VII

 

Quando verso sera Ilagin si congedò da Nikolaj, questi si trovava così lontano da casa che accettò la proposta dello zio di pernottare insieme ai cacciatori, nel suo villaggio di Michajlovka.

«E se poi voleste venire qualche ora a casa mia,» disse lo zio, «tanto meglio. Il tempo è umido; potrete riposarvi, la contessina potrebbero riaccompagnarla in calesse.»

L’invito dello zio venne accettato; un cacciatore fu inviato a Otradnoe per prendere il calesse; e Nikolaj, Nataša e Petja andarono dallo zio.

Cinque servitori, fra uomini e ragazzi, corsero fuori, davanti all’ingresso principale, ad accogliere il padrone.

Decine di donne, vecchie, giovani e bambine, si affacciarono all’ingresso di servizio per vedere l’arrivo dei cacciatori.

La presenza di Nataša - una donna, una signora a cavallo - eccitò a tal segno la curiosità dei servi dello zio, che molti, per nulla intimiditi dalla sua presenza, le si avvicinarono, la guardarono negli occhi e fecero davanti a lei i loro commenti, come se Nataša non fosse stato un essere umano, ma uno di quei fenomeni da baraccone, che pertanto non possono capire né sentire quel che si dice di loro.

«Arinka, guarda, sta seduta di fianco! Sta seduta in quel modo e l’orlo della gonna le svolazza… Guarda, ha anche il corno!»

«Santi benedetti, ha anche il coltello!»

«Sembra proprio una tartara!»

«Come fai a non ruzzolare in terra?» domandò la più ardita, rivolgendo la parola a Nataša.

Lo zio smontò da cavallo all’ingresso della sua casa di legno circondata da un giardino; gettò un’occhiata circolare ai suoi servitori, e con voce autoritaria gridò che la gente di troppo se ne doveva andare e che bisognava darsi da fare per ricevere gli ospiti e i cacciatori.

Tutti corsero via. Lo zio aiutò Nataša a smontare da cavallo e la guidò per mano su per i traballanti scalini di assi dell’ingresso. Nella casa, che aveva le pareti di tronco, prive di intonaco, non regnava un’eccessiva pulizia: non si poteva certo affermare che lo scopo di chi ci abitava consistesse nell’evitare che ci fosse la minima macchia, ma non si notavano nemmeno dei segni di trasandatezza. Nel vestibolo erano appese pelli di lupo e di volpe, e c’era odore di mele fresche.

Attraverso l’anticamera lo zio condusse i suoi ospiti in una piccola sala con un tavolo allungabile e sedie di mogano, poi in un salotto con un tavolo rotondo di betulla e un’ottomana, poi in uno studio, con un divano lacero, un tappeto logoro e i ritratti di Suvorov, del padre e della madre del padrone di casa e di lui stesso in divisa militare.

Nello studio stagnava un acre odore di tabacco e di cani. Lo zio invitò gli ospiti a sedersi e a comportarsi come se fossero stati a casa loro; poi uscì. Dallo studio si staccava un corridoio in cui si vedeva un paravento con i teli sfondati da dietro il quale giungeva un suono di voci e di risa femminili. Entrò anche Rugaj con la schiena ancora sporca; si sdraiò sul divano e prese a ripulirsi con la lingua e con i denti. Nataša, Nikolaj e Petja si sfilarono gli indumenti pesanti e sedettero sul divano. Petja appoggiò la testa su un braccio e si addormentò subito; Nataša e Nikolaj sedevano in silenzio. I loro volti bruciavano, erano molto affamati e molto allegri. Si guardarono l’un l’altra (dopo la caccia, in quella stanza, Nikolaj non riteneva necessario, ormai, ostentare la sua superiorità maschile di fronte alla sorella); Nataša ammiccò al fratello e tutt’e due non poterono trattenersi a lungo: presto scoppiarono in una sonora risata senza aver avuto il tempo di escogitare una spiegazione per giustificare la loro ilarità.

Poco dopo entrò lo zio, che indossava una giacca corta, un paio di pantaloni blu e stivali bassi. E Nataša si rese conto che quell’abito, che con suo stupore e ironia aveva visto indosso allo zio a Otradnoe, era un vero abito, niente affatto peggiore delle redingotes e dei frac. Anche lo zio era allegro: non solo non si offese delle risate di Nataša e di Nikolaj (non poteva nemmeno passargli per la mente che ridessero del suo modo di vivere), ma egli stesso finì per unirsi a quella loro ilarità senza motivo.

«Ma guardate com’è questa giovane contessa. Molto bene, marsc! Un’altra così non l’avevo ancora conosciuta!» disse, porgendo a Nikolaj una pipa dal lungo bocchino e caricandone una dal bocchino mozzo, con un gesto sicuro e abituale delle dita. «È stata tutto il giorno a cavallo, né più né meno come un uomo, e… come niente fosse!»

Lo zio era entrato da poco, quando la porta venne aperta da una ragazza, a piedi nudi, come si capiva dal suono dei suoi passi. Dietro di lei entrò una donna sui quarant’anni, bella e rubiconda, con un doppio mento e labbra turgide e vermiglie, e reggeva un grande vassoio apparecchiato. Con ospitale e solenne affabilità dipinta negli occhi e in ogni suo movimento, ella gettò un’occhiata agli ospiti e, con un sorriso cordiale sulle labbra, fece un rispettoso inchino.

Nonostante la pinguedine, che la costringeva a sporgere in avanti il seno e il ventre e a tenere la testa spinta all’indietro, la donna (era la governante dello zio) aveva un passo straordinariamente leggero. Ella si avvicinò alla tavola, vi posò sopra il vassoio e, con le sue mani bianche e grassocce, ne tolse destramente antipasti, dolci e bottiglie che dispose sul piano della tavola. Quando ebbe terminato, si allontanò e, con un sorriso stampato sul volto, si fermò accanto alla porta:

«Ecco, chi sono io! Adesso capisci lo zio?» diceva a Rostov quella sua apparizione. E come non capire? Non soltanto Nikolaj, ma anche Nataša capiva lo zio, il significato dei suoi sopraccigli aggrottati e del sorriso felice e soddisfatto che increspava appena le sue labbra nel momento in cui era entrata Anis’ja Fëdorovna. Sul vassoio c’erano un liquore d’erbe, degli infusi, dei funghi, frittelle di farina nera, miele di favo, miele bollito e schiumante, mele, noci crude e abbrustolite e noci al miele. Poi Anis’ja Fëdorovna portò anche delle marmellate, della conserva di frutta al miele, del prosciutto, e un pollastro appena arrostito.

Erano tutte cose casalinghe, raccolte e cucinate da Anis’ja Fëdorovna. E tutto aveva l’odore, l’aspetto e il sapore di Anis’ja Fëdorovna: tutto riecheggiava quella sua opulenza, quella pulizia e quell’amabile sorriso.

«Mangiate, mangiate, contessina,» esortava lei, porgendo a Nataša ora una cosa ora un’altra.

Nataša mangiava di tutto e le sembrava di non aver mai visto né mangiato delle frittelle simili, né un tale assortimento di fragranti conserve e di noci al miele, e nemmeno un pollastro come quello. Anis’ja Fëdorovna uscì dalla stanza. Nikolaj e lo zio, innaffiando la cena con liquore di visciole, chiacchieravano della caccia appena terminata e della prossima, di Rugaj e dei cani di Ilagin. Nataša sedeva sul divano col busto eretto, gli occhi luccicanti, e li ascoltava. Cercò più di una volta di svegliare Petja per fargli mangiare qualcosa, ma lui borbottava parole incomprensibili senza destarsi dal suo sonno. Nataša aveva l’animo così allegro, si sentiva così serena in quell’ambiente per lei affatto nuovo, che temeva soltanto di veder arrivare troppo presto il calesse che doveva venire a prenderla. Dopo uno di quei silenzi casuali, che quasi sempre subentrano quando si ricevono dei conoscenti per la prima volta, rispondendo a un pensiero che avvertiva nei suoi ospiti, lo zio disse:

«Ecco, è così che concludo la mia vita… Verrà la morte, e avanti, marsc! Non resterà più nulla. E a che scopo, allora, commettere dei peccati?»

Il viso dello zio era molto espressivo e perfino bello mentre diceva queste parole. Senza volerlo Nikolaj si ricordò di tutto il bene che aveva sentito dire dello zio da suo padre e dai vicini. In tutto il circondario lo zio godeva fama di essere uno stravagante, ma d’animo nobile e disinteressato. Lo consultavano per risolvere i loro problemi familiari, lo nominavano esecutore testamentario, gli confidavano segreti, lo eleggevano giudice di pace o gli affidavano altre mansioni; ma egli aveva sempre ostinatamente rifiutato qualsiasi incarico governativo e trascorreva l’autunno e la primavera in sella al suo cavallo sauro; d’inverno se ne stava in casa e d’estate si sdraiava nel suo giardino fitto d’alberi e di arbusti.

«Perché non accettate una carica, zio?»

«L’ho fatto, ma poi ho rinunciato a tutto. Non ci sono tagliato, non ci capisco un’acca di quelle cose. Queste sono faccende vostre, io non ho abbastanza cervello. La caccia, quella sì: è un’altra cosa, una cosa che va benissimo. Ma aprite quella porta,» gridò. «Perché avete chiuso?»

La porta in fondo al corridoio (che lo zio chiamava «collidoio») conduceva alla ridotta di caccia, come chiamavano la camera dei domestici riservata ai cacciatori. Ci fu uno scalpiccio di piedi scalzi e una mano invisibile aprì la porta di quella stanza. Dal corridoio si udirono distintamente le note di una balalajka suonata, non v’era dubbio, da un virtuoso di quello strumento. Già da un pezzo Nataša aveva teso l’orecchio a quei suoni, ma adesso uscì in corridoio per ascoltare meglio.

«È il mio cocchiere, Mit’ka… Gli ho comprato una buona balalajka; mi piace sentirlo suonare,» disse lo zio.

Era d’uso, in casa dello zio, che, quando egli tornava dalla caccia, Mit’ka facesse una suonata alla balalajka.

Allo zio piaceva ascoltare quella musica.

«Come suona bene! Magnifico, davvero,» disse Nikolaj con una certa non voluta noncuranza, come se si vergognasse di riconoscere che quella musica gli piaceva molto.

«Come, magnifico?» disse Nataša con aria di rimprovero, sentendo il tono col quale il fratello aveva detto quelle parole. «Non è magnifico; è una cosa semplicemente meravigliosa!»

Come i funghi, il miele e i liquori dello zio le erano parsi i migliori del mondo, anche quella canzone le pareva il sommo d’ogni espressione musicale.

«Ancora, vi prego, ancora,» disse Nataša, rivolta verso la porta, non appena il suono della balalajka tacque.

Mit’ka accordò lo strumento e tornò a scatenare la Barynja, con molte variazioni e riprese. Lo zio ascoltava seduto, con la testa piegata da un lato e un sorriso appena percettibile. Il motivo della Barynja fu ripetuto un centinaio di volte. Ogni tanto la balalajka veniva riaccordata e poi di nuovo se ne sprigionavano gli stessi suoni; ma, anziché annoiarsene, gli ascoltatori sembravano sempre più disposti a riascoltare quella musica. Anis’ja Fëdorovna entrò nella stanza e si appoggiò col suo corpo pesante allo stipite della porta.

«Vi piace ascoltare?» domandò a Nataša con un sorriso che somigliava moltissimo a quello dello zio. «Mit’ka è molto bravo, suona splendidamente.»

«In questo passaggio, però, non esattamente quel che dovrebbe,» commentò lo zio con un gesto energico. «Qui bisogna scandire di più le note. Benissimo! Avanti, marsc, staccare!»

«Sapete suonare anche voi la balalajka? » domandò Nataša.

Lo zio sorrise senza rispondere.

«Anis’juška, guarda se la chitarra non ha le corde rotte. È un pezzo che non la prendo in mano, l’ho completamente trascurata!»

Anis’ja Fëdorovna andò di buon grado, con la sua andatura leggera, a eseguire l’incarico del suo padrone e tornò con la chitarra.

Senza guardare nessuno, lo zio ne soffiò via la polvere, con le dita ossute batté sulla cassa dello strumento, lo accordò e si assestò comodamente sulla poltrona. Afferrò la chitarra un po’ più su del manico (spingendo in fuori il gomito del braccio sinistro in un gesto piuttosto teatrale) e, dopo aver strizzato l’occhio a Anis’ja Fëdorovna, non cominciò a suonare la Barynja, ma prese un accordo puro e squillante e, in modo misurato, con calma, ma con mano ferma, prese a modulare su un ritmo molto lento la nota canzone: Sulla stra-a-ada lastricata. Il motivo della canzone riecheggiò subito anche nell’anima di Nikolaj e di Nataša all’unisono con la tranquilla giocondità della musica, la stessa giocondità che spirava da tutta la persona di Anis’ja Fëdorovna. Questa si fece tutta rossa e, coprendosi la faccia col fazzoletto, uscì ridendo dalla stanza. Lo zio continuò a modulare la canzone con purezza, suono limpido e puro e con timbro energico, guardando con occhi mutati, densi d’ispirazione il punto dal quale era uscita Anisja Fëdorovna.

Qualcosa rideva in modo appena percettibile sul suo viso, da una parte, sotto un baffo grigio; e quel sorriso si accentuò quando la canzone giunse a una fase successiva, il tempo fu accelerato e qualcosa pareva rompersi nei passaggi.

«Un incanto, un vero incanto, zio! Ancora, ancora» prese a gridare Nataša non appena egli ebbe terminato.

Saltò su dal divano, e corse ad abbracciare e baciare lo zio. «Nikolen’ka, Nikolen’ka!» esclamò poi, voltandosi a guardare il fratello come a domandargli: «Ma questo che cosa è mai?»

Anche a Nikolaj era piaciuta l’esecuzione dello zio. Questi suonò la canzone una seconda volta: il volto sorridente di Anis’ja Fëdorovna ricomparve nel vano della porta e, dietro di lei, altre facce. «Dietro la fresca fonte grida: ragazza, aspetta!» suonava lo zio; poi fece una abile variazione e, all’improvviso, troncò di netto stringendosi nelle spalle.

«Su, avanti zietto, avanti!» supplicò Nataša come se dal suono di quella chitarra dipendesse la sua vita.

Lo zio si alzò e fu come se in lui ci fossero state due diverse persone: una sorrideva gravemente del buontempone, ma fu il buontempone a fare un passo ingenuo e preciso prima di cominciare il ballo.

«Suvvia, nipotina!» gridò lo zio, invitando Nataša con un gesto della mano che aveva troncato l’accordo.

Nataša gettò lontano lo scialle che aveva indosso, corse davanti allo zio e, puntando le mani contro i fianchi, fece un movimento con le spalle, fermandosi poi di colpo.

Dove, come, quando quella contessina, educata da una emigrata francese, aveva assorbito dall’aria russa che respirava quello spirito? Dove aveva preso quegli atteggiamenti che il pas de châle da un pezzo avrebbe dovuto distruggere? Eppure quello spirito e quegli atteggiamenti russi, che lo zio, appunto, si attendeva da lei. Non appena ella si fermò con un sorriso trionfante, fiera e piena di furbesca allegria, la paura che in un primo momento aveva colto Nikolaj e tutti i presenti - la paura che lei non vi riuscisse - si dileguò, e tutti la guardarono estatici.

Aveva fatto proprio quello che doveva, e in modo così esatto, così perfetto, che Anis’ja Fëdorovna, la quale le aveva dato subito il fazzoletto necessario per il ballo, mescolò le lacrime alle risa nel guardare quella contessina esile e graziosa, così diversa da lei, allevata tra le sete e i velluti, e tuttavia capace di comprendere tutto ciò che c’era in Anis’ja, e nel padre di Anis’ja, e in sua madre, e in sua zia, e in ogni anima russa.

«Brava contessina, benissimo, avanti marsc!» esclamò lo zio ridendo felice e terminando il ballo. «Brava nipotina! Ora non rimane che trovarti un maritino in gamba! Brava, benissimo!»

«Già trovato,» disse sorridendo Nikolaj.

«Ooh!» fece lo zio, meravigliato, guardando Nataša con espressione interrogativa.

Nataša con un sorriso felice annuì col capo.

«E che marito!» disse.

Ma non appena ebbe detto questo in lei prese forma un altro corso di pensieri e di sentimenti. Che cosa significava il sorriso di Nikolaj, quando aveva detto: «Già trovato?» Ne era contento oppure no? «Sembra pensare che il mio Bolkonskij non approverebbe, non capirebbe questa nostra gioia. No, lui capirebbe tutto. Chissà dov’è, adesso?»

pensò Nataša e il suo viso improvvisamente si fece serio. Ma fu solo un istante. «Non bisogna pensarci,» disse a se stessa e, sorridendo, tornò a sedere accanto allo zio, pregandolo di suonare ancora qualcosa. Lo zio suonò un’altra canzone, poi un valzer; infine, dopo un momento di silenzio, tossicchiò e prese a cantare la sua canzone di caccia preferita:

Fin dalla sera la bella neve

cadeva fitta e lieve…

Lo zio cantava come canta la gente del popolo, con la piena e ingenua convinzione che tutto il significato di una canzone fosse riposto solo nelle parole, che il motivo venisse da sé e che non esistesse un motivo a sé stante, ma che il motivo servisse solo all’armonia. Ma proprio per questo quel motivo inconscio, come lo è nel canto di un uccello, era, nel canto dello zio, di straordinaria bellezza. Nataša era entusiasta del suo modo di cantare. Aveva deciso che non avrebbe più studiato l’arpa, per dedicarsi soltanto alla chitarra. Se la fece prestare dallo zio e provò subito degli accordi per una canzone.

Alle dieci arrivarono, per prelevare Nataša e Petja, una carrozza, un calesse e tre uomini a cavallo, mandati alla loro ricerca. Il conte e la contessa, disse uno di costoro, non sapevano dove fossero finiti ed erano molto in ansia.

Petja fu portato a braccia e scaricato come un corpo morto sulla carrozza; Nataša e Nikolaj sedettero nel calesse. Lo zio coprì con cura Nataša e la salutò con una nuova vibrazione di affetto. Poi li accompagnò a piedi fino a un ponticello che occorreva aggirare per passare a guado, e ordinò ai cacciatori di precederli con le lanterne.

«Addio, cara nipotina!» gridò dall’oscurità la sua voce: non la voce che Nataša aveva conosciuto, ma una voce diversa, quella che aveva cantato: Fin dalla sera la bella neve…

Nel villaggio che attraversarono brillavano dei lumi rossi e c’era un allegro odor di fumo che metteva allegria.

«Che simpatico, questo zio!» disse Nataša quando sbucarono sulla strada maestra.

«Sì,» disse Nikolaj. «Ma non hai freddo?»

«No, sto benissimo. Mi sento proprio bene,» disse Nataša, perfino un poco stupita di sé.

Tacquero a lungo. La notte era umida e buia. I cavalli non si vedevano; si udiva soltanto lo sguazzare degli zoccoli nel fango invisibile.

Che cosa accadeva in quell’anima fanciullesca, così ricettiva, capace di cogliere e assimilare le più diverse impressioni della vita? Come si componeva in lei tutto questo? Ella, in ogni caso, era felice. Quando ormai erano vicini a casa, all’improvviso intonò il motivo della canzone: « Fin dalla sera la bella neve… »: per tutta la durata del tragitto aveva dato la caccia a quel motivo, ed ora, alfine, le era tornato in mente.

«Te lo sei ricordato?» domandò Nikolaj.

«E tu, a che stavi pensando, ora, Nikolen’ka?» domandò Nataša.

Piaceva, a loro, porsi a vicenda quella domanda.

«Io?» disse Nikolaj, cercando di ricordare. «Ecco, poco fa pensavo a Rugaj, quel cane rosso; pensavo che assomiglia allo zio e che, se fosse un uomo, si terrebbe egualmente lo zio con sé: se non per la caccia, almeno come cane da ferma… È una gran brava persona, lo zio. Non ti sembra?»

«Io? Aspetta. Aspetta. Sì, prima pensavo che noi eravamo qui, in questa carrozza, credendo di andare a casa mentre invece chissà dove stavamo andando in quel buio; poi, a un tratto, saremmo arrivati e avremmo visto che non eravamo a Otradnoe, ma in un reame incantato… E poi pensavo… No, nient’altro.»

«Lo so, pensavi a lui,» disse Nikolaj sorridendo, cosa di cui Nataša si accorse dal suono della sua voce.

«No,» rispose Nataša, sebbene insieme a tutto il resto avesse pensato anche al principe Andrej chiedendosi se lo zio gli sarebbe piaciuto. «Ma per tutta la strada ho continuato a pensare: con quale grazia si muoveva Anis’juška mentre ballava! Era proprio brava.»

E Nikolaj udì il suono della sua risata squillante e felice, felice senza motivo. «Sai,» disse lei a un tratto, «io sento che non sarò mai più così felice, così tranquilla come adesso.»

«Queste sono sciocchezze, sono fandonie,» rispose Nikolaj; e intanto pensava: «Che tesoro è la mia Nataša. Un amico come lei non l’ho e non l’avrò mai. Ma perché si sposa? Sarebbe così bello andare sempre in giro così, noi due assieme!»

«Ah, è proprio un tesoro, Nikolaj!» pensava nello stesso momento Nataša.

«Ah! C’è ancora la luce accesa nel salone,» disse lei, indicando le finestre della casa, che spiccava piacevolmente nell’umida, vellutata oscurità della notte.

Guerra e Pace
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