PARTE QUARTA
I
Quando un uomo vede morire un animale, ne prova orrore: ciò che lui stesso è, la sua essenza, manifestamente si distrugge sotto i suoi occhi, cessa di esistere. Ma quando a morire è un essere umano, e per di più un essere amato, allora, oltre all’orrore di fronte all’annientamento della vita, si avverte una lacerazione, una ferita spirituale che, allo stesso modo di una ferita fisica, a volte uccide, a volte si rimargina, ma sempre duole e teme ogni irritante contatto coll’esterno.
Dopo la morte del principe Andrej, Nataša e la principessina Mar’ja era proprio questo che sentivano.
Moralmente affrante, serrando gli occhi di fronte alla minacciosa nube della morte che incombeva su di loro, non osavano più guardare in faccia la vita. Badavano a tenere al riparo le ferite ancora aperte dai contatti che le straziavano, che facevano male. Tutto: il rapido passaggio di una carrozza per la strada, l’annuncio del pranzo, la domanda di una cameriera a proposito di un vestito che bisognava preparare, e, peggio ancora, una parola di cordoglio insincera, banale
- tutto irritava dolorosamente la ferita, suonava come un’offesa e rompeva l’indispensabile silenzio in cui entrambe erano tutte tese ad ascoltare quel terribile austero coro che non si era ancora spento nella loro immaginazione; impediva di scrutare nelle misteriose e sconfinate lontananze che per un istante si erano aperte dinanzi a loro.
Soltanto quando erano sole, loro due sole, non sentivano offesa, né dolore. Parlavano poco tra di loro. Se parlavano, era di argomenti insignificanti. E l’una e l’altra evitavano accuratamente ogni minimo accenno al futuro.
Ammettere che potesse esserci un futuro sembrava loro un’offesa alla sua memoria. Con cautela ancora maggiore evitavano nei loro discorsi tutto ciò che poteva avere un rapporto col morto. Avevano l’impressione che ciò che avevano vissuto e sentito non potesse venir espresso a parole, che il rievocare anche un particolare della sua vita distruggesse la grandezza e la santità del mistero che si era compiuto sotto i loro occhi.
Le continue reticenze nel discorso, la continua e vigile cura nell’evitare una parola su di lui, l’arrestarsi in diversi modi sul limite di ciò che non si poteva dire, esponevano in modo più che mai netto e chiaro alla loro immaginazione ciò che sentivano nel profondo.
Ma una pura e assoluta tristezza è altrettanto impossibile di una pura e assoluta gioia. La principessina Mar’ja per la sua condizione di unica, indipendente padrona del proprio destino, di tutrice ed educatrice del nipote, fu la prima ad esser richiamata dalla vita fuori da quel mondo di tristezza in cui era vissuta durante le prime due settimane.
Ricevette delle lettere dai parenti alle quali bisognava rispondere; la stanza assegnata a Nikoluška era umida e il ragazzo cominciò a tossire. Alpatyè arrivò a Jaroslavl’ con i rendiconti degli affari e propose e consigliò di trasferirsi a Mosca nella casa di via Vzdviženka, che era rimasta intatta e richiedeva solo piccole riparazioni. La vita non si fermava, e bisognava vivere. Per quanto duro fosse per la principessina Mar’ja uscire da quel mondo di solitaria contemplazione in cui era vissuta fino ad allora, per quanto le procurasse pena e quasi rimorso abbandonare Nataša, le preoccupazioni della vita richiedevano la sua attenzione ed essa suo malgrado vi si dedicò. Controllò i conti con Alpatyè, si consigliò con Dessalles a proposito del nipotino e diede disposizioni e fece preparativi per trasferirsi a Mosca.
Nataša restava sola; da quando la principessina Mar’ja aveva preso ad occuparsi dei preparativi per la partenza, evitava anche lei.
La principessina Mar’ja aveva proposto alla contessa di portare con sé Nataša a Mosca e il padre e la madre si erano mostrati favorevoli alla proposta, giacché notavano il progressivo indebolirsi delle forze fisiche della figlia e pensavano che un cambiamento di luogo e l’assistenza dei medici di Mosca le avrebbero giovato.
«Io non andrò da nessuna parte,» rispose Nataša quando le fecero questa proposta, «vi prego soltanto di lasciarmi in pace,» soggiunse e subito lasciò la stanza trattenendo a stento le lacrime: lacrime non tanto di dolore, quanto di dispetto e di irritazione.
Da quando si era sentita abbandonata dalla principessina Mar’ja e si sentiva sola nel suo dolore, Nataša trascorreva la maggior parte del tempo sola in camera sua, con le gambe rannicchiate in un angolo del divano, e, lacerando o spiegazzando di continuo qualche cosa con le dita sottili e nervose, fissava con uno sguardo immobile e ostinato il primo oggetto su cui si posavano i suoi occhi. Questa solitudine la estenuava, la faceva soffrire, ma le era indispensabile. Quando qualcuno entrava da lei, si alzava in fretta, cambiava posizione ed espressione degli occhi e prendeva in mano un libro o il cucito, attendendo con visibile impazienza che la persona che l’aveva disturbata se ne andasse.
Provava sempre l’impressione che da un momento all’altro avrebbe compreso, le sarebbe stato rivelato ciò su cui era fisso, in un interrogativo terribile e sproporzionato alle sue forze, il suo sguardo interiore.
Verso la fine di dicembre, magra e pallida, in un abito nero di lana, con la treccia negligentemente legata a crocchia, Nataša sedeva con le gambe rannicchiate in un angolo del divano, spiegazzando e abbandonando nervosamente i capi della cintura con lo sguardo rivolto a un angolo della porta.
Guardava là dov’era andato lui, dall’altra parte della vita. E quell’altra parte della vita, cui prima non pensava mai, che prima le sembrava così lontana, inverosimile, le era ora diventata più vicina, più familiare e più comprensibile di questa parte della vita, dove tutto era vuoto e distruzione o sofferenza e offesa.
Guardava là dove sapeva che lui era; ma non sapeva vederlo altrimenti che come era stato qui. Lo vedeva di nuovo così com’era a Mytišèi, a Troica, a Jaroslavl’.
Eccolo sdraiato in una poltrona con la sua pelliccia foderata di velluto, e il capo appoggiato alla mano magra e bianca. Il suo petto è terribilmente incavato e le spalle rialzate. Le labbra sono rigidamente serrate, gli occhi splendono e sulla pallida fronte appare e poi scompare una ruga. Una gamba gli trema in modo appena percettibile. Nataša sa che egli lotta contro un dolore lancinante. «Che cos’è questo dolore? Perché il dolore? Che cosa sente? Come gli fa male!»
pensa Nataša. Lui ora si è accorto della sua attenzione, alza gli occhi e, senza sorridere, incomincia a parlare.
«C’è una sola cosa tremenda,» dice, «legarsi per sempre a una persona che soffre. È un’eterna tortura.» E la osserva con uno sguardo indagatore. Come sempre, anche questa volta Nataša risponde prima di aver fatto in tempo a riflettere sulla risposta: «Non può continuare così. Non andrà avanti così, voi guarirete completamente.»
Ora rivedeva di nuovo e riviveva tutto ciò che aveva sentito allora. Si ricordò lo sguardo prolungato, triste, severo di lui mentre diceva quelle parole e capì il rimprovero e la disperazione rattenuti in quello sguardo prolungato.
«Io ero stata d’accordo,» si diceva ora Nataša, «che sarebbe stato tremendo se lui fosse rimasto sofferente per sempre. Allora avevo detto così solo perché per lui sarebbe stata una cosa tremenda e lui invece ha capito in un altro modo. Ha pensato che sarebbe stato tremendo per me. Lui, allora, voleva ancora vivere, aveva paura di morire. E io gli ho parlato in modo così brutale, così stupido. Ma non era questo che pensavo. Pensavo tutt’altro. Se gli avessi detto quello che pensavo, avrei detto: non m’importa se resti in agonia, sempre in agonia sotto i miei occhi, ne sarei stata felice in confronto a come mi sento ora. Ora non c’è nulla, non c’è nessuno. Lo sapeva lui questo? No. Non lo sapeva e non lo saprà mai. E ormai non si potrà mai, mai più rimediare.» E di nuovo lui le diceva quelle parole, ma ora, nella sua immaginazione, Nataša gli rispondeva in modo diverso. Lo interrompeva e diceva: «Tremendo per voi, ma non per me.
Sappiate che per me senza di voi non c’è niente nella vita e soffrire con voi per me è la più grande felicità.» E lui le prendeva la mano e gliela stringeva come gliel’aveva stretta quella terribile sera, quattro giorni prima di morire. E, nella sua immaginazione, lei gli diceva altre parole, trepide, amorose, che avrebbe potuto dire anche allora. «Ti amo… amo…
te… ti amo…» diceva, torcendosi convulsamente le mani e stringendo i denti con violenza disperata.
E un pacato dolore l’inondava e già le salivano le lacrime agli occhi, quando d’improvviso si chiedeva: «A chi sto dicendo questo? Dov’è lui e chi è lui ora?» E di nuovo tutto veniva offuscato da un’arida e acuta perplessità e di nuovo, corrugando le sopracciglia, essa scrutava laggiù, là dov’era lui. Ed ecco, le sembrava di essere sul punto di penetrare il mistero… Ma nel momento in cui sembrava che l’incomprensibile cominciasse a svelarsi, il sonoro scatto della maniglia ferì dolorosamente il suo udito. Rapida e senza riguardo, con una faccia spaventata e senza badarle, entrò la cameriera Dunjaša.
«Andate dal babbo, presto,» disse con tono insolito e agitato. «Una disgrazia… Pëtr Il’iè… una lettera…,»
esclamò tra i singhiozzi.