IV
Anna Pavlovna sorrise e promise di occuparsi di Pierre che sapeva parente del principe Vasilij dal lato paterno.
L’anziana signora che fino a quel momento era stata seduta insieme con ma tante, si alzò in fretta e raggiunse il principe Vasilij in anticamera. Dal suo volto era scomparso tutto il falso interessamento che aveva mostrato fino a poco prima. Il suo viso buono e piagnucoloso ora esprimeva solo inquietudine e timore.
«Dunque, cosa mi dite, principe, del mio Boris?» disse, raggiungendolo in anticamera. (Pronunciava il nome Boris con una sua speciale accentazione sulla o.) «Io non posso trattenermi più a lungo a Pietroburgo. Dite, quali notizie posso portare al mio povero ragazzo?»
Sebbene il principe Vasilij ascoltasse svogliatamente e con scarsa deferenza l’anziana signora, e avesse persino palesato segni d’impazienza, lei seguitò a sorridergli in modo implorante; e anzi, lo afferrò per un braccio affinché non se ne andasse.
«Vi costerebbe così poco dire una parola all’imperatore! E lui verrebbe subito trasferito nella Guardia,»
supplicò.
«Credete, farò quanto è in mio potere, principessa,» rispose il principe Vasilij, «ma non mi è facile chiedere favori all’imperatore; vi consiglio piuttosto di rivolgervi a Rumjancev attraverso il principe Golicyn. Mi sembra la cosa migliore.»
L’anziana signora era la principessa Drubeckaja, una delle migliori famiglie di Russia; ma era povera, da molto tempo si era ritirata dalla società e aveva perduto le relazioni di un tempo. Adesso era lì per ottenere che il suo unico figlio venisse trasferito nella Guardia. Si era fatta invitare ed era venuta al ricevimento di Anna Pavlovna al solo scopo di vedere il principe Vasilij; solo per questo era stata lì ad ascoltare la storia del visconte. Alle parole del principe Vasilij si spaventò: il suo viso, un tempo bello, manifestò un palese risentimento, ma non durò che un istante. Sorrise di nuovo e si afferrò con più forza al braccio del principe.
«Ascoltate, principe,» disse, «non vi ho mai chiesto né mai vi chiederò favori; non vi ho mai neppure rammentato l’amicizia di mio padre per voi. Ma ora, in nome di Dio, ve ne scongiuro: fate questo per mio figlio e io vi considererò un benefattore,» aggiunse in fretta. «No, non arrabbiatevi, ma fatemi questa promessa. Ho pregato Golicyn, ma me l’ha negato. Soyez le bon enfant que vous avez été,» mormorò, cercando di sorridere, mentre aveva le lacrime agli occhi.
«Papà, arriveremo in ritardo,» disse Hélène in attesa accanto alla porta, girando appena la sua bella testa sulle spalle statuarie.
Ma, in società, l’influenza è un capitale che occorre risparmiare perché non si consumi. Il principe Vasilij lo sapeva e, considerando che se si fosse messo a chiedere favori per tutti quelli che gliene chiedevano, ben presto non avrebbe più potuto chiederne per sé, di rado faceva ricorso alla propria influenza. Nel caso della principessa Drubeckaja provava tuttavia, dopo quel nuovo appello, una sorta di rimorso di coscienza. Lei gli aveva rammentato la verità: che era debitore al padre di lei dei suoi primi passi nella carriera. Dai suoi modi, inoltre, si rendeva conto che la principessa era una di quelle donne - madri in particolare - che una volta ficcatasi una cosa in testa, non desistono finché i loro desideri non sono stati esauditi, e sono pronte a insistere ogni giorno, ogni minuto, sono disposte perfino a far scenate.
Quest’ultima considerazione lo fece esitare.
« Chère Anna Michajlovna,» disse col suo abituale tono familiare e annoiato. «Per me è quasi impossibile ottenere ciò che vi sta a cuore; ma, per dimostrarvi la mia affezione e come rispetti la memoria del vostro defunto padre, farò l’impossibile: vostro figlio sarà trasferito nella Guardia, eccovi la mia mano. Contenta?»
«Mio caro, siete un vero benefattore! Del resto, altro da voi non mi potevo aspettare; sapevo quanto siete buono.»
Egli fece l’atto di andarsene.
«Aspettate, ancora due parole. Une fois passé aux gardes…,» disse, un po’ confusa, «Voi siete amico di Michajl Ilarionoviè Kutuzov, raccomandategli Boris come aiutante di Stato Maggiore. Allora sarei tranquilla, e allora ormai…»
Il principe Vasilij sorrise.
«Questo non lo posso promettere. Voi sapete come sia assediato Kutuzov da quando è stato nominato comandante in capo. Lui stesso mi ha raccontato che tutte le signore di Mosca hanno stretto una congiura per assegnargli i loro figli come aiutanti.»
«No, promettetemelo, se no non vi lascerò andar via, m’io caro benefattore.»
«Papà,» ripeté la bellissima con lo stesso tono, «arriveremo in ritardo.»
«Ebbene, au revoir, arrivederci. Come vedete…»
«Allora, domani ne parlerete all’imperatore?»
«Domani, senza fallo. Ma per Kutuzov non prometto.»
«No, promettete, promettete, Basile,» supplicò alle sue spalle Anna Michajlovna, con un sorriso da giovane civetta che una volta doveva esserle abituale, ma ora si addiceva ben poco al suo viso appassito.
Evidentemente aveva dimenticato i suoi anni e per abitudine metteva in campo tutti gli antichi artifici femminili. Ma non appena il principe fu uscito, il suo volto assunse di nuovo l’espressione fredda e ipocrita di prima. Si avvicinò al gruppo in mezzo al quale il visconte continuava a raccontare e di nuovo fece finta di ascoltare, aspettando che venisse il momento di andarsene, dato che ormai aveva fatto ciò che doveva fare.
«E cosa ne dite di quest’ultima commedia du sacre de Milan? » diceva Anna Pavlovna. « Et la nouvelle comédie des peuples de Gênes et de Lucques, qui viennent présenter leurs voeux à M. Buonaparte. M. Buonaparte assis sur un trône, et exauçant les voeux des nations! Adorable! Non, mais c’est à en devenir folle! On dirait que le monde entier a perdu la tête.»
Il principe Andrej sogghignò, fissando in volto Anna Pavlovna.
« Dieu me la donne, gare à qui la touche,» disse pronunciando le parole di Bonaparte al momento dell’incoronazione. « On dit qu’il a été très beau en prononçant ces paroles,» aggiunse e ancora una volta ripete le parole in italiano: « Dio me l’ha data, guai a chi la tocca.»
« J’espère enfin,» proseguì Anna Pavlovna, « que ça a été la goutte d’eau qui fera déborder le verre. Les souverains ne peuvènt plus supporter cet homme, qui menace tout.»
« Les souverains? Je ne parle pas de la Russie,» rispose in tono cortese e sfiduciato il visconte. « Les souverains, madame! Qu’ont ils fait pour Louis XVI, pour la reine, pour Madame Elisabeth? Rien,» continuò, animandosi. « Et croyez-moi, ils subissent la punition pour leur trahison de la cause des Bourbons. Les souverains? Ils envoient des ambassadeurs pour complimenter l’usurpateur.»
E con un sospiro di disprezzo cambiò nuovamente posizione. A queste parole il principe Ippolit, che aveva guardato a lungo il visconte con la lorgnette, si volse d’improvviso con tutto il corpo verso la piccola principessina, e dopo averle chiesto un ago, si mise a mostrarle sul tavolo, disegnando con la punta dell’ago, lo stemma dei Condé. Le illustrava lo stemma con estrema compunzione, come se fosse stata la principessina a pregarlo.
« Bâton de gueules, engrêlé de gueules d’azur; maison Condé,» disse.
La principessina ascoltava sorridendo.
«Se Bonaparte resterà ancora per un anno sul trono di Francia,» proseguì il visconte riprendendo il discorso incominciato, con l’aria di chi non ascolta gli altri, ma, in una faccenda che conosce meglio degli altri, segue unicamente il corso dei propri pensieri, «le cose andranno troppo lontano. La società - intendo la buona società francese - verrà annientata per sempre con l’intrigo, la violenza, le proscrizioni, le esecuzioni; e allora…»
Si strinse nelle spalle e allargò le braccia. Pierre avrebbe voluto dir qualcosa: la conversazione lo interessava.
Ma Anna Pavlovna, che gli faceva la guardia, gli tolse la parola.
«L’imperatore Alessandro,» disse con l’accento di mestizia che accompagnava sempre i suoi discorsi sulla famiglia imperiale, «ha dichiarato che lascerà ai francesi stessi di decidere la forma di governo. E io penso non vi sia dubbio che l’intera nazione, liberatasi dall’usurpatore, si getterà nelle braccia del suo legittimo re,» concluse, desiderando di essere amabile col visconte, emigrato nonché realista.
«Di questo è lecito dubitare,» disse il principe Andrej. « Monsieur le vicomte ha tutte le ragioni di credere che le cose si siano spinte già troppo lontano. Io penso che sarà difficile ritornare all’antico.»
«Da quanto ho sentito,» intervenne di nuovo Pierre, facendosi rosso in viso, «quasi tutta la nobiltà è già passata dalla parte di Bonaparte.»
«Questo lo dicono i bonapartisti,» disse il visconte senza guardare Pierre. «Attualmente è difficile stabilire quale sia l’opinione pubblica in Francia.»
« Bonaparte l’a dit,» disse il principe Andrej con un sogghigno. Si vedeva che il visconte non gli piaceva e che, sebbene non lo guardasse, le sue parole erano dirette contro di lui.
« Je leur ai montré le chemin de la gloire,» disse poi dopo un breve silenzio, ripetendo di nuovo le parole di Napoleone, « ils n’en on pas voulu; je leur ai ouvert mes antichambres, il se sont precipités en foule… Je ne sais pas à quel point il a eu le droit de le dire.»
« Aucun,» ribatté il visconte. «Dopo l’uccisione del duca anche i più scalmanati hanno cessato di vedere in lui un eroe. Si même ça a été un héros pour certaines gens,» disse ancora il visconte rivolgendosi ad Anna Pavlovna,
« depuis l’assassinat du duc il y a un martyr de plus dans le ciel, un héros de moins sur la terre.»
Anna Pavlovna e gli altri non avevano ancora fatto in tempo a manifestare con un sorriso il loro apprezzamento per queste parole del visconte, che Pierre irruppe un’altra volta nella conversazione, e Anna Pavlovna non poté fermarlo, sebbene presentisse che avrebbe detto qualcosa di sconveniente.
«L’esecuzione del duca d’Enghien,» disse Pierre, «è stata una necessità di stato, e io vedo della grandezza d’animo proprio nel fatto che Napoleone non abbia temuto d’addossarsi di persona l’intera responsabilità di quell’azione.»
« Dieu! mon Dieu! » mormorò Anna Pavlovna con un bisbiglio atterrito.
« Comment, monsieur Pierre, vous trouvez que l’assassinat est grandeur d’âme? » disse la piccola principessina, sorridendo e tirandosi più accosto il lavoro.
«Ah! Oh!» commentarono varie voci.
« Capital! » disse in inglese il principe Ippolit e cominciò a battersi la palma di una mano su un ginocchio. Il visconte si limitò a stringersi nelle spalle.
Pierre con aria di sfida squadrò gli ascoltatori da sopra i suoi occhiali.
«Dico questo,» proseguì con accanimento, «perché i Borboni sono fuggiti davanti alla rivoluzione, abbandonando il popolo in preda all’anarchia; solo Napoleone ha saputo capire la rivoluzione, domarla, e perciò per il bene generale non poteva fermarsi di fronte alla vita di un uomo.»
«Non vorreste passare a quel tavolo?» disse Anna Pavlovna.
Ma Pierre continuò il suo discorso senza rispondere.
«No,» proseguì, animandosi sempre più, «Napoleone è grande, perché si è posto più in alto della rivoluzione, e di essa ha schiacciato gli abusi conservando il buono: l’eguaglianza dei cittadini, la libertà di parola e di stampa.
Soltanto per questo ha conquistato il potere.»
«Certo. Se, una volta raggiunto il potere, invece di approfittarne per commettere omicidi, l’avesse trasmesso al legittimo re,» disse il visconte, «allora sì l’avrei detto un grand’uomo.»
«Non avrebbe potuto far questo. Il popolo gli aveva dato il potere solo perché lo liberasse dai Borboni e perché in lui riconosceva un grand’uomo. La rivoluzione è stato un evento di immensa portata,» proseguì monsieur Pierre, manifestando con questo inciso disperato e carico di sfida tutta la sua giovinezza, e la smania di metter fuori tutto.
«La rivoluzione e il regicidio un evento di immensa portata? Questo poi… Ma non volete proprio passare all’altro tavolo?» ripeté Anna Pavlovna.
« Contrat social,» disse il visconte con un mite sorriso.
«Io non parlo del regicidio. Parlo delle idee.»
«Sì, le idee di rapina, di omicidio e di regicidio,» interruppe ancora la voce ironica.
«Ci sono stati eccessi, è vero, ma questi non hanno portata decisiva. Quello che conta sono i diritti dell’uomo, l’emancipazione dai pregiudizi, l’uguaglianza dei cittadini; e queste idee Napoleone le ha mantenute in tutta la loro forza.»
«Libertà ed uguaglianza!» esclamò il visconte con disprezzo, come se alla fine si fosse deciso a dimostrare a quel giovanotto la sciocca insensatezza dei suoi discorsi, «tutte parole altisonanti, che da un pezzo ormai sono compromesse. Chi non ama la libertà e l’uguaglianza? Già il nostro Salvatore aveva predicato la libertà e l’eguaglianza.
Forse che, dopo la rivoluzione, la gente è diventata più felice? Al contrario. Noi volevamo la libertà, è stato Bonaparte a distruggerla.»
Il principe Andrej sogguardava: sorridendo ora Pierre, ora il visconte, ora la padrona di casa. In un primo momento, all’uscita di Pierre, Anna Pavlovna, sebbene fosse abituata a vivere in società, si era sentita terrorizzata; ma quando vide che, ad onta di quelle parole sacrileghe, il visconte non aveva perso il suo controllo, si persuase che ormai non era possibile soffocare quei discorsi; così fece ricorso a tutte le sue energie e, alleatasi al visconte, aggredì l’oratore.
« Mais, mon cher monsieur Pierre,» disse, «come ve lo spiegate un grand’uomo capace di giustiziare un duca, o più semplicemente un essere umano, senza processo e senza colpa?»
«E io vorrei domandare a monsieur,» disse il visconte, «come spiega il 18 brumaio. Non è stato forse un inganno? C’est un escamotage, qui ne ressemble nullement à la manière d’agir d’un grand homme.»
«E i prigionieri che ha fatto uccidere in Africa?» disse la piccola principessina. «Che cosa orribile!» E si strinse nelle spalle.
« C’est un roturier, vous aurez beau dire,» disse il principe Ippolit.
Monsieur Pierre non sapeva a chi rispondere; contemplò tutti e sorrise. Il suo sorriso non era come quello degli altri, che si risolveva in un non-sorriso. Al contrario, quando lui sorrideva, istantaneamente quel volto serio e un po’
imbronciato spariva, e ne appariva un altro: infantile, buono, persino un poco vacuo, che sembrava chiedere scusa.
Il visconte, che lo vedeva per la prima volta, comprese subito che quel giacobino era assai meno terribile delle sue idee.
Tutti tacevano.
«Ma come può rispondere a tutti insieme?» disse il principe Andrej. «E poi, nelle azioni di un uomo di stato si devono distinguere le azioni del privato, del condottiero o dell’imperatore. Questo è ciò che io penso.»
«Sì, sì, s’intende,» ribadì Pierre, rallegrandosi dell’aiuto che gli giungeva.
«Non si può non riconoscerlo,» continuò il principe Andrej, «come uomo Napoleone è grande sul ponte d’Arcole, all’ospedale di Giaffa, dove porge la mano agli appestati, ma… ma ci sono altre azioni che non è facile giustificare.»
Il principe Andrej, che palesemente aveva voluto mitigare la goffa sconvenienza delle parole di Pierre, si alzò accingendosi ad andarsene, e fece un cenno alla moglie.
Improvvisamente il principe lppolit si alzò e trattenendo tutti con dei gesti delle mani esclamò:
« Ah! aujourd’hui on m’a raconté une anecdote moscovite, charmante: il faut que je vous en régale. Vous m’excusez, vicomte, il faut que je raconte en russe. Autrement on ne sentira pas le sel de l’histoire.»
E il principe Ippolit incominciò a parlare in russo con l’accento dei francesi che sono da un anno in Russia.
Tutti si fermarono. Aveva sollecitato attenzione alla sua storia con tanta vivacità e pressanza, che tutti s’erano fermati.
«A Moscou c’è una signora, une dame. È molto avara, ma le occorrono due valets de pied per la sua carrozza. E
molto alti di statura. Le piaceva così. E aveva une femme de chambre, di statura ancora più alta. Lei disse…»
A questo punto il principe Ippolit si fece assorto: stentava, evidentemente, a concentrarsi.
«Lei dice… sì, lei dice: “Ragazza ( à la femme de chambre), metti la livrée e vieni con me, dietro la carrozza, a faire des visites.”»
A questo punto il principe Ippolit sbuffò e scoppiò a ridere molto prima dei suoi ascoltatori, cosa che produsse un’impressione poco favorevole per il narratore. Qualcuno però sorrise, e tra questi la vecchia signora e Anna Pavlovna.
«Lei va. D’improvviso viene forte vento. La ragazza perde suo cappello e lunghi capelli si sciolgono…»
A questo punto egli non seppe più contenersi; prese a ridere convulsamente riuscendo, tra uno scoppio di risa e l’altro, a dire:
«E tutto il mondo lo viene a sapere…»
Con questo terminò l’aneddoto. Benché non si capisse perché avesse voluto raccontarlo e perché si dovesse per forza raccontarlo in russo, Anna Pavlovna e altri mostrarono di apprezzare la mondana amabilità del principe Ippolit, che aveva così garbatamente ovviato alla spiacevole e per nulla cortese uscita di monsieur Pierre. Dopo l’aneddoto la conversazione si frantumò in meschine, insignificanti chiacchiere sul prossimo, sull’ultimo ballo a corte, sugli spettacoli a teatro, su quando e come ci si sarebbe riveduti.
V
Dopo aver ringraziato Anna Pavlovna per la sua charmante soirée gli invitati cominciarono a ritirarsi.
Pierre era goffo. Grosso, tarchiato, più alto della media, con enormi mani rosse, non sapeva (come si dice) entrare in un salotto e ancor meno sapeva uscirne: dire, cioè, prima d’andarsene qualcosa di particolarmente piacevole.
Oltre a ciò era distratto. Alzandosi, invece del suo cappello afferrò un tricorno con pennacchio da generale e lo tenne in mano, stropicciando quelle piume, finché un generale non lo pregò di restituirlo. Ma la sua distrazione e la sua inettitudine a entrare in un salotto e a conversarvi erano riscattate in lui da un’espressione di bontà, di semplicità e di modestia. Anna Pavlovna si voltò verso di lui, ed esprimendogli con cristiana mitezza il proprio perdono per la sua uscita, gli fece col capo un cenno di saluto e gli disse:
Spero di vedervi ancora, ma spero altresì che vorrete mutare le vostre opinioni, mio caro monsieur Pierre.»
Egli non rispose; si limitò a fare un inchino, mostrando ancora una volta a tutti quel suo sorriso che non diceva nulla o forse soltanto questo: «Le opinioni sono opinioni, ma potete vedere da voi che bravo e buon ragazzo sono io.» E
tutti, anche Anna Pavlovna, senza volerlo ebbero quell’impressione.
Il principe Andrej uscì in anticamera e, mentre offriva le spalle al servitore che gli porgeva il mantello, ascoltava indifferente il chiacchiericcio tra sua moglie e il principe Ippolit, che era uscito anche lui in anticamera. Il principe Ippolit era in piedi accanto alla graziosa principessa incinta e insistentemente guardava proprio diritto a lei con la lorgnette.
«Andate, Annette, vi raffredderete,» disse la piccola principessina congedandosi da Anna Pavlovna. « C’est arrêté,» aggiunse piano.
Anna Pavlovna era già riuscita a parlare con Lise del fidanzamento che voleva combinare fra Anatol’ e la cognata della piccola principessa.
«Spero in voi, cara amica,» disse piano anche Anna Pavlovna, «le scriverete e mi direte comme le père envisagera la chose. Au revoir.» E uscì dall’anticamera.
Il principe Ippolit si avvicinò alla piccola principessa. Si chinò e accostando il suo viso a quello di lei, prese a dirle qualcosa in una specie di bisbiglio.
Due servitori, della principessina e del principe Ippolit, stavano in piedi aspettando che i due finissero di parlare; tenevano in mano l’uno uno scialle e l’altro una redingote, e ascoltavano quel discorrere in francese per loro incomprensibile con l’aria di chi capisce tutto ma non vuol darlo a vedere. Come sempre la principessina parlava sorridendo e ascoltava ridendo.
«Sono così contento di non esser andato dall’ambasciatore,» diceva il principe Ippolit, «sarebbe stata una tale noia… Magnifica serata. Non è vero che è stata magnifica?»
«Dicono che il ballo sarà molto bello,» rispondeva la principessina, torcendo in su il labbro ombreggiato di peluria. «Ci saranno le più belle donne della società.»
«Non tutte, dal momento che voi non ci sarete; non tutte,» esclamò il principe Ippolit ridendo di cuore; e, preso lo scialle di mano al servitore, e dandogli anzi addirittura uno spintone, si accinse a posarlo sulle spalle della principessina. Fosse per goffaggine o per intenzione (nessuno avrebbe potuto dirlo) per un bel poco non tolse le mani anche quando lo scialle era già posato sulle spalle; e parve quasi abbracciare la giovane donna.
Lei si scansò con un movimento grazioso, ma sempre sorridendo, si volse e gettò un’occhiata al marito. Il principe Andrej teneva gli occhi chiusi: aveva un’aria stanca e assonnata.
«Siete pronta?» domandò alla moglie, guardando oltre.
Il principe Ippolit indossò in fretta la sua redingote, che in conformità alla nuova moda gli arrivava ai piedi, e incespicandovi corse verso l’ingresso, dietro la principessina che il servitore stava aiutando a salire in carrozza.
« Princesse, au revoir,» gridò, imbrogliandosi con la lingua allo stesso modo che con i piedi.
La principessina raccogliendo le falde dell’abito si era seduta nel buio della carrozza; fuori, suo marito si stava accomodando la sciabola. Il principe Ippolit, cercando di rendersi utile, dava impaccio a tutti.
«Permettete, signore,» disse il principe Andrej rivolgendosi in russo con un tono secco e ostile al principe Ippolit, che gli impediva di passare. «Io ti aspetto, Pierre,» aggiunse poi la voce del principe Andrej, divenuta cordiale e affettuosa.
Il cocchiere diede il via e le ruote della carrozza si mossero con gran fracasso. Ritto sugli scalini dell’ingresso il principe Ippolit rideva convulsamente, aspettando il visconte che aveva promesso di accompagnare fino a casa.
« Eh bien, mon cher, votre petite princesse est très bien, très bien,» disse il visconte sedendosi in carrozza con Ippolit. « Mais très bien.» Si baciò la punta delle dita. « Et tout-à-fait française.»
Ippolit sbuffò e scoppiò a ridere.
« Et savez-vous que vous êtes terrible avec votre petit air innocent,» proseguì il visconte. « Je plains le pauvre mari, ce petit officier qui se donne des airs de prince régnant,»
Ippolit sbuffò ancora una volta e borbottò fra scoppi di risa:
« Et vous disiez que les dames russes ne valaient pas les dames françaises. Il faut savoir s’y prendre.»
Arrivato per primo, da persona di casa Pierre entrò nello studio del principe Andrej e subito, come faceva d’abitudine, si sdraiò sul divano, prese il primo libro che gli capitò dallo scaffale (erano i Commentari di Cesare) e, appoggiandosi su un gomito, si mise a leggerlo dalla metà.
«Che cos’hai combinato con M.lle Šerer? Adesso quella si ammalerà sul serio,» disse il principe Andrej entrando nello studio e stropicciandosi le piccole mani bianche.
Pierre si girò con tutto il corpo, tanto che il divano scricchiolò, rivolse il viso pieno d’animazione verso il principe Andrej, sorrise e fece un gesto vago con la mano.
«Quell’abate è davvero interessante; solo che non capisce a fondo il problema… Secondo me una pace perpetua è possibile, ma… non so come dire… non si può farla dipendere dall’equilibrio politico.»
Il principe Andrej evidentemente non mostrava alcun interesse per quei discorsi astratti.
« Mon cher, non si può dire dovunque tutto ciò che si pensa. Ma dimmi: ti sei deciso? Farai l’ufficiale di cavalleria o il diplomatico?» continuò, dopo un momento di silenzio.
Pierre si mise a sedere sul divano, riunendo le gambe.
«Figuratevi che ancora non lo so. Né l’una né l’altra prospettiva mi vanno a genio.»
«Ma bisogna pure che tu prenda una decisione. Tuo padre aspetta.»
A dieci anni Pierre era stato mandato all’estero con un abate, suo istitutore, dove aveva vissuto sino a vent’anni.
Quando era tornato a Mosca, il padre aveva congedato l’abate e aveva detto al giovanotto: «Adesso va a Pietroburgo, guardati intorno e scegli. Per me va bene qualunque cosa. Eccoti dei soldi e una lettera per il principe Vasilij. Tienimi informato di tutto e io ti aiuterò in tutto.» Pierre già da tre mesi si stava scegliendo una carriera e non concludeva nulla.
Di questa scelta appunto gli stava parlando il principe Andrej. Pierre si stropicciò la fronte.
«Dev’essere un massone,» disse, alludendo all’abate che aveva visto alla serata.
«Lasciamo perdere questi discorsi,» lo fermò di nuovo il principe Andrej, «parliamo piuttosto di cose concrete.
Sei stato alla Guardia a cavallo?…»
«No, non ci sono stato, ma mi è venuta in mente una cosa e volevo appunto parlarvene. Ormai è chiaro che ci sarà questa guerra contro Napoleone. Se fosse una guerra per la libertà, capirei, sarei il primo a prestar servizio nell’esercito; ma aiutare l’Inghilterra e l’Austria contro il più grande uomo che ci sia al mondo… no, è una cosa che non va.»
A questi discorsi infantili di Pierre il principe Andrej si limitò a stringersi nelle spalle, come per dire che a simili stupidaggini non si poteva rispondere; ma in effetti era difficile rispondere a quelle ingenue argomentazioni in modo diverso da come rispose il principe Andrej.
«Se tutti andassero in guerra solo in base alle proprie convinzioni, le guerre non ci sarebbero più,» disse.
«E sarebbe una cosa magnifica,» disse Pierre.
Il principe Andrej ebbe un risolino.
«Sì, forse sarebbe una cosa magnifica, ma non si avvererà mai.»
«E voi, allora, perché andate in guerra?» domandò Pierre.
«Perché? Non lo so. Perché bisogna. Inoltre, ci vado…» Egli si fermò. «Ci vado, perché la vita che faccio qui, questa vita, non è fatta per me.»