IV
Quel giorno, il 15 settembre, il vecchio conte, che aveva sempre tenuto grandi cacce e adesso ne aveva rimessa l’intera organizzazione nelle mani di suo figlio, pieno di buon umore si accinse a partire anche lui.
Dopo un’ora tutto era pronto davanti all’ingresso. Nikolaj, con un’aria severa dalla quale si comprendeva come adesso non ci fosse tempo per occuparsi di sciocchezze, passò davanti a Nataša e a Petja che gli volevano raccontare qualcosa. Esaminò attentamente cani e cacciatori, prima di mandarli avanti in ricognizione; poi montò sul suo sauro del Donets, e fischiando ai cani della sua muta si mosse attraverso l’aia verso i campi che portavano alla riserva di Otradnoe. Il cavallo del vecchio conte, un vivace castrone sauro chiamato Vifljanka, era condotto a mano dallo staffiere di casa; il conte si sarebbe portato direttamente in carrozza all’appostamento che gli era stato destinato.
Erano stati fatti uscire cinquantaquattro segugi ai quali badavano sei uomini a cavallo, fra bracchieri e canettieri. Oltre ai padroni, badavano ai levrieri otto uomini che trottavano dietro di loro in numero di quaranta e più; sicché, contando anche le mute dei signori, erano in campo circa centotrenta cani e venti cacciatori a cavallo.
Ogni cane conosceva il suo padrone e il suo nomignolo. Ogni cacciatore sapeva ciò che doveva fare, conosceva il suo posto e la sua destinazione. Non appena ebbero oltrepassato il recinto, senza rumore e senza parlare, in modo uniforme e tranquillo, tutti si allargarono lungo la strada e i campi che portavano al bosco di Otradnoe.
I cavalli avanzavano per la campagna come su un soffice tappeto, e a tratti sguazzavano nelle pozzanghere, quando dovevano tagliare i sentieri. Il cielo nebbioso continuava a calare, in modo costante e quasi insensibile, sulla terra; l’aria era tepida, quieta, silenziosa. A tratti risuonava ora il fischio di un cacciatore, ora lo sbuffare di un cavallo, ora un colpo di scudiscio o il guaito di un cane che non procedeva al suo posto.
Quando ebbero percorso una versta, altri cinque uomini a cavallo, seguiti dai cani, sbucarono dalla nebbia dirigendosi verso i Rostov. In testa a tutti cavalcava un bel vecchio ancor vegeto con grandi baffi bianchi.
«Buon giorno, zio,» disse Nikolaj, quando il vecchio gli fu accanto.
«Avanti, dunque!… Lo immaginavo,» disse lo zio (che era un lontano parente e un non facoltoso proprietario di terre confinanti con quelle dei Rostov), «lo immaginavo che non avresti potuto trattenerti. Fai bene ad andare.
Benissimo; avanti dunque, marsc. (Era l’intercalare prediletto dello zio.) Entra subito nella riserva, perché il mio Girèik mi ha riferito che gli Ilagin sono a caccia anche loro, a Korniki; ti soffieranno i lupacchiotti sotto il naso. Avanti, dunque, marsc!»
«È proprio là che sto andando. E se unissimo le mute?» domandò Nikolaj. «Le uniamo…»
Raccolsero i segugi in una sola muta; poi lo zio e Nikolaj presero a cavalcare l’uno a fianco dell’altro. Nataša, con la testa avvolta nel fazzoletto da cui spuntava il suo viso acceso dagli occhi scintillanti, si portò al galoppo accanto a loro, accompagnata da Petja, dal cacciatore Michajlo che non l’abbandonava un istante, e da un palafreniere che la njanja le aveva messo alle calcagne. Nataša cavalcava con abilità e sicurezza il suo morello Arabèik e lo trattenne con mano salda, senza sforzo.
Lo zio si volse a guardare Petja e Nataša con aria di disapprovazione. Non gli andava di trasformare in un gioco da ragazzi una cosa seria come la caccia.
«Buon giorno, zietto, veniamo anche noi,» si mise a gridare Petja.
«Salve, salve, ma attenti a non calpestarmi i cani,» rispose lo zio con voce severa.
«Nikolen’ka, che stupendo cane, questo Trunila! Mi ha riconosciuto,» disse Nataša parlando del suo segugio preferito.
«Trunila in primo luogo non è un cane, ma un segugio,» pensò Nikolaj, e gettò un’occhiata severa alla sorella, cercando di farle percepire la distanza che in quel momento doveva separarli. Nataša lo comprese.
«Ma voi, zietto, non temete: non daremo fastidio a nessuno,» disse Nataša. «Ci metteremo al nostro posto e non ci muoveremo di là.»
«Ottimo proposito, contessina,» disse lo zio. «Però attenta a non cascare da cavallo,» soggiunse, «perché altrimenti… ecco, benissimo, marsc! Non c’è altro a cui aggrapparsi.»
La zona boscosa della riserva di Otradnoe era visibile a duecento passi e i bracchieri vi si stavano già avvicinando. Rostov, dopo aver deciso con lo zio in che punto bisognasse lanciare i segugi, e aver indicato a Nataša il posto dove poteva sostare perché non vi sarebbe passato alcun animale, andò a esplorare il ciglio del burrone.
«Ebbene, nipotino, ti stai mettendo sulle piste d’una bestia grossa,» disse lo zio, «attento a non lasciartela scappare.»
«Dipenderà da come si presenta,» rispose Nikolaj. «Karaj, pfuit!» gridò poi, rispondendo con questo richiamo alle parole dello zio.
Karaj era un vecchio mostruoso mastino dal petto largo, famoso perché capace di assalire da solo i lupi più grossi. Tutti si misero ai loro posti.
Il verchio conte, conoscendo l’ardore venatorio del figlio, si era dato da fare per non arrivare in ritardo, e i bracchieri non avevano ancora avuto il tempo di avvicinarsi ai loro posti, che Il’ja Andreiè, allegro e rubicondo, con le guance che gli fremevano, arrivò al trotto attraverso i prati con i suoi morelli raggiungendo l’appostamento che gli era stato destinato. Aperse la pelliccia e, infilati alla cintola gli arnesi da caccia, montò il suo lustro, grasso e pacifico Vifljanka, ormai grigio come lui. I due cavalli col calessino furono rimandati indietro. Sebbene non fosse un cacciatore incallito, il conte Il’ja Andreiè conosceva alla perfezione le regole della caccia: s’inoltrò a cavallo fino al margine del bosco fitto di cespugli, dove era il suo posto, raccolse le redini, si sistemò saldamente in sella e quando si sentì pronto si guardò attorno, sorridendo.
Vicino a lui stava il suo cameriere, un cavallerizzo di vecchia esperienza ma ormai appesantito dagli anni: Semen Èekmar’. Èekmar’ teneva al guinzaglio tre cani da lupo, gagliardi ma troppo grassi, come il padrone e il cavallo.
Altri due cani, vecchi e intelligenti, se ne stavano accucciati senza guinzaglio. Cento passi oltre, nel margine del bosco, c’era un altro staffiere del conte: Mit’ka, cavallerizzo sfrenato e sfegatato cacciatore.
Secondo un’inveterata sua abitudine il conte prima della caccia aveva bevuto in un piccolo calice d’argento qualche sorso di acquavite drogata, all’uso dei cacciatori, e aveva fatto uno spuntino annaffiato da mezza bottiglia del suo Bordeaux preferito.
Adesso era un po’ acceso in volto, a causa del vino e della cavalcata; i suoi occhi, coperti da un velo umido, brillavano più del solito e, avvolto com’era nella pelliccia, eretto sulla sua sella, aveva l’aria di un bimbo soddisfatto, pronto per la passeggiata.
Magro, le guance incavate, Èekmar’ aveva sbrigato le sue incombenze e sbirciava il padrone col quale aveva vissuto trent’anni in assoluta dimestichezza; e, indovinando la sua ottima disposizione d’animo, si aspettava una piacevole conversazione. Una terza persona si avvicinò cautamente provenendo dal bosco (si vedeva che già era stata istruita sul da farsi) e si fermò dietro il conte. Costui, un vecchio dalla barba bianca, con un mantello da donna e un alto berretto da notte, era il buffone che chiamavano Nastas’ja Ivanovna.
«Attento, Nastas’ja Ivanovna,» sussurrò il conte, ammiccando con gli occhi, «se ci fai scappare la bestia Danila ti concia per le feste.»
«Anch’io me ne intendo, non sono mica di primo pelo,» rispose Natas’ja Ivanovna.
«Sss!» lo zittì il conte, e si rivolse a Semen. «Hai visto Natal’ja Il’inièna?» gli domandò. «Dov’è?»
«S’è appostata con Petr Il’iè vicino ai rovi di Žarovo,» rispose Semen sorridendo. «È una signora, però la caccia le piace molto!»
«E tu ti meravigli, Semen, di come cavalca… eh?» disse il conte. «Potrebbe dar lezioni a un uomo!»
«Come potrei non meravigliarmi? Ha un coraggio! È proprio in gamba.»
«E Nikolen’ka dov’è? Sulla collina di Ljadovo, eh?» domandò il conte, sempre a bassa voce.
«Appunto. Lo sa bene lui dove conviene mettersi. Cavalca così bene che a volte io e Danila restiamo stupefatti,» disse Semen che conosceva l’arte di far piacere al suo padrone.
«Cavalca bene, eh? E sul cavallo, che figura, vero?»
«Bisognerebbe farci un quadro! Giorni fa in mezzo ai rovi di Zavarzino, abbiamo scovato una volpe. Lui s’è messo a galoppare e via!… un fulmine! Quello è un cavallo che vale mille rubli, ma il cavaliere, poi, non ha prezzo!
Dove trovi un altro ragazzo in gamba come lui!»
«Ah, sì, dove trovarne…» ripeté il conte, evidentemente dispiaciuto che il discorso di Semen si fosse esaurito così presto. «Dove trovarne un altro…» ripeté una seconda volta, rovesciando i lembi della pelliccia e cavando fuori la sua tabacchiera.
«L’altro giorno, quando è uscito dalla messa con indosso l’alta uniforme, Michail Sidoryè…» Ma Semen non terminò la frase, poiché aveva udito il rumore di un inseguimento che echeggiava nell’aria silenziosa con un latrato di non più di due o tre cani. Rimase in ascolto con la testa piegata da un lato, e senza parlare fece un cenno minaccioso al padrone. «Si sono buttati dietro la cucciolata…» sussurrò, «corrono dritto verso Ljadovo.»
Dimenticandosi di cancellare dal volto il suo sorriso, il conte guardava in lontananza davanti a sé lungo il recinto della riserva e reggeva in mano la tabacchiera senza fiutare il tabacco. Dopo il latrato dei cani si udì il segnale del lupo lanciato da Danila col suono cupo del suo corno; la muta si riunì ai primi tre cani e poi furono uditi i latrati dei segugi, in crescendo con quel particolare modo di abbaiare che indicava come fosse iniziato l’inseguimento del lupo. I capi bracchieri non incitavano ormai più i cani, ma li incitavano con un continuo «ululù» e, su tutte le voci, sovrastava quella di Danila, ora bassa, ora acuta e lacerante. La voce di Danila sembrava colmar di sé tutto il bosco, uscirne fuori ed echeggiare lontano lungo la distesa dei campi.
Dopo esser rimasti qualche secondo in silenzioso ascolto, il conte e il suo staffiere si convinsero che i segugi si fossero divisi in due mute; una, più numerosa, che latrava con particolare ardore, prese ad allontanarsi; l’altra sfrecciò davanti al conte correndo lungo il bosco; e dietro quest’ultima si udì l’«ululù» di Danila. I due distinti inseguimenti peraltro si fondevano, alternandosi a tratti, e allontanandosi entrambi. Semen sospirò chinandosi per assestare il guinzaglio nel quale s’era impigliato un giovane cane; anche il conte sospirò e, accorgendosi di avere in mano la tabacchiera, l’aprì e ne tolse una presa di tabacco.
«Torna indietro!» gridò Semen al giovane cane che s’inoltrava nel sottobosco. Il conte trasalì e lasciò cadere la tabacchiera. Nastas’ja Ivanovna smontò da cavallo e fece l’atto di raccoglierla. Il conte e Semen lo guardavano.
A un tratto, come spesso succede, il frastuono dell’inseguimento si avvicinò in modo affatto subitaneo, come se le fauci latranti dei cani e il grido di Danila risuonassero già quasi davanti a loro.
Il conte si voltò e vide sulla destra Mit’ka che lo guardava con gli occhi sbarrati e, sollevando il berretto accennava un punto davanti a sé, della parte opposta.
«Attenzione!» gridò, con una voce che fece capire come da un pezzo questa parola gli urgesse dolorosamente in gola. E, lasciando andare i cani, galoppò verso il conte.
Il conte e Semen uscirono al galoppo dal margine del bosco e videro alla propria sinistra il lupo che, dondolandosi mollemente, correva a salti silenziosi alla loro sinistra verso il margine del bosco dove loro si trovavano. I cani latravano furibondi: riuscirono a strappare i guinzagli e si buttarono verso il lupo sfrecciando tra le zampe dei cavalli.
Il lupo fermò la sua corsa; in modo goffo, quasi avesse avuto il torcicollo, volse la testa dalla grossa fronte verso i cani e, sempre dondolandosi mollemente, fece un salto, poi un altro e, agitando la coda, scomparve nel sottobosco. In quello stesso istante dal margine opposto del bosco, con un urlo simile a un lamento, balzò fuori smarrito un segugio, poi un altro, poi un terzo; finché tutta la muta prese di corsa giù per il campo, attraverso il punto dov’era passato il lupo. Dietro i cani i cespugli di nocciolo si aprirono e apparve il cavallo baio di Danila, nero e lucido di sudore. Sulla sua lunga groppa, curvo e raggomitolato in avanti, stava Danila senza berretto, coi grigi capelli sparsi sulla fronte rossa e sudata.
«Ululù, ululù!…» gridava. Quando scorse il conte, i suoi occhi mandarono un lampo.
«Maled… !» gridò, minacciando il conte con lo scudiscio sollevato.
«Vi siete fatti scappare il lupo! Che razza di cacciatori siete!» E, quasi non volesse degnare d’altri discorsi il conte confuso e spaventato, con tutta la rabbia che aveva in corpo batté sui fianchi umidi e incavati del suo castrone baio e galoppò dietro i segugi. Il conte rimase in piedi, come colpito da una punizione, guardandosi intorno e cercando con un sorriso di suscitare in Semen un sentimento di solidarietà per la propria situazione. Ma Semen era già scomparso: aggirando i cespugli, galoppava dietro il lupo lungo il margine della riserva. Nel contempo, anche i levrieri incalzavano l’animale sui due lati. Ma il lupo si era addentrato nei cespugli, e nessuno dei cacciatori lo vide più.
V
Frattanto Nikolaj Rostov stava fermo al suo posto, aspettando il lupo. Dall’avvicinarsi e dall’allontanarsi dei latrati, dal rumore delle voci dei cani che egli era in grado di riconoscere, dall’avvicinarsi, l’allontanarsi ed elevarsi delle voci dei capimuta comprendeva ciò che stava accadendo nel bosco. Sapeva che nel folto del bosco c’erano lupi giovani e lupi vecchi; sapeva che i segugi si erano divisi in due branchi, che in qualche punto stavano inseguendo un animale, e che doveva essere accaduto qualcosa di spiacevole. Si aspettava che, da un istante all’altro, la bestia sbucasse dalla sua parte. Faceva mille diverse supposizioni su come e da che parte il lupo sarebbe potuto sbucare di corsa, e sul modo in cui lui lo avrebbe braccato. La speranza si alternava allo sconforto. Più volte si rivolse a Dio con la preghiera che il lupo si dirigesse verso di lui; pregava con quel sentimento appassionato e un po’ vergognoso col quale si prega nei momenti di intensa emozione, e tuttavia dovuta a una causa insignificante. «Che cosa ti costa?» diceva a Dio, «fare questo per me? Lo so che Tu sei grande ed è peccato invocarti per una causa simile, ma Ti prego egualmente: fà che il lupo venga verso di me e che Karaj lo addenti alla gola con un morso micidiale, qui sotto gli occhi dello zio, che sta guardando di laggiù.» In quella mezz’ora Nikolaj percorse mille volte, con uno sguardo teso, inquieto e ostinato, il margine del bosco con le due querce poco folte che emergevano da una bassa distesa di tremule, il burrone dal ciglio corroso e il berretto dello zio che si scorgeva appena dietro un cespuglio, a destra.
«No, non mi capiterà una fortuna simile,» pensava Nikolaj; «e pensare che ci vorrebbe tanto poco! Ma non l’avrò. Sono sempre sfortunato, io: al gioco, in guerra; in tutto.» Nella sua mente balenarono le immagini di Austerlitz e di Dolochov, in rapida ma vivida successione. «Una volta, una volta sola nella vita riuscire a braccare un grosso lupo: non desidero altro!» pensava; intanto tendeva l’orecchio e aguzzava la vista, guardando ora a sinistra ora di nuovo a destra, attento a ogni minima eco dell’inseguimento. Guardò ancora a destra e vide che qualcosa correva verso di lui attraverso il campo deserto. «No, non può essere!» pensò, tirando un pesante sospiro, come sospira un uomo quando si compie qualcosa che aspettava da lungo tempo. Si stava attuando la grande fortuna, e in modo così semplice, senza clamore, senza pompa, senza presagi particolari. Nikolaj non credeva ai propri occhi, e quel suo dubbio durò assai più di un secondo. Il lupo correva avanti e superò con un salto pesante un fossato che aveva incontrato sul suo tragitto. Era una vecchia bestia, col dorso grigio e la pancia rossiccia e spelacchiata. Correva senza fretta, nell’evidente persuasione che nessuno lo avesse scorto. Senza fiatare, Nikolaj si volse a dare un’occhiata ai cani. Essi erano accucciati o in piedi, senza vedere il lupo, senza capire nulla. Il vecchio Karaj, volgendo il capo indietro, scopriva i denti gialli e li faceva schioccare sulle zampe posteriori cercando rabbiosamente una pulce.
«Ululululù,» proferì Nikolaj in un bisbiglio, schiudendo appena lelabbra.
I cani, scuotendo i collari di ferro, balzarono su con le orecchie tese. Karaj smise di mordicchiarsi la coscia e si alzò rizzando le orecchie e agitando leggermente la coda dalla quale il pelo penzolava a ciuffi.
«Debbo lanciarli? Oppure no?» si domandava Nikolaj, mentre il lupo procedeva verso di lui allontanandosi dal bosco. Ad un tratto tutta l’espressione del lupo apparve mutata. Egli trasalì vedendo fissi su di sé degli occhi umani, che probabilmente non aveva mai visti prima di allora; poi, volgendo leggermente la testa verso il cacciatore, si fermò: era meglio andare avanti o indietro? «Fa’ lo stesso, vado avanti!…» parve dire a se stesso, e riprese a correre, senza più guardarsi attorno, con un galoppo molle, libero, sciolto, ma risoluto.
«Ululululù!…» gridò Nikolaj con voce alterata, e con moto spontaneo il suo cavallo si lanciò a precipizio giù per il pendio, saltando attraverso le fratte per tagliare la strada al lupo; i cani, ancor più velocemente, lo oltrepassarono lanciati nella corsa. Nikolaj non udiva le proprie grida, né sentiva di galoppare; non vedeva né i cani, ne il terreno sul quale stava galoppando: vedeva solo il lupo che, accelerata la corsa, si precipitava attraverso il valloncello. Per prima si accostò alla bestia Milka, la cagna pezzata di nero dalla larga groppa. Più vicino, più vicino… ecco che sta per raggiungerla. Ma il lupo le gettò una rapida occhiata e Milka, invece di accelerare lo slancio come sempre faceva, all’improvviso cominciò a impuntarsi sulle zampe anteriori colla coda ritta.
«Ululululù!» gridava Nikolaj.
Il rosso Ljubim spuntò dietro Milka, si lanciò impetuosamente sul lupo e lo addentò alle zampe posteriori, ma, nel medesimo istante, spaventato, fece uno scarto nella direzione opposta. Il lupo si accucciò, digrignando i denti, poi tornò a sollevarsi e corse avanti di scatto, seguito a pochi palmi di distanza da tutti i cani, che tuttavia evitavano di farglisi più accosto.
«Ci scappa! No, no, non è possibile,» pensò Nikolaj, continuando a lanciare le sue grida rauche.
«Karaj! Ululululù!…» gridò ancora, cercando con gli occhi il vecchio cane, unica sua speranza. Karaj, raccolte tutte le sue vecchie forze, si allungava quanto più poteva; guardando il lupo, correva nella stessa direzione della bestia per tagliarle la strada. Ma, dalla velocità della corsa del lupo e dalla lentezza di quella del cane, era chiaro che il calcolo di Karaj era sbagliato. Nikolaj ormai vedeva avvicinarsi davanti a sé il bosco dove il lupo, caso mai fosse riuscito a raggiungerlo, avrebbe trovato un rifugio sicuro. Dinanzi a lui apparvero dei cani e un cacciatore che gli galoppava quasi incontro. C’era ancora una speranza. Un giovane, lungo levriero pezzato, che Nikolaj non conosceva e faceva parte di un’altra muta, piombò come un fulmine davanti al lupo e quasi lo travolse. Il lupo si rialzò con inattesa rapidità e si avventò contro il levriero pezzato, fece scattare la morsa dei suoi denti e il cane si abbatté sanguinante con uno squarcio nel fianco, conficcando la testa nel suolo e lanciando guaiti strazianti.
«Karajuška! Oh, poverino!» gemette Nikolaj.
Il vecchio cane coi ciuffi di pelo che penzolavano sulle cosce stava tagliando la strada al lupo grazie a quei pochi attimi di ritardo, ed era ormai a pochi passi da lui. Quasi avvertendo il pericolo, il lupo sbirciò in obliquo Karaj, ritrasse ancor più la coda fra le zampe e accelerò la corsa. Ma, a questo punto - Nikolaj poté accorgersi soltanto che a Karaj stava accadendo qualcosa - il cane si precipitò fulmineo addosso al lupo e ruzzolò con lui in un borro che stava davanti a loro.
L’istante in cui Nikolaj vide nel borro i cani che si voltolavano lottando col lupo e, sotto di essi, il pelame grigio dell’animale selvaggio, una zampa posteriore protesa, la testa terrorizzata e ansante con le orecchie appiattite (Karaj lo teneva alla gola) - quell’istante, fu il momento più felice della sua vita. Aveva già afferrato l’arcione della sella per smontare di cavallo e colpire il lupo, quando a un tratto dal groviglio dei cani sbucò la testa della belva, poi sull’orlo del borro si posarono le zampe anteriori. Il lupo digrignò i denti (Karaj non lo stringeva alla gola), spiccò un salto con le zampe posteriori fuori del borro e, con la coda fra le gambe, balzò di nuovo in avanti allontanandosi dai cani. Karaj, col pelo irto, forse contuso o ferito, riemerse a fatica dal borro.
«Dio mio! Perché?…» gridò disperato Nikolaj.
Dalla parte opposta il cacciatore dello zio galoppò in senso opposto, in modo da tagliare la strada al lupo, e i cani riuscirono ad arrestarlo di nuovo e a circondarlo. Nikolaj, il suo staffiere, lo zio e il suo cacciatore giravano attorno alla bestia, lanciando degli «ululululù», e tenendosi pronti a smontare da cavallo quando il lupo si fosse accucciato sulle zampe posteriori, o a buttarsi al galoppo se il lupo si fosse scrollato di dosso i cani per lanciarsi di nuovo in direzione della riserva e mettersi in salvo.
Fin dal principio dell’inseguimento, Danila, udendo gli «ulululù», si era portato al margine dei bosco. Vide Karaj azzannare il lupo e fermò il cavallo, pensando che la cosa fosse ormai conclusa. Ma quando vide che i cacciatori non smontavano, e il lupo si liberava rimettendosi in fuga, Danila spinse il suo baio non già verso il lupo, ma in linea retta verso la riserva, cercando come Karaj di tagliargli la strada. In questo modo arrivò vicino al lupo nel momento in cui i cani dello zio lo fermavano per la seconda volta.
Danila cavalcava in silenzio, tenendo il pugnale sguainato nella mano sinistra e battendo ritmicamente con lo scudiscio i fianchi tesi del baio.
Nikolaj non vide e non udì Danila finché il baio non gli sbuffò addosso col suo respiro ansante, e non sentì il tonfo di un corpo che cadeva. Allora vide che Danila si era tuffato in mezzo alla mischia dei cani, dietro il lupo, e cercava di agguantarlo per le orecchie. Per i cani, per i cacciatori, per il lupo, era ormai evidente che adesso tutto era finito. La belva, appiattendo le orecchie atterrita, cercava di sollevarsi, ma i cani la serravano da ogni parte. Danila balzò in piedi, barcollando fece un passo in avanti e con tutto il suo peso, come se si fosse sdraiato a riposare, si lasciò cadere sul lupo acciuffandolo per le orecchie. Nikolaj voleva trafiggerlo, ma Danila mormorò: «No, lo leghiamo,» e, cambiando posizione, premette col piede sul collo del lupo. Nelle fauci della bestia, a mo’ di morso, infilarono di traverso un bastone, legandolo con un guinzaglio; poi gli legarono le zampe e Danila lo fece rotolare un paio di volte da un fianco all’altro.
Con le facce stanche e felici caricarono il grosso lupo vivo su un cavallo che scalciava e nitriva e, accompagnati dai cani che gli guaivano contro, lo portarono nel punto in cui tutti si sarebbero riuniti. I cacciatori si accostarono per guardare il grosso lupo che, lasciando cadere penzoloni la testa dalla grossa fronte con il bastone già roso dai morsi, guardava con occhi vitrei tutta la folla di cani e di uomini che lo attorniava. Quando lo toccavano, sussultando con le zampe legate, guardava tutti con espressìone selvaggia e al tempo stesso ingenua. Anche il conte Il’ja Andrejè si accostò per toccare il lupo.
«Com’è grosso,» esclamò. «È un vecchio lupo, vero?» domandò a Danila che era in piedi accanto a lui.
«Un bestione, eccellenza,» rispose Danila togliendosi prontamente il berretto.
Il conte si ricordò di essersi lasciato scappare sotto il naso il lupo, e del suo scontro con Danila.
«Tu però sei arrabbiato, amico mio,» disse Il’ja Andrejè.
Danila non rispose: abbozzò soltanto un sorriso timido, un sorriso infantile, mansueto e gradevole.