VI

 

Pierre negli ultimi tempi raramente si trovava con la moglie da solo a sola. Sia a Pietroburgo che a Mosca la loro casa era sempre piena di ospiti. La notte successiva al duello, egli, come spesso faceva, non andò in camera da letto, ma rimase nell’immenso studio del padre, quello stesso locale in cui il vecchio conte Bezuchov era morto.

Si sdraiò sul divano e avrebbe voluto addormentarsi per dimenticare tutto ciò che gli era accaduto, ma non ci riuscì. All’improvviso nell’anima gli si era sollevata una tale tempesta di sentimenti, di pensieri e di ricordi, che non soltanto non riusciva a prender sonno, ma nemmeno poteva restar fermo, e dovette saltar giù dal divano e mettersi a camminare a passi rapidi su e giù per la stanza. Ora lei gli si presentava com’era nei primi tempi dopo il matrimonio, con le spalle nude e lo sguardo languido e appassionato, e subito, accanto a lei, sorgeva il bel volto sfrontato, duro e beffardo di Dolochov, tremante e sofferente come nel momento in cui egli si era girato su se stesso ed era caduto nella neve.

«Cos’è accaduto, dunque?» si domandava. «Io ho ucciso l’amante, sì, l’amante di mia moglie. Sì, è accaduto proprio questo. Ma perché? Come ho fatto ad arrivare a tanto?» «Perché ti sei sposato con lei,» gli rispondeva una voce interna.

«Ma qual è la mia colpa?» domandava lui. «Quella di averla sposata senza esserne innamorato, di aver ingannato me stesso e lei!» E gli si presentava al vivo quel momento, dopo la cena in casa del principe Vasilij, quando aveva pronunciato quelle parole che non riuscivano a uscirgli di bocca: « Je vous aime. » Tutto veniva da lì! «Anche allora io lo sentivo,» continuava a pensare, «lo sentivo che era tutto sbagliato, che io non avevo il diritto a quelle parole.

Ed ecco le conseguenze.»

Gli venne alla mente la luna di miele e a quel ricordo arrossì. Ma particolarmente vivo, motivo di offesa e di vergogna era per lui il ricordo di come una volta, poco dopo il suo matrimonio, verso mezzogiorno fosse entrato in vestaglia di seta dalla camera da letto nello studio e qui avesse trovato l’amministratore capo il quale gli aveva fatto un rispettoso inchino, aveva dato un’occhiata a lui, poi alla sua vestaglia, e aveva avuto un lieve sorriso, come a manifestare così una deferente partecipazione alla felicità del suo principale.

«Quante volte sono stato fiero di lei, della sua maestosa bellezza, del suo garbo mondano,» pensava;

«orgoglioso di questa mia casa in cui lei riceveva tutta Pietroburgo, orgogliosa di quella sua inaccessibile bellezza. Ma di che cosa ero orgoglioso? Allora credevo di non capirla. Quante volte, meditando sul suo carattere, mi sono detto che la colpa era mia, che io non la capivo, non capivo quella sua perpetua tranquillità, quella compiacenza di sé, e quell’assenza di passioni e di desideri; e tutto l’enigma stava in questa terribile parola, che lei è una donna viziosa; mi sono detto questa terribile parola e tutto è diventato chiaro! Anatol’ veniva da lei a farsi prestare del denaro e la baciava sulle spalle nude. Lei denaro non gliene dava, ma permetteva che lui la baciasse. Suo padre, scherzando, eccitava la sua gelosia; ma lei con un tranquillo sorriso rispondeva che non era così stupida da essere gelosa. Faccia pure quello che vuole, diceva di me. Una volta le domandai se non sentisse dei sintomi di gravidanza. Lei è scoppiata in una risata sprezzante e ha detto che non era così sciocca da desiderare di avere dei figli, e che da me figli non ne avrebbe mai avuti.»

Poi ricordò la grossolanità, la chiarezza delle idee di lei e la volgarità delle espressioni che le erano proprie nonostante l’educazione ricevuta nell’ambiente della migliore aristocrazia. «Non sono mica un’idiota… provati tu… allez vous promener,» diceva. Sovente, al cospetto del successo che ella incontrava fra gli uomini vecchi e giovani, e anche fra le donne, Pierre non riusciva a capacitarsi del perché egli, invece, non l’amasse. «Sì, io non l’ho mai amata,» diceva ora a se stesso, «io lo sapevo che lei è una donna corrotta,» andava ripetendosi, «ma non osavo confessarlo a me stesso.

E adesso Dolochov: eccolo disteso sulla neve. Sorride a fatica e muore, forse, anche ora, rispondendo con una bravata al mio pentimento.»

Pierre era una di quelle persone che, nonostante una apparente cosiddetta debolezza di carattere, non cercano persone a cui confidare il proprio dolore. Egli si travagliava in solitudine.

«E colpevole di tutto è lei, lei sola,» diceva a se stesso. «Ma da questo che altro deriva? Perché mi sono legato a lei, perché le ho detto quelle parole, je vous aime, che erano una menzogna e ancor peggio di una menzogna?» si ripeteva. «La colpa è mia e ora devo sopportare… Che cosa? Che il mio nome sia disonorato, la mia vita infelice? Ma sono tutte sciocchezze,» pensò, «l’onore, il disonore… sono tutte cose convenzionali, indipendenti da me. Luigi XVI è stato giustiziato perché loro dicevano che era disonesto e criminale,» pensava Pierre; «e dal loro punto di vista avevano ragione, come pure avevano ragione quelli che per lui erano periti di una morte da martiri e lo annoveravano fra i santi.

Poi Robespierre era stato giustiziato perché era un despota. Chi aveva ragione, chi aveva torto? Nessuno. Ma giacché sei vivo, ebbene: vivi! Domani morirai, come potevo morire io, un’ora fa. Vale la pena di tormentarsi, quando non si vive che un istante, in confronto all’eternità?»

Ma nel momento stesso in cui si sentiva tranquillizzato da questo genere di considerazioni, all’improvviso gli si presentava lei nei momenti in cui egli le esprimeva con maggior intensità il suo amore insincero; allora Pierre si sentiva affluire il sangue al cuore e di nuovo cedeva all’impulso di alzarsi, di muoversi, di fracassare tutto ciò che gli capitava sotto mano.

«Perché le ho detto: Je vous aime? » continuava a ripetersi. Si pose per la decima volta quella domanda e gli venne in mente quella battuta di Molière: Mais que diable allait-il faire dans cette galère? Pierre rise di se stesso.

Durante la notte chiamò il cameriere e gli ordinò di preparare i bagagli: intendeva partire subito per Pietroburgo. Non poteva restare con lei sotto lo stesso tetto. Non riusciva a immaginarsi come ora avrebbe potuto rivolgerle la parola. Decise che sarebbe partito l’indomani e le avrebbe lasciato una lettera per parteciparle la sua intenzione di separarsi da lei per sempre.

Al mattino, quando il cameriere entrò nello studio per portargli il caffè, Pierre era sdraiato sull’ottomana e dormiva, con un libro aperto in mano.

Si destò e si guardò a lungo intorno con aria spaventata, incapace di comprendere dove si trovasse.

«La signora contessa ha ordinato di chiedere se vostra eccellenza era in casa,» disse il cameriere.

Ma Pierre non fece in tempo a decidere la risposta, che la contessa in persona, in una bianca vestaglia di raso ricamata d’argento e pettinata con molta semplicità (due enormi trecce en diadème giravano due volte intorno alla sua testa leggiadra) entrò nella stanza con aria calma e maestosa; solo la fronte marmorea e leggermente convessa era solcata da una ruga di collera. Con quella solita calma a tutta prova, evitò di parlare in presenza del cameriere. Aveva saputo del duello ed era venuta per parlare di questo. Attese che il cameriere posasse il vassoio col caffè e fosse uscito.

Pierre la guardava timidamente attraverso gli occhiali e, come una lepre accerchiata dai cani appiattisce le orecchie e continua a restare accucciata alla vista dei suoi nemici, così anch’egli provò a continuare la sua lettura; ma si rese conto che ciò era insensato, impossibile; e di nuovo le rivolse una timida occhiata. Lei non si era seduta e lo guardava con un sorriso di disprezzo, aspettando che il cameriere fosse uscito.

«Che cosa significa tutto questo? Che cosa avete combinato, ancora?» chiese severamente.

«Io? Che c’entro io?» disse Pierre.

«A quanto sembra, volete apparire coraggioso! Su, rispondete, che cosa significa questo duello? Che cosa volevate dimostrare? Che cosa? Vi sto facendo una domanda precisa.»

Pierre si voltò pesantemente sul divano, aprì la bocca, ma non poté rispondere.

«Se non volete rispondere, ve lo dirò io…» proseguì Hélène. «Voi credete a tutto quello che vi dicono. Vi hanno detto…» e scoppiò a ridere, «che Dolochov è il mio amante,» disse poi in francese con la sua brutale precisione di termini, pronunciando la parola «amante» come se fosse stata una parola qualsiasi: «E voi lo avete creduto! Ma con questo cos’avete dimostrato? Che cos’avete dimostrato con questo duello? Che siete un idiota, que vous étes un sot. Ma questo lo sapevano già tutti! E quale sarà la conseguenza di tutto questo? Che io diventerò lo zimbello di tutta Mosca; che chiunque potrà dire che voi, in stato di ubriachezza, in stato d’incoscienza, avete sfidato a duello un uomo di cui siete geloso senza alcun fondamento…» Hélène si andava accalorando e alzava sempre più la voce, «e che. è migliore di voi sotto tutti i rapporti…»

«Hmm… hmm…» mugolava Pierre, corrugando la faccia, senza guardarla e senza fare la minima mossa.

«E come avete potuto credere che fosse il mio amante?… Come? Forse perché mi è gradita la sua compagnia?

Se voi foste più intelligente e più simpatico, avrei preferito la vostra.»

«Tacete, ve ne prego,» mormorò Pierre con voce rauca.

«E perché dovrei tacere? Io ho tutto il diritto di parlare, e dirò francamente che ben poche donne con un marito come voi non si prenderebbero degli amanti, des amants, ma io questo non l’ho fatto,» rispose Hélène.

Pierre avrebbe voluto dir qualcosa: la guardò con occhi strani, di cui ella non comprese l’espressione, e tornò a sdraiarsi. In quel momento egli soffriva fisicamente: provava un senso di oppressione al petto e non riusciva a respirare.

Sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa per porre fine a quella sofferenza, ma ciò che intendeva fare era troppo terribile.

«È meglio che noi ci separiamo,» disse Pierre con voce soffocata.

«Separarci? Benissimo, purché voi mi assegniate un patrimonio,» rispose lei. «Separarci! Credete, con questo, di spaventarmi?»

Pierre saltò su dal divano e si gettò su di lei barcollando.

«Io ti ammazzo!» gridò; e, afferrata la lastra di marmo di un tavolo con una forza che sino a quel momento non sapeva di avere, fece un passo verso di lei, nell’atto di scaraventargliela addosso.

Il volto di Hélène assunse un’espressione spaventosa. Ella lanciò un grido e fuggì via. In lui s’era ridestata la natura del padre. Pierre sentì il trasporto e il fascino del furore. Scaraventò via la lastra fracassandola e, avvicinandosi a Hélène con le braccia spalancate, si mise a gridare: «Fuori!» con una voce così terribile che in tutta la casa quel grido fu udito con terrore. Dio sa che cosa Pierre avrebbe fatto, in quel momento, se Hélène non fosse fuggita dalla stanza.

Una settimana più tardi Pierre consegnava alla moglie una procura per l’amministrazione di tutte le sue proprietà nella Grande Russia, che costituivano più della metà del suo patrimonio; e, solo, partiva per Pietroburgo.

Guerra e Pace
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