaja.

Guerra e Pace
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