IX
Fino a quando il principe Andrej non vi si era stabilito, Boguèarovo era sempre stata una proprietà trascurata e i contadini del luogo avevano un carattere del tutto diverso da quello di Lysye Gory. Se ne differenziavano sia per la parlata, sia per il vestire, sia per il temperamento. Li chiamavano i contadini della steppa. Il vecchio principe li lodava per la loro resistenza al lavoro quando venivano a Lysye Gory ad aiutare durante la mietitura, o a scavare stagni e fossati, ma non gli piacevano per la loro selvatichezza.
L’ultimo soggiorno a Boguèarovo del principe Andrej, con le sue innovazioni - ospedali, scuole e riduzione del canone - non avevano mitigato i loro costumi; anzi, avevano accentuato in loro quelle peculiarità caratteriali che il vecchio principe chiamava selvatichezza. Fra costoro avevano sempre avuto corso certe voci confuse, ora di un loro trasferimento in massa tra i cosacchi, ora di una nuova fede alla quale si sarebbero dovuti convertire, ora di certi decreti dello zar, ora di un giuramento a Pavel Petroviè nel 1797 (a proposito del quale si diceva che fin da allora era stata concessa la libertà, ma che poi i signori l’avevano tolta), ora su Pëtr Feodoroviè, che avrebbe dovuto regnare fra sette anni. Sotto il suo regno avrebbe trionfato la libertà completa, e tutto sarebbe stato così semplice, che non ci sarebbe stato più nulla. Le voci sulla guerra, su Bonaparte e sull’invasione si associavano in loro a certe considerazioni non meno confuse sull’Anticristo, sulla fine del mondo e sulla totale libertà.
Nel circondario di Boguèarovo c’erano solo grossi villaggi, in parte demaniali, in parte di proprietari terrieri, o anche soggetti al canone. I proprietari che vivevano sul posto erano ben pochi; come del pari erano pochi i domestici e coloro che sapevano leggere e scrivere; cosicché nella vita dei contadini di quei luoghi avevano maggior rilievo che altrove quelle misteriose correnti della vita popolare russa, le cui cause e il cui significato restano insondabili per i contemporanei. Uno di questi fenomeni era stato il movimento migratorio, manifestatosi una ventina d’anni prima fra i contadini di questa zona, verso chissà quali «fiumi caldi». Di colpo centinaia di contadini, fra i quali anche quelli di Boguèarovo, si erano messi a vendere il loro bestiame e a partire con le famiglie per chissà dove verso il sud-est. Come gli uccelli volano verso luoghi ignoti di là dal mare, quegli uomini con le loro donne e i loro bambini si diressero a sud-est, in territorio ove nessuno di loro era mai stato. Se ne andavano a carovane, oppure si riscattavano individualmente, oppure fuggivano a bordo dei carri o a piedi verso i «fiumi caldi». Molti erano stati puniti, mandati in Siberia; altri morivano di fame e di freddo lungo il percorso, altri ancora tornavano spontaneamente, finché il movimento si estinse da sé, come da sé era cominciato, senza una causa apparente. Ma le correnti sotterranee non avevano cessato di fluire, fra quella moltitudine, ed erano andate preparandosi per qualche nuova manifestazione di energia, che si sarebbe manifestata in modo altrettanto strano, inopinato, e al tempo stesso, semplice, potente e naturale.
Ora, nel 1812, per una persona che vivesse a contatto del popolo era impossibile notare che quelle correnti sotterranee avevano svolto un intenso lavorio ed erano ormai prossime a venire alla luce.
Alpatyè, giunto a Boguèarovo poco tempo prima della morte del vecchio principe, notò che fra il popolo ferveva una certa agitazione e che, al contrario di quanto accadeva nella zona di Lysye Gory, dove in un raggio di sessanta miglia tutti i contadini se ne andavano (abbandonando i loro villaggi al saccheggio dei cosacchi), nella regione della steppa, a Boguèarovo, i contadini, come correva voce, avevano contatti coi francesi, ricevevano certi fogli che si passavano di mano in mano, e non si muovevano dalle loro terre. Da servitori a lui devoti Alpatyè aveva saputo che il contadino Karp, il quale esercitava grande influenza sul mir e in quei giorni era partito con un carriaggio del demanio, aveva fatto ritorno con la notizia che i cosacchi devastavano i villaggi abbandonati dagli abitanti, mentre i francesi non li toccavano nemmeno. Seppe che il giorno prima un altro contadino aveva portato dal villaggio di Vislouchovo - dove c’erano i francesi - un proclama diffuso da un generale francese, nel quale si dichiarava che non sarebbe stato causato alcun danno ai contadini, e che per tutto quanto i francesi avessero prelevato, sarebbero stati compensati, purché rimanessero sul posto. A riprova di ciò, il contadino aveva portato da Vislouchovo cento rubli in banconote (lui non sapeva che erano false) quale anticipo sul fieno.
Infine - ed era la cosa più importante - Alpatyè seppe che lo stesso giorno in cui egli aveva ordinato allo starosta di radunare i carri per allontanare da Boguèarovo il bagaglio della principessina Mar’ja, c’era stata di buon mattino un’adunanza nel villaggio, durante la quale era stato deliberato di non partire e di aspettare. Ma frattanto il tempo stringeva. Il giorno della morte del principe, 15 agosto, il maresciallo della nobiltà aveva insistito presso la principessina Mar’ja affinché partisse quel giorno stesso, poiché la situazione era ormai pericolosa. Trascorso il 16, aveva detto, non avrebbe risposto più di nulla. Il giorno della morte del principe egli era ripartito prima di sera, ma aveva promesso di venire ai funerali l’indomani. Invece il giorno dopo non aveva potuto venire, in base alle notizie da lui stesso ricevute, i francesi erano avanzati inaspettatamente, ed egli aveva avuto appena il tempo di allontanare dalla sua tenuta la famiglia e gli oggetti di valore.
Da trent’anni Boguèarovo era amministrata dallo starosta Dron, che il vecchio principe chiamava Dronuška.
Dron era uno di quei contadini forti fisicamente e moralmente che, non appena raggiungono gli anni della maturità, si lasciano crescere una lunga barba e vivono senza mutare in nulla fino a sessanta, settant’anni, senza un capello bianco, senza perdere un dente, dritti e solidi a sessant’anni come a trenta.
Poco dopo la migrazione verso i «fiumi caldi», alla quale aveva partecipato come tutti gli altri, Dron era stato nominato starosta di Boguèarovo, e da allora per ventitré anni aveva ricoperto questa carica in modo irreprensibile. I contadini temevano più lui del padrone. I signori, sia il vecchio principe, sia il giovane, sia l’amministratore, lo avevano in grande stima e per celia lo chiamavano ministro. Durante tutti gli anni del suo servizio, Dron non era stato una sola volta ubriaco, o malato; mai, né dopo le notti insonni, né dopo qualsiasi fatica, aveva dato segno di stanchezza; e pur non sapendo leggere né scrivere, non aveva mai dimenticato un conto di denaro o di quintali di farina, nonostante gli enormi carichi che ne vendeva, o un solo mannello di grano per ogni ettaro dei campi di Boguèarovo.
Fu appunto questo Dron che Alpatyè, giunto da Lysye Gory devastata, chiamò presso di sé il giorno dei funerali del principe: gli ordinò di preparare dodici cavalli per le carrozze della principessina e diciotto carri per i bagagli che dovevano essere portati via da Boguèarovo. Sebbene i contadini pagassero un canone, l’esecuzione di quest’ordine, secondo Alpatyè, non poteva incontrare difficoltà, perché a Boguèarovo c’erano duecentotrenta famiglie e i contadini erano agiati. Ma lo starosta Dron, dopo aver ascoltato l’ordine, abbassò gli occhi senza parlare. Alpatyè gli fece i nomi dei contadini che conosceva e presso i quali aveva dato ordine di prelevare i carri.
Dron rispose che i cavalli di quei contadini erano fuori per trasporti. Allora Alpatyè menzionò altri contadini; ma anche questi, a detta di Dron, non avevano cavalli, perché alcuni erano impegnati per i carriaggi militari, altri erano vecchi e fiacchi, altri ancora erano morti per mancanza di foraggio. Secondo Dron non era possibile radunare cavalli a sufficienza, non solo per il trasporto dei bagagli, ma nemmeno per le carrozze.
Alpatyè fissò Dron attentamente e si accigliò. Come Dron era un esemplare starosta contadino, così Alpatyè a buon diritto amministrava da trent’anni i possedimenti del principe ed era un fattore efficientissimo. Egli era al più alto grado capace di intuire con un fiuto eccezionale i bisogni e gli istinti del popolo col quale aveva a che vedere: per questo era un amministratore di prim’ordine. Diede quell’occhiata a Dron e comprese all’istante che le risposte di quest’ultimo non riflettevano il suo pensiero, ma si richiamavano a quel generale stato d’animo del mir di Boguèarovo da cui lo starosta era stato ormai sopraffatto. Ma nello stesso tempo sapeva che Dron, il quale si era arricchito ed era avversato dalla comunità, doveva tentennare fra i due campi opposti: quello dei signori e quello dei contadini. Notò quest’esitazione nel suo sguardo onde, aggrottando la fronte, Alpatyè s’avanzò di un passo verso Dron.
«Senti, Dranuška!» disse. «Non raccontarmi frottole. Sua Eccellenza il principe Andrej Nikolaiè mi ha ordinato personalmente di far sgomberare l’intera comunità e di non restare col nemico; in proposito c’è anche un decreto dello zar. E chi resta, è un traditore dello zar. Mi hai sentito?»
«Vi sento,» rispose Dron senza alzare gli occhi.
Ma Alpatyè non si accontentava di questa risposta.
«Bada, Dron, che andrà a finir male,» gli disse scuotendo il capo.
«Come vorrete voi!» disse Dron tristemente.
«Ehi, Dron, smettila!» ripete Alpatyè levando la mano di tasca e indicando con un gesto solenne il pavimento sotto i piedi di Dron. «Io ti leggo dentro; anzi vedo per tre spanne sotto di te,» continuò, scrutando il pavimento sotto i piedi di Dron.
Dron si turbò, gettò ad Alpatyè un’occhiata sfuggente e tornò a chinare gli occhi.
«Tu lascia perdere le fandonie e dì alla gente che si prepari ad abbandonare le case e a partire per Mosca. E che preparino le carrette per i bagagli della principessa. Devono essere pronte domattina. Tu, però, all’adunanza non ci andare. Capito?»
Dron gli cadde d’improvviso ai piedi.
«Jakov Alpatyè, licenziami! Prenditi le chiavi, licenziami, per amore di Cristo!»
«Smettila!» gridò Alpatyè adirato. «Vedo per tre spanne sotto di te,» disse ancora una volta, sapendo che la sua arte nell’accudire alle api, la sua conoscenza di quando si dovesse seminare l’avena e il fatto di aver saputo accontentare per vent’anni il vecchio principe da tempo gli avevano procacciato la fama di stregone, e che la facoltà di vedere per tre spanne sotto una persona veniva appunto attribuita a costoro.
Dron si alzò e avrebbe voluto dir qualcosa, ma Alpatyè lo interruppe:
«Che cosa vi siete messi in testa? Eh?… Che cosa nascondete?»
«Che posso fare, io, col popolo?» disse Dron. «È tutto sottosopra. Io dico loro le stesse cose…»
«È quel che dico anch’io,» fece Alpatyè. «Bevono?» domandò brevemente.
«È tutto in rivolta, Jakov Alpatyè; hanno fatto portare un altro barile.»
«Allora ascolta. Io andrò dal capo della polizia e tu informa la gente che la smettano. E che i carri saltino fuori!»
«Sissignore,» rispose Dron.
Jakov Alpatyè non insistette oltre. Da molto tempo trattava col popolo e sapeva che il miglior modo per farlo obbedire sta nel non manifestare il minimo dubbio che possano non obbedire. Ottenuto da Dron quel docile
«sissignore», Alpatyè se ne accontentò, sebbene non soltanto dubitasse, ma fosse quasi sicuro che i carri non sarebbero stati forniti senza l’appoggio del comando militare.
E in effetti, la sera i carri non erano pronti. Davanti all’osteria del villaggio si era radunata una nuova assemblea, nel corso della quale era stato deliberato di far fuggire i cavalli nella foresta e di non concedere i carri. Senza dir nulla di questo alla principessina, Alpatyè diede ordine di scaricare i propri bagagli dai cavalli venuti da Lysye Gory e di prepararli per la carrozza della principessina; quindi si recò dalle autorità.
X
Dopo i funerali del padre, la principessina Mar’ja si chiuse nella sua stanza e non fece entrare nessuno. Alla porta si avvicinò la cameriera e disse che Alpatyè era venuto a chiedere disposizioni per la partenza. (Questo avveniva prima del colloquio di Alpatyè con Dron.) La principessina Mar’ja si sollevò appena dal divano sul quale stava sdraiata e attraverso la porta chiusa disse che non sarebbe partita; pregava soltanto di esser lasciata in pace.
Le finestre della stanza in cui la principessina era coricata, guardavano a ovest. Lei era adagiata sul divano, il viso rivolto alla parete; rigirava con le dita i bottoni del cuscino di cuoio, e non vedeva altro che quel cuscino, mentre la sua mente confusa le si concentrava su un unico pensiero: pensava all’irrevocabilità della morte, alla bassezza, finora ignorata, della propria anima, manifestatasi durante la malattia del padre. Avrebbe voluto pregare, ma non osava, non osava rivolgersi a Dio nello stato d’animo in cui versava. Rimase a lungo sdraiata in quella posizione.
Il sole era girato dalla parte opposta della casa, e gli obliqui raggi del tramonto illuminavano la camera e una parte del cuscino di marocchino sul quale era fisso lo sguardo della principessina Mar’ja. A un tratto il corso dei suoi pensieri si arrestò. Inconsciamente si sollevò, mettendosi a sedere; si accomodò i capelli, si alzò e andò alla finestra, involontariamente aspirando la frescura di quella serata limpida ma ventosa.
«Sì, adesso puoi goderti con tuo comodo la serata! Lui ormai non c’è più e nessuno ti disturba,» disse a se stessa; e abbandonandosi su una sedia, reclinò il capo sul davanzale.
Qualcuno con voce tenera e sommessa la chiamò dalla parte del giardino, e le posò un bacio sui capelli. Alzò gli occhi. Era m.lle Bourienne in abito nero e pleureuses. Costei si era avvicinata silenziosamente alla principessina Mar’ja, l’aveva baciata con un sospiro e era scoppiata in lacrime. La principessina Mar’ja si volse a guardarla. Risalirono alla sua mente gli antichi contrasti; la gelosia per lei; e del pari si sovvenne che lui, negli ultimi tempi, era assai mutato nei riguardi di m.lle Bourienne, tanto che non la poteva più soffrire. Dunque erano ingiusti i rimproveri che lei le aveva mosso in cuor suo. «Proprio io, proprio io che ho desiderato la sua morte, sarei quella che osa giudicare gli altri!»
pensò.
Alla mente della principessina Mar’ja si delineò nel modo più vivo la situazione di m.lle Bourienne, che negli ultimi tempi lei aveva allontanata dalla propria compagnia, ma al tempo stesso dipendeva da lei e viveva in casa di estranei. Provò per lei un moto di pietà. La guardò con espressione mite e interrogativa e le tese la mano. Subito m.lle Bourienne ricominciò a piangere, a baciarle la mano e a parlare del dolore da cui era stata colpita, rendendosi partecipe di questo dolore. Disse che l’unica consolazione al suo dolore era il fatto che la principessina le avesse permesso di condividerlo con lei. E aggiunse che tutti i precedenti malintesi dovevano cessare di esistere di fronte a tanto dolore; che lei si sentiva pura al cospetto di tutti e che lui di lassù certamente vedeva il suo amore e la sua gratitudine. La principessina l’ascoltava senza comprendere le sue parole, ma ogni tanto la guardava e porgeva istintivamente l’orecchio al suono di quella voce.
«La vostra situazione è doppiamente crudele, cara principessina,» disse m.lle Bourienne dopo un breve silenzio. «Io capisco che voi non abbiate potuto e non possiate pensare a voi stessa; ma io, dato l’affetto che mi lega a voi, sono autorizzata a farlo… Alpatyè è venuto da voi? Vi ha parlato della partenza?» domandò.
La principessina Mar’ja non rispose. Non capiva chi dovesse partire, e per dove. «Si può forse intraprendere qualcosa, pensare a qualcosa, adesso? Non è forse tutto senza importanza, ormai.?» E non rispondeva.
«Saprete certo, chère Marie,» disse m.lle Bourienne, «saprete certo che noi siamo in grave pericolo, che siamo circondati dai francesi. Adesso partire è pericoloso. Se ci mettessimo in viaggio, quasi di certo cadremmo prigioniere e Dio sa…»
La principessina Mar’ja guardò la sua amica senza capire che cosa dicesse.
«Ah, se qualcuno sapesse come tutto ormai mi è indifferente,» disse. «Si capisce, non vorrei allontanarmi da lui per nessuna ragione al mondo … Alpatyè mi ha detto qualcosa a proposito di partenza … Parlate voi con lui; io non posso, non voglio assolutamente… non posso…»
«Ho già parlato un poco con Alpatyè. Lui spera che si riesca a partire domani, ma io credo che ormai sarebbe meglio restare,» disse m.lle Bourienne. «Perché, convenitene, chère Marie, cadere a mezza strada nelle mani dei soldati o dei contadini in rivolta lungo la strada sarebbe spaventoso!» M.lle Bourienne tolse dal ridicule un proclama del generale francese Rameau (stampato su una carta insolita che non era certo russa) nel quale si diceva che gli abitanti non dovevano abbandonare le loro case, che le autorità francesi avrebbero garantito loro la dovuta protezione; e lo porse alla principessina.
«Io credo che la cosa migliore sarebbe di rivolgerci a questo generale,» disse m.lle Bourienne, «e sono sicura che vi sarà usato il dovuto rispetto.»
La principessina Mar’ja lesse il testo del proclama e singhiozzi senza lacrime le contrassero il viso.
«Da chi ci è giunto questo foglio?» domandò.
«Probabilmente hanno saputo che io sono francese… dal nome,» rispose arrossendo m.lle Bourienne.
La principessina Mar’ja, con quel foglio fra le mani si scostò dalla finestra. Pallida in viso, uscì dalla stanza ed entrò nello studio del principe Andrej.
«Dunjaša, chiamatemi Alpatyè, Dronuška, qualcuno,» esclamò, «e dite ad Amal’ja Karlovna che non entri da me,» soggiunse, udendo la voce di m.lle Bourienne.
«Partire subito! Partire al più presto!» si diceva la principessina Mar’ja, inorridendo al pensiero di poter cadere nelle mani dei francesi. «Se il principe Andrej fosse venuto a sapere che lei era in balia dei francesi; che lei, la figlia del principe Nikolaj Andrei? Bolkonskij, aveva chiesto al signor generale Rameau di concederle protezione e aveva approfittato di tanta benevolenza!» Quest’idea la terrorizzava, la faceva sussultare e arrossire, suscitando in lei accessi d’ira e di orgoglio che non aveva mai provato. Vivamente le apparve tutto ciò che c’era nella sua situazione non solo di penoso, ma, soprattutto, di offensivo. «Loro, i francesi, si stabiliranno in questa casa; il signor generale Rameau occuperà lo studio del principe Andrej; e per divertimento si metterà a sfogliare e a leggere le sue lettere e le sue carte.
M.lle Bourienne lui fera les honneurs de Boguèarovo. A me daranno una stanza per misericordia; i soldati profaneranno la tomba ancora fresca di mio padre per asportarne le croci e le stelle; mi racconteranno delle loro vittorie sui russi, esprimeranno ipocritamente la loro partecipazione al mio dolore…» pensava la principessina Mar’ja formulando idee che non erano proprie, ma sentendosi obbligata a far suoi i pensieri di suo padre e di suo fratello. Per lei, personalmente, non aveva importanza fermarsi qui o là, muoversi nell’una o nell’altra direzione; ma nello stesso tempo si sentiva la rappresentante del padre scomparso e del principe Andrej. Che cosa avrebbero detto, che cosa avrebbero fatto in quel momento? ecco cosa anche lei sentiva necessario fare. Andò nello studio del principe Andrej, e cercando di compenetrarsi nelle idee del fratello, meditò sulla propria situazione.
Le esigenze della vita, che aveva creduto annientate con la morte di suo padre, si presentarono a un tratto alla principessina Mar’ja, con una nuova e ancor sconosciuta energia e la investirono tutta.
Sconvolta, accesa in viso, camminava per la stanza, facendo chiamare ora Alpatyè, ora Michail Ivanoviè, ora Tichon, ora Dron. Dunjaša, la njanja e tutte le ragazze non potevano dirle in qual misura fosse esatto tutto ciò che aveva detto m.lle Bourienne. Alpatyè non era a casa: era andato al comando militare. Michail Ivanyè, l’architetto, a sua volta convocato, si presentò dalla principessina Mar’ja con gli occhi assonnati, ma non seppe dir nulla di preciso. Alle domande di lei rispose col sorriso di consenso col quale da quindici anni era abituato a rispondere alle domande del vecchio principe, senza esprimere la propria opinione; sicché dalle sue risposte non era possibile arrivare a conclusioni definite. Il terzo chiamato, il vecchio cameriere Tichon, con un volto pallido e alterato che recava l’impronta di un inguaribile dolore, rispondeva «sissignora» a tutte le domande della principessina, e al solo guardarla si tratteneva a stento dal singhiozzare.
Finalmente entrò nella stanza lo starosta Dron. Fece un profondo inchino alla principessina Mar’ja e si fermò presso lo stipite della porta.
La principessina attraversò la stanza e si fermò di fronte a lui.
«Dronuška,» disse, riconoscendo in lui un amico fidato, quello stesso Dronuška che dal suo viaggio annuale alla fiera di Vjaz’ma, ogni volta le portava e le porgeva con un sorriso uno specialissimo panpepato. «Dronuška, adesso, dopo la nostra sventura che ci ha colpiti…» aveva preso a dire; poi tacque, non avendo la forza di proseguire.
«Siamo tutti nelle mani di Dio,» disse lui con un sospiro.
Tacquero entrambi.
«Dronuška, Alpatyè è fuori, non so dove sia andato, ed io non ho nessuno a cui rivolgermi. È vero quello che mi dicono, che non posso più partire?»
«Perché non potresti partire, Eccellenza? partire si può…» disse Dron.
«Mi hanno detto che sarebbe pericoloso perché il nemico ormai è vicino. Io, mio caro, non posso far nulla, non capisco nulla, non ho nessuno al mio fianco. Ma voglio assolutamente partire stanotte o domattina presto.»
Dron taceva e guardava di sotto in su la principessina Mar’ja.
«Non ci sono cavalli,» rispose Dron, «l’ho detto anche a Jakov Alpatyè.»
«Come mai non ce ne sono?» disse la principessina.
«Tutto a causa di questo castigo di Dio. I cavalli che c’erano li hanno requisiti per l’esercito; gli altri sono morti. È un’annata così. Altro che dar da mangiare ai cavalli, c’è da pensare noialtri a non morire di fame! C’è gente che passa perfino tre giorni senza mangiare. Non c’è più niente, ci hanno ridotti alla miseria.»
La principessina Mar’ja ascoltava attentamente le parole dell’uomo.
«I contadini, dunque, sono ridotti così male? Non hanno più grano?» domandò.
«Muoiono di fame,» rispose Dron, «altro che procurare i carri…»
«Ma tu perché non l’hai detto, Dronuška? Non c’è modo di aiutarli? Io sono pronta a fare tutto quello che posso…»
Riusciva strano alla principessina Mar’ja, capacitarsi che in un momento simile, quando tanto dolore colmava la sua anima, potesse esserci gente ricca e gente povera, e che i ricchi non potessero soccorrere i poveri. Confusamente sapeva, e aveva sentito dire, che esisteva il grano dei padroni e che talvolta veniva distribuito ai contadini; sapeva altresì che né suo padre né suo fratello avrebbero mai negato alcunché ai contadini in caso di bisogno. Temeva soltanto di commettere un errore nel formulare l’ordine di quella distribuzione di grano ai contadini, pur volendolo mettere a loro disposizione. Era contenta, peraltro, di quest’occasione che le veniva offerta, di occuparsi di qualcosa che la distogliesse dal suo dolore, senza doversene vergognare. Chiese dunque a Dronuška quali fossero le esatte necessità dei contadini e a quanto ammontasse il grano padronale a Boguèarovo.
«Noi qui abbiamo del grano padronale, della parte di mio fratello, vero?» domandò.
«Il grano dei padroni è ancora intatto,» disse con orgoglio Dron, «il nostro principe non aveva dato ordine di venderlo.»
«Distribuiscilo ai contadini, dà pure tutto quello che è necessario: ti autorizzo a nome di mio fratello,» disse la principessina Mar’ja.
Dron non rispose e trasse un profondo sospiro.
«Distribuisci loro questo grano, se è abbastanza per tutti. Distribuiscilo tutto. Te lo ordino in nome di mio fratello: spiega che quanto è nostro è anche loro. Digli così, hai capito?»
Dron fissava la principessina mentre lei parlava.
«Licenziami, matuška, per amor di Dio! Ordina che si prendano le mie chiavi,» esclamò. «Ho servito ventitrè anni, non mi sono mai comportato male. Licenziami, per amor di Dio.»
La principessina Mar’ja non capiva che cosa quest’uomo volesse da lei e perché la supplicasse di licenziarlo.
Gli rispose che non aveva mai dubitato della sua devozione e che era pronta a fare qualunque cosa per aiutare lui e i contadini.