XIII
Nei due giorni successivi al ballo, Dolochov non si fece vedere e Rostov non lo trovò in casa; il terzo giorno ricevette un suo biglietto.
«Dato che non intendo più frequentare casa vostra per i motivi che sai e parto per il reggimento, stasera do un piccolo banchetto di addio in onore dei miei amici. Ti aspetto all’Albergo d’Inghilterra.»
Il giorno indicato, dopo le nove, dal teatro dov’era stato insieme con i suoi e con Denisov, Rostov si recò all’Albergo d’Inghilterra. Venne subito accompagnato nella migliore sala dell’albergo, che Dolochov aveva affittata per tutta la notte. Una ventina di persone si affollavano intorno a una tavola davanti alla quale sedeva fra due candele Dolochov. Sulla tavola c’era del denaro in biglietti e monete d’oro, e Dolochov teneva banco. Dopo la domanda di matrimonio a Sonja e il rifiuto di lei, Nikolaj non s’era più incontrato con lui e provava un certo impaccio al pensiero di rivederlo.
Lo sguardo chiaro e gelido di Dolochov accolse Rostov quando egli era ancora sulla porta, come se Dolochov lo aspettasse da un pezzo.
«Non ci vediamo da molto tempo,» disse; «grazie di esser venuto. Mentre finisco di dar le carte verrà Iljuška con il coro.»
«Sono passato da casa tua,» disse Rostov, arrossendo.
Dolochov non gli rispose.
«Puoi puntare,» disse.
In quel momento Rostov si ricordò della strana conversazione avuta una volta con Dolochov. «Soltanto gli stupidi giocano affidandosi alla fortuna,» aveva detto allora Dolochov.
«O forse hai paura di giocare con me?» disse adesso Dolochov, come se avesse intuito il pensiero di Nikolaj, e sorrise.
Nel suo sorriso Rostov lesse lo stesso stato d’animo in cui egli si era trovato durante il pranzo al Club e in genere nei periodi in cui, come annoiato dalla vita d’ogni giorno, egli provava la necessità di uscirne con qualche azione strana, per lo più crudele.
Rostov si sentì a disagio; nella sua mente cercava, senza trovarla, una battuta scherzosa con la quale rispondere alle parole di Dolochov. Ma prima che vi riuscisse, Dolochov, guardandolo dritto in faccia, gli disse lentamente e scandendo le parole, in modo che tutti potessero udirlo:
«Ti ricordi, una volta abbiamo parlato del gioco…. Soltanto gli stupidi giocano fidando nella fortuna; sul sicuro si deve giocare, e io voglio provare.»
«Provare la fortuna o a colpo sicuro?» pensò Rostov.
«Ma forse è meglio che tu non giochi,» aggiunse Dolochov, e facendo schioccare il mazzo dal quale aveva strappato l’involucro, aggiunse ancora: «Banco, signori!»
E Dolochov, dopo aver spostato davanti a sé i denari, si preparò a tener banco. Rostov gli sedette accanto, e da principio non giocò. Dolochov ogni tanto gli gettava un’occhiata.
«Perché non giochi?» disse.
Stranamente, Nikolaj si sentì spinto a prendere una carta, a puntare una posta insignificante, pur di entrare nel gioco.
«Non ho denari con me,» disse Rostov.
«Ti faccio, credito!»
Rostov puntò cinque rubli su un’altra carta e perse; ne puntò altri cinque e perse di nuovo. Dolochov lo
«ammazzò», ossia vinse dieci carte di seguito a Rostov.
«Signori,» disse Dolochov, dopo aver tenuto banco per un certo tempo, «vi prego di posare i denari sulle carte, altrimenti potrei sbagliarmi nel contare.»
Uno dei giocatori disse che sperava ci si potesse fidare di lui.
«Certo che ci si può fidare, ma ho paura di confondermi; vi prego dunque di posare i soldi sulle carte,» rispose Dolochov. «Tu non aver timore per i soldi, poi faremo i conti fra noi,» aggiunse, rivolto a Rostov.
Il gioco continuò; un cameriere serviva champagne senza interruzione.
Tutte le puntate di Rostov andavano male e a suo carico erano già segnati ottocento rubli. Stava per segnare su una sola carta ottocento rubli, ma poi ci ripensò e, mentre il cameriere gli serviva lo champagne, fece la solita puntata di venti rubli.
«Lascia così,» disse Dolochov, quantunque sembrasse non guardare Rostov. «Ti rifarai prima. Con gli altri perdo e con te vinco. O hai paura di me?» aggiunse.
Rostov gli diede retta; lasciò gli ottocento rubli che aveva segnato e giocò il sette di cuori con un angolo strappato, che aveva raccolto per terra. In seguito se ne ricordò assai bene. Mise il sette di cuori dopo avervi scritto sopra ottocento in cifre tonde e dritte con un gessetto rotto; tracannò il calice di champagne che gli era stato servito ed ora non era più fresco, sorrise alle parole di Dolochov, e, aspettando un sette col cuore sospeso, prese a guardare le mani di Dolochov che tenevano il mazzo. La vincita o la perdita di quel sette di cuori voleva dire molto, per Rostov. La domenica della settimana precedente il conte Ilja Andrejè aveva dato al figlio duemila rubli, e sebbene evitasse sempre di parlare di difficoltà economiche, gli aveva detto che quei soldi erano gli ultimi fino a maggio, e che perciò lo pregava di essere, per quella volta, un po’ meno scialacquatore. Nikolaj aveva risposto che per lui quella somma era perfino troppo, e che gli dava la sua parola d’onore di non aver più bisogno di denari fino a primavera. Adesso di questi soldi restavano milleduecento rubli. Dunque, quel sette di cuori non solo poteva fargli perdere milleseicento rubli, ma l’avrebbe costretto a mancare alla parola data. Egli guardava col cuore sospeso le mani di Dolochov e pensava: «Su, presto, dammi questa carta e io prendo il mio berretto, me ne vado a casa a cena con Denisov, Nataša e Sonja, e non prenderò mai più nelle mani una sola carta.» In quell’istante la sua vita domestica - gli scherzi con Petja, le conversazioni con Sonja, i duetti con Nataša, la partita a piquet col padre e perfino il suo letto tranquillo nella casa di via Povarskaja - gli apparivano davanti agli occhi con tanta evidenza, tanta chiarezza e tanto fascino, da sembrare che tutto ciò appartenesse a una felicità da tempo trascorsa, perduta e mai abbastanza apprezzata. Egli non poteva ammettere che uno stupido caso, facendo sì che il sette si posasse a destra invece che a sinistra, potesse privarlo di quella felicità che ora vedeva in modo nuovo, illuminata di una nuova luce, e precipitarlo nell’abisso di un’infelicità indefinibile, mai provata fino allora. Ciò non poteva accadere, e tuttavia aspettava col cuore sospeso il movimento delle mani di Dolochov. Queste mani rossicce dalle ossa forti, con i peli che spuntavano di sotto la camicia, posarono il mazzo di carte, poi afferrarono il bicchiere che gli veniva offerto e la pipa.
«Non hai paura, dunque, a giocare con me?» ripeté Dolochov; e come se volesse raccontare una storia divertente, posò le carte, si rovesciò sulla spalliera della sedia e prese a raccontare lentamente con un sorriso:
» Sì, signori, mi hanno detto che a Mosca corre voce che io sia un baro; perciò vi consiglio di essere più prudenti con me.»
«Suvvia, da’ le carte!» disse Rostov.
«Ah, queste comari moscovite!» esclamò Dolochov, e riprese le carte con un sorriso.
«Aaah!» A Rostov per poco non sfuggì un grido, mentre si portava le mani ai capelli. Il sette che gli era necessario era sopra, la prima carta del mazzo. Aveva perduto più di quanto, potesse pagare.
«Ma non disperarti,» disse Dolochov gettando uno sguardo di sfuggita a Rostov, e continuò a mischiare le carte.