XII
Il giorno dopo la serata all’opera, i Rostov non si recarono in nessun posto e nessuno andò da loro. Mar’ja Dmitrievna di nascosto a Nataša parlò con suo padre di qualcosa. Nataša intuì che il discorso verteva sul vecchio principe e che i due cercavano di escogitare qualcosa, e questo, oltre a preoccuparla, la offendeva.
Aspettava da un momento all’altro il principe Andrej e quel giorno mandò due volte il portiere in via Vzdviženka per informarsi se fosse arrivato. No, non era arrivato. Adesso per lei tutto era più difficile e pesante che durante i primi giorni del suo soggiorno a Mosca. Alla sua impazienza e alla sua tristezza causata da lui si aggiungevano adesso lo spiacevole ricordo dell’incontro con la principessina Mar’ja e col vecchio principe e un senso di timore e d’inquietudine del quale non riusciva a ravvisare la causa. Perdurava in lei l’impressione che il principe Andrej non sarebbe mai arrivato, oppure che le sarebbe accaduto qualcosa prima che lui arrivasse. Non riusciva più a pensare a lui da sola a sola, tranquillamente, come le accadeva prima. Non appena cominciava a pensarci, al ricordo di Andrej si associava quello del vecchio principe, della principessina Mar’ja, e anche della serata all’opera e di Kuragin.
Di nuovo si chiedeva se non fosse colpevole, se non avesse già violato il suo vincolo di fedeltà al principe Andrej, e di nuovo si sorprendeva a ricordare fin nei minimi particolari ogni parola, ogni gesto, ogni sfumatura del gioco di espressioni della faccia di quell’uomo che aveva saputo far nascere in lei un sentimento che non capiva e del quale aveva paura. Agli occhi dei familiari Nataša sembrava più animata del solito, ma era ben lontana dal sentirsi tranquilla e felice come un tempo.
La domenica mattina Mar’ja Dmitrievna invitò i suoi ospiti alla messa nella sua chiesa parrocchiale dell’Assunzione, nei Mogil’cy.
«Non mi piacciono quelle chiese di moda,» disse, evidentemente compiacendosi del suo libero modo di pensare. «Dio è sempre lo stesso dappertutto. Abbiamo un prete bravissimo, celebra molto bene, in modo irreprensibile, e così pure il diacono. Viene forse qualche maggior pensiero di santità da quei concerti che si tengono in cantoria? Non mi piacciono, sono fisime da sdolcinati.»
Mar’ja Dmitrievna amava le domeniche e sapeva festeggiarle. Il sabato la sua casa veniva sempre lavata e ripulita; la servitù e lei stessa non lavoravano; tutti erano agghindati a festa e tutti andavano a messa. Alla tavola dei padroni venivano aggiunte speciali portate e ai domestici venivano elargite vodka, oca arrosto oppure porchetta. Ma in tutta la casa, ciò che più di ogni altra cosa contrassegnava la festività era la larga faccia di Mar’ja Dmitrievna, che quel giorno assumeva un’espressione immutabile e solenne.
Quando dopo la messa ebbero bevuto il caffè, nel salone ove erano state tolte le fodere dai mobili, fu annunciato a Mar’ja Dmitrievna che la carrozza era pronta. Ella, avvolta nello scialle di gala che usava per recarsi in visita, si alzò con aria severa e annunciò che sarebbe andata dal principe Nikolaj Andreeviè Bolkonskij per avere con lui una spiegazione a proposito di Nataša.
Quando Mar’ja Dmitrievna era già uscita, dalle Rostov venne una sarta mandata da M.me Chalmé; e Nataša, dopo aver chiuso la porta della stanza adiacente al salone, molto contenta di quella distrazione si accinse a provare i nuovi vestiti. Mentre, dopo aver indossato un corsage che era solo imbastito e senza maniche, piegava la testa per vedere nello specchio come le ricadesse dietro, udì nel salotto il suono della voce animata di suo padre, e quello di un’altra voce, femminile, che la fece arrossire. Era la voce di Hélène. Nataša non fece in tempo a togliersi il corsage, che la porta si aprì e nella stanza entrò la contessa Bezuchova, raggiante di un sorriso benevolo e affettuoso. Indossava un abito di velluto viola scuro con un alto collo.
« Ah, ma délicieuse,» disse a Nataša che si era fatta rossa. « Charmante! No, mio caro conte, questa è una cosa inverosimile,» disse a Il’ja Andreiè che era entrato subito dopo di lei. «Come si fa a vivere a Mosca e a non andare in nessun posto? No, io non vi lascio in pace! Questa sera in casa mia M.lle Georges dà un saggio di declamazione. Avrò qualche ospite, e se voi non mi porterete anche le vostre vezzose figliole, che sono molto meglio di M.lle Georges, non vorrò più rivedervi. Mio marito non c’è, è andato a Tver’, altrimenti avrei mandato lui a prendervi. Venite assolutamente, dopo le otto. Vi aspetto senza fallo.»
Fece un cenno col capo alla sarta, che conosceva e che le aveva fatto un’ossequiosa riverenza, poi sedette su una poltrona accanto allo specchio, lasciando pittorescamente ricadere le pieghe del suo abito di velluto. Non smetteva di chiacchierare in tono amabile e gaio, continuando a mostrarsi ammirata della bellezza di Nataša. Esaminò i suoi vestiti e li approvò; esaltò anche la bellezza del suo nuovo vestito en gaze métallique, che si era fatta mandare da Parigi, e consigliò a Nataša di farsene fare uno eguale.
«Del resto, a voi sta bene tutto, mia cara,» aggiunse.
Sul viso di Nataša non cessava di aleggiare un sorriso di compiacimento. Sotto le lodi di quella cara contessa Bezuchova, che prima le sembrava una signora così inaccessibile e importante e adesso si mostrava così affabile con lei, Nataša si sentiva felice e come rifiorita. Era diventata allegra e si sentì quasi entusiasta di quella donna così bella e così cordiale. Da parte sua, Hélène provava un sincero moto di ammirazione per Nataša e desiderava vederla contenta. Era stato Anatol’ a chiederle di farlo incontrare con Nataša, e appunto per questo lei era venuta dai Rostov. L’idea di combinare l’incontro fra Nataša e suo fratello la divertiva.
Sebbene prima provasse una certa animosità per Nataša, che a Pietroburgo le aveva portato via Boris, ora se n’era scordata e, a modo suo, desiderava con tutto il cuore il suo bene. Quando si congedò dai Rostov chiamò in disparte la sua protégée.
«Ieri mio fratello ha pranzato da me. Ah, quanto abbiamo riso! Non ha mangiato nulla, non faceva che sospirare per voi, mia deliziosa. Il est fou, mais fou amoureux de vous, ma chère. »
Nell’udire queste parole, Nataša si fece di porpora.
«Come si fa rossa, come si fa rossa, ma délicieuse!» esclamò Hélène. «Venite, dovete assolutamente venire. Si vous aimez quelq’un, ma délicieuse, ce n’est pas une raison pour se cloîtrer. Si même vous êtes promise, je suis sûre que votre promis aurait désiré que vous alliez dans le monde en son absence plutôt que de dépérir d’ennui.»
«Dunque lei sa che io sono fidanzata; dunque lei e suo marito, Pierre, quell’uomo così giusto,» pensava Nataša,
«hanno commentato il fatto e ne hanno riso. Dunque, è una cosa che non ha importanza.» E di nuovo, sotto l’influsso di Hélène, ciò che prima le appariva terribile, adesso le parve del tutto semplice e naturale. «E poi lei è una così grande dame, è così cara! E si vede che mi vuol bene,» pensava Nataša. «E perché non dovrei divertirmi?» pensava ancora, guardando con occhi stupiti e spalancati Hélène.
Per il pranzo tornò Mar’ja Dmitrievna; appariva cupa, taciturna, essendo palesemente reduce da una sconfitta col vecchio principe Bolkonskij. Era ancora troppo sconvolta dallo scontro avuto per raccontare con calma come fossero andate le cose. A una domanda del conte rispose che tutto era andato bene e che gli avrebbe raccontato tutto l’indomani. Poi, quando seppe della visita della contessa Bezuchova e dell’invito, Mar’ja Dmitrievna disse:
«Frequentare la Bezuchova non mi piace, e francamente lo sconsiglio; d’altra parte, se ormai glielo hai promesso, vacci; servirà a distrarti,» soggiunse, rivolgendosi a Nataša.