IV

 

Poco dopo avanzò nella stanza buia, non più il retore di prima, ma il suo mallevadore Willarski, che Pierre riconobbe dalla voce. A nuove domande circa la fermezza del suo proposito Pierre rispose: «Sì, sì, sono d’accordo.» E

con un sorriso raggiante infantile, con il grasso petto scoperto, procedendo a passi timidi e ineguali con un piede scalzo e l’altro calzato, si avvicinò alla spada di Willarski puntata contro il suo petto nudo. Dalla stanza lo condussero lungo certi corridoi, facendogli fare varie giravolte avanti e indietro, e infine lo accompagnarono alla porta della loggia.

Willarski tossicchiò e gli venne risposto con i colpi massonici di martello. La porta si aprì davanti a loro. Una voce di basso (gli occhi di Pierre erano sempre bendati) gli fece varie domande: chi fosse, dove e quando fosse nato eccetera.

Poi lo guidarono in qualche altro posto senza levargli la benda dagli occhi e, mentre Pierre camminava, gli parlarono sotto forma allegorica delle fatiche del suo viaggio, della santa amicizia, dell’Eterno Architetto dell’universo, del coraggio col quale avrebbe dovuto sopportare fatiche e pericoli. Durante questa peregrinazione Pierre notò che a volte lo chiamavano il cercatore, a volte il sofferente, a volte il postulante, e nel far questo battevano in modo diverso con i martelli e con le spade. Mentre lo guidavano verso un punto ignoto, si accorse che fra le sue guide si era prodotto un certo turbamento, una certa confusione. Sentì che sottovoce si accendeva tra loro una discussione, e che uno di essi insisteva affinché egli venisse fatto passare su un tappeto. Dopo di che gli presero la mano destra, la posarono su qualcosa e gli ordinarono di appoggiare con la sinistra un compasso sul capezzolo sinistro; infine Pierre dovette pronunciare il giuramento di fedeltà alle leggi dell’ordine, ripetendo le parole che qualcuno leggeva. Poi le candele vennero spente, fu acceso dell’alcool - come Pierre poté indovinare dall’odore - e i massoni dissero che avrebbe visto la piccola luce. Tolsero la benda a Pierre, e questi, come in sogno, alla debole luce della fiamma dell’alcool vide alcuni uomini che, in piedi davanti a lui, indossavano grembiuli simili a quelli del retore e tenevano delle spade puntate contro il suo petto. Fra loro ce n’era uno con la camicia bianca insanguinata. Pierre, a quella vista, si protese in avanti col petto verso le spade, affinché queste lo ferissero. Ma le spade si scostarono da lui e quasi subito la benda gli venne rimessa sugli occhi. «Adesso hai visto la piccola luce,» disse una voce. Poi le candele furono di nuovo accese e i massoni dissero che ora Pierre doveva vedere la luce piena; cosicché ancora la benda gli venne levata, mentre all’improvviso più di dieci voci esclamavano: sic transit gloria mundi.

A poco a poco Pierre tornava in sé. Cominciò ad osservare la stanza nella quale si trovava e le persone che gli stavano davanti. Intorno a una lunga tavola, ricoperta da qualcosa di nero, sedevano una dozzina di persone, tutte abbigliate come quelle che aveva visto poco prima. Pierre ne riconobbe alcune appartenenti alla buona società di Pietroburgo. Al posto presidenziale era seduto un giovane a lui sconosciuto, con una strana croce sul petto. Alla sua destra sedeva l’abate italiano che Pierre aveva incontrato due anni prima in casa di Anna Pavlovna. C’erano anche un altissimo dignitario e un precettore svizzero che un tempo era stato dai Kuragin. Tutti tacevano in modo solenne, ascoltando le parole del presidente che reggeva nelle mani il martello. Nel muro era incastrata una stella fiammeggiante; da una parte della tavola si vedeva un piccolo arazzo con varie figure; dall’altra, una specie di altare con un Vangelo e un teschio. Intorno alla tavola, poi, c’erano sette grandi candelabri simili a quelli delle chiese. Due fratelli condussero Pierre fino all’altare, gli disposero i piedi ad angolo retto e gli ordinarono di coricarsi, dicendo che egli doveva prosternarsi alle soglie del tempio.

«Prima deve ricevere la cazzuola,» sussurrò uno dei fratelli.

«Ah, basta, per piacere,» disse un altro.

Senza obbedire, Pierre si guardò attorno, smarrito, con i suoi occhi da miope. A un tratto lo colse un dubbio:

«Dove sono? Che cosa faccio? Mi stanno forse prendendo in giro?» Ma questo dubbio durò solo un istante. Egli si volse a guardare i volti austeri delle persone che lo circondavano, si ricordò di tutto ciò per cui era passato fino a quel momento, e comprese che non poteva fermarsi a metà strada. Spaventato dal suo stesso dubbio, cercò di risuscitare in sé il sentimento di commozione che aveva provato prima, e si prosternò alle porte del tempio. In effetti quel sentimento di commozione lo assalì con intensità più forte di prima. Quando ormai era a giacere da qualche tempo, gli fu ordinato di alzarsi e gli fecero indossare un grembiule bianco eguale a quello che portavano gli altri; poi gli posero nelle mani una cazzuola e tre paia di guanti, e a questo punto il grande maestro gli rivolse la parola. Gli disse che doveva sforzarsi di non macchiare in alcun modo il biancore di quel grembiule, simbolo della forza e dell’innocenza; poi, a proposito di quell’inspiegabile cazzuola, disse che egli doveva servirsene per purificare il proprio cuore dai vizi e per lisciare con indulgenza il cuore del suo prossimo. Indi, dei primi guanti, di foggia maschile, disse che Pierre ancora non poteva conoscerne il significato, ma doveva tuttavia conservarli; degli altri, pure maschili, dichiarò che avrebbe dovuto indossarli alle adunanze; infine, a proposito dei terzi guanti, femminili, disse:

«Amato fratello, anche questi guanti femminili sono a voi destinati. Consegnateli alla donna che stimerete più di ogni altra. Con questo dono convincerete della purezza del vostro cuore colei che eleggerete a degna compagna nell’ordine dei liberi muratori.» Dopo una breve pausa il gran maestro aggiunse: «Ma procura, amato fratello, che codesti guanti non adornino mani impure.»

Mentre il gran maestro pronunciava queste ultime parole, parve a Pierre che il presidente si turbasse. Pierre si turbò ancor più, si fece rosso fino al limite delle lacrime, come arrossiscono i bambini, e cominciò a guardarsi attorno con aria inquieta.

Ci fu un silenzio imbarazzato, rotto alla fine da uno dei fratelli che, conducendo Pierre presso l’arazzo, cominciò a leggere da un quaderno la spiegazione delle figure che vi apparivano: il sole, la luna, il martello, l’archipendolo, la cazzuola, una pietra grezza, un’altra squadrata a cubo, una colonna, tre finestre eccetera. Poi assegnarono a Pierre il suo posto, gli mostrarono i segni della loggia, gli rivelarono la parola d’ordine per poter entrare, e finalmente gli concessero di sedersi. Il gran maestro prese a leggere lo statuto. Questo statuto era molto lungo e Pierre, per i diversi sentimenti di gioia, di emozione e di vergogna, non era in grado di capire ciò che veniva letto. Pose mente soltanto alle ultime parole dello statuto, che gli restarono impresse nella memoria.

«Nei nostri templi non conosciamo altri ranghi,» leggeva il gran maestro, «se non quelli dati dalla virtù e dal vizio. Guardati dall’operare qualsiasi differenza che possa violare l’eguaglianza. Vola in aiuto del fratello, chiunque egli sia; ammaestra chi sbaglia; risolleva chi cade e non nutrire mai ira o inimicizia contro il fratello. Sii affabile e ospitale.

Desta in tutti i cuori il fuoco della virtù. Condividi la felicità del prossimo tuo e mai l’invidia offuschi questa pura gioia.

Perdona il tuo nemico, non vendicarti di lui se non, forse, facendogli del bene. Adempiendo in tal modo alla legge suprema, tu ritroverai le tracce della grandezza antica da te perduta,» concluse. Poi si alzò in piedi, abbracciò Pierre e lo baciò.

Pierre si guardava attorno con gli occhi colmi di lacrime di gioia e non sapeva con quali parole rispondere alle congratulazioni e alle proteste di antica conoscenza di chi lo circondava. Egli non ammetteva nessuna vecchia conoscenza; in tutte quelle persone ravvisava soltanto dei fratelli coi quali ardeva dall’impazienza di mettersi all’opera.

Il gran maestro batté un colpo di martello; tutti sedettero ai loro posti, e uno lesse un sermone sulla necessità di essere umili.

Il gran maestro propose di adempiere all’ultima formalità, e l’importante dignitario, che aveva la qualifica di elemosiniere, si mise a fare il giro dei fratelli. Pierre avrebbe voluto segnare sulla lista delle elemosine tutti i soldi che possedeva, ma temeva, con ciò, di mostrare orgoglio, cosicché segnò né più né meno quanto avevano segnato gli altri.

La seduta si concluse e, tornando a casa, Pierre ebbe l’impressione di rientrare da chissà quale lungo viaggio, nel quale aveva trascorso decine di anni; era profondamente mutato e si era staccato dal suo precedente modo di vivere e dalle sue abitudini.

V

Il giorno dopo l’ammissione alla loggia Pierre era a casa e leggeva un libro cercando di penetrare il significato del quadrato, che con un lato rappresentava Dio, con un secondo il mondo morale, con un terzo il mondo fisico e con il quarto un mondo commisto. Ogni tanto distoglieva l’attenzione dal libro e dal quadrato e nella sua immaginazione andava delineando un nuovo sistema di vita. Il giorno prima, alla loggia, gli era stato detto che la notizia del duello era giunta alle orecchie dell’imperatore, e che per lui sarebbe stato opportuno allontanarsi da Pietroburgo. Pierre pensava di recarsi nei suoi possedimenti nel sud per occuparsi dei suoi contadini. Stava meditando con gioia su questa nuova vita, quando, del tutto inatteso, entrò nella stanza il principe Vasilij.

«Caro amico, che cos’hai combinato a Mosca? Perché mai hai litigato con Lëlja, mon cher? Tu sei fuori strada,» disse il principe Vasilij entrando nella stanza. «Ho saputo tutto, ti posso dire con certezza che Hélène è innocente al tuo cospetto, come Cristo lo era al cospetto degli ebrei.»

Pierre avrebbe voluto rispondere, ma l’altro gli troncò la parola.

«E perché non ti sei rivolto direttamente e semplicemente a me, che ti sono amico? Io so tutto, e tutto comprendo,» disse, «tu ti sei comportato come si addice a un uomo che ha caro il suo onore; forse troppo precipitosamente, ma non discutiamo di questo. Considera una cosa, tuttavia: in quale posizione poni lei e me agli occhi di tutta la società e persino della corte?» aggiunse abbassando la voce. «Lei è a Mosca, tu sei qui. Ricordati, mio caro,»

e lo afferrò per una mano tirandolo verso il basso, «qui c’è soltanto un equivoco; credo che tu stesso lo intuisca.

Scriviamo una lettera, subito, insieme, e lei verrà, tutto si spiegherà; altrimenti, credimi, è molto probabile che tu abbia a soffrirne, mio caro.»

E il principe Vasilij lanciò a Pierre un’occhiata densa di significati. «So da buone fonti che l’imperatrice madre prende vivo interesse a tutta questa faccenda. Come ben sai ella nutre per Hélène la più viva benevolenza.»

Pierre aveva tentato più volte di parlare, ma se il principe Vasilij non glielo consentiva, lo stesso Pierre aveva paura di pronunciarsi in quel tono di rifiuto netto e di dissenso col quale era fermamente deciso a rispondere al suocero.

Inoltre gli tornavano alla mente le parole dello statuto massonico: «Sii affabile e ospitale.» Si accigliava, arrossiva, si alzava e tornava a sedersi, facendo violenza a se stesso per fare la cosa più difficile della sua vita: dire in faccia a una persona qualcosa che gli riesce sgradito; non dire ciò che questa persona si attende, chiunque essa sia. Era così abituato ad arrendersi al tono di negligente sicurezza del principe Vasilij, che anche adesso sentiva come da quanto avrebbe detto ora o tra un istante dipendesse tutto il suo futuro: se avrebbe ripreso, cioè, la vecchia strada o se si sarebbe avviato per quella nuova che i massoni gli avevano indicata in modo così attraente e lungo la quale era convinto di poter risorgere a nuova vita.

«Ebbene, mio caro,» disse in tono scherzoso il principe Vasilij; «dimmi di sì; da parte mia scriverò a Hélène e ammazzeremo il vitello grasso…»

Ma il principe Vasilij non aveva fatto in tempo a pronunciare del tutto la sua facezia, che Pierre, senza guardare negli occhi il suo interlocutore, il viso atteggiato a una collera che ricordava suo padre, profferì in un bisbiglio:

«Principe, io non vi ho invitato a casa mia. Andatevene, ve ne prego, andatevene!» Balzò in piedi e spalancò la porta. «Andatevene,» ripeté, non credendo a se stesso e rallegrandosi dell’espressione di smarrimento e di paura che era apparsa sul volto del principe Vasilij.

«Ma che ti prende? Ti senti male, forse?»

«Andate!» ripeté ancora una volta Pierre con voce tremante.

E il principe Vasilij dovette andarsene senza aver ottenuto alcuna spiegazione.

Una settimana dopo, congedatosi dai nuovi amici massoni e lasciando somme cospicue per le elemosine, Pierre partì per i suoi possedimenti. I nuovi confratelli gli avevano consegnato lettere per Kiev e per Odessa, indirizzate ai massoni di quelle città, e gli avevano promesso di scrivergli e di guidarlo nella sua nuova attività.

Guerra e Pace
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