IX

 

Il principe Andrej giunse sul finire del giorno al quartier generale del fronte occidentale. Le truppe della prima armata, presso le quali si trovava l’imperatore, erano disposte nel campo fortificato di Drissa; le truppe della seconda armata stavano ritirandosi col proposito di ricongiungersi alla prima armata, dalla quale (a quanto si diceva) erano state tagliate fuori a opera di ingenti forze francesi. Tutti erano scontenti dell’andamento generale delle operazioni militari condotte dall’esercito russo, ma nessuno pensava nemmeno lontanamente al pericolo di un’invasione delle province dell’impero né osava supporre che la guerra potesse venir portata oltre le province della Polonia occidentale.

Sulla sponda della Drissa il principe Andrej trovò, Barclay de Tolly, presso il quale era stato destinato.

Siccome nelle vicinanze del campo non c’erano grossi centri abitati e nemmeno paesi, la moltitudine di generali e cortigiani al seguito dell’armata era dislocata in un raggio di dieci verste intorno, nelle migliori case dei villaggi, sulle due sponde del fiume. Barclay si era stabilito a quattro verste di distanza dall’imperatore. Egli accolse Bolkonskij con freddezza compassata. Disse, nel suo accento tedesco, che avrebbe parlato di lui al sovrano perché fosse definita la sua destinazione. Per il momento lo pregava di trattenersi presso il suo Stato Maggiore. Anatol’ Kuragin, che il principe Andrej aveva sperato di trovare al fronte era invece a Pietroburgo e questa notizia lo allietò. L’interesse per quello che era il fulcro di un immenso evento bellico assorbì totalmente il principe Andrej, che fu contento di accantonare l’ira che suscitava in lui il ricordo di Kuragin. Durante i primi quattro giorni, nel corso dei quali non fu richiesto da nessuno, egli visitò tutto il campo fortificato, e con l’ausilio delle sue cognizioni e degli scambi di vedute con uomini che se ne intendevano, si sforzò di farsene un’idea compiuta. Ma il problema dell’utilità o inutilità di quel campo, per il principe Andrej rimase irrisolto. La sua esperienza militare già lo aveva convinto che in guerra i piani più meditati non significano nulla (lo aveva constatato durante la campagna di Austerlitz), ma che tutto dipende dal modo di reagire alle azioni inaspettate e imprevedibili del nemico; che tutto dipende da chi e da come viene guidata l’impresa. Per chiarire a se stesso quest’ultimo interrogativo, il principe Andrej, valendosi della sua posizione e delle sue conoscenze, si sforzò di capire quali fossero le peculiarità delle alte sfere dell’esercito, delle persone e dei partiti che le componevano e ne trasse il seguente punto di vista sulla situazione.

Fin da quando l’imperatore si trovava a Vilno, l’esercito era stato suddiviso in tre parti: la prima armata al comando di Barclay de Tolly, la seconda armata, al comando di Bagration, e la terza armata, al comando del generale Tormasov. L’imperatore risiedeva presso la prima armata, ma non in qualità di comandante in capo. Nei proclami non era stato detto che l’imperatore avrebbe assunto il comando delle truppe, ma soltanto che si sarebbe trovato di persona presso l’armata. Inoltre, il sovrano non aveva in proprio uno Stato Maggiore da comandare in capo, ma solo lo Stato Maggiore del quartier generale imperiale. In qualità di comandante di questo Stato Maggiore imperiale, egli aveva presso di sé il maresciallo degli alloggiamenti principe Volkonskij; oltre a generali, aiutanti di campo, funzionari diplomatici e un gran numero di stranieri; ma non uno Stato Maggiore di ufficiali effettivi. Inoltre si trovavano al seguito dell’imperatore innumerevoli personaggi senza precise mansioni: Arakèeev, ex ministro della guerra; il conte Bennigsen, il più anziano per grado dei generali; il granduca ereditario Konstantin Pavloviè; il cancelliere conte Rumjanèev; Stein, ex ministro di Prussia; Armfelt, generale svedese; Pfühl, principale ideatore del piano della campagna in corso; il generale aiutante Paolucci, l’«emigrato sardo»; il generale Wohlzogen e molti altri. Sebbene costoro si trovassero di stanza presso l’esercito senza incarichi militari definiti, per la loro posizione prestigiosa esercitavano nondimeno un’influenza sensibile, e spesso accadeva che un comandante di divisione, o perfino un comandante d’armata non sapessero a che titolo Bennigsen, il gran duca Arakèeev e il principe Volkonskij chiedessero precisazioni o fornissero suggerimenti; né sapevano se certo ordine, dato sotto forma di consiglio, venisse direttamente da costoro oppure dal sovrano, o se occorresse o non occorresse eseguirlo. Ma questa era la cornice esteriore; quale fosse il senso sostanziale della presenza dell’imperatore e di tutte quelle persone, dal punto di vista della Corte (e alla presenza del sovrano tutti diventavano cortigiani) era a tutti perfettamente chiaro. Era il seguente: l’imperatore non si era assunto il titolo di comandante supremo, ma di fatto aveva ai suoi ordini tutte le armate; e le persone che lo circondavano erano suoi collaboratori diretti. Arakèeev era un fedele esecutore, tutore dell’ordine e guardia del corpo dell’imperatore; Bennigsen era un latifondista della provincia di Vilno, che in un certo senso faceva les honneurs della zona e in sostanza era un bravo generale, utile sia per averne un consiglio, sia per averlo sempre pronto a sostituire Barclay. Il granduca era presente perché l’imperatore Alessandro apprezzava altamente le sue qualità personali. Armfelt perché gli tornava comodo. Quanto all’ex ministro Stein, poteva sempre tornare utile per un consiglio; inoltre odiava Napoleone ed era un ufficiale molto sicuro di sé, cosa che faceva sempre effetto ad Alessandro. Paolucci giustificava la sua presenza con l’ardimento e i suoi discorsi decisi. Gli aiutanti generali stavano lì per il semplice fatto che ovunque fosse il sovrano essi non potevano mancare. E infine Pfühl era sul posto perché, avendo ideato il piano di guerra contro Napoleone costringendo Alessandro a credere alla razionalità del suo elaborato strategico, dirigeva in pratica l’intero andamento del conflitto. Presso Pfühl c’era Wohlzogen, che s’adoperava a illustrare il pensiero di Pfühl in forma più accessibile di quanto lo stesso Pfühl riuscisse a fare, da quel teorico da tavolino che era, aspro e pieno di sé al punto da disprezzare il mondo intero.

Oltre alle sunnominate persone, russe e straniere (specie straniere, che con la disinvoltura degli uomini che agiscono in un ambiente estraneo al proprio proponevano ogni giorno nuove idee inaspettate), c’erano innumerevoli altri personaggi secondari, i quali erano al seguito dell’esercito per il semplice fatto che ivi si trovavano le persone di primo piano. Nel complesso dei vari pensieri e delle voci che circolavano in quell’immenso, irrequieto, brillante e vanesio mondo, il principe Andrej intravedeva le seguenti e più nette suddivisioni di correnti e di partiti.

Il primo partito era quello di Pfühl e dei suoi accoliti (i teorici della guerra) i quali credevano che esistesse una scienza della guerra e che tale scienza fosse governata da leggi inappellabili, leggi dei finti movimenti, dell’aggiramento e così via. Pfühl e i suoi seguaci esigevano la ritirata all’interno del paese: una ritirata soggetta a leggi precise, imposte da una presunta teoria strategica, e in qualsivoglia tentativo di scostarsi da questa teoria vedevano solo barbarie, ignoranza o basse intenzioni. A questo partito appartenevano i principi regnanti di Germania, Wohlzogen, Wintzingerode e altri, tutti o quasi tedeschi.

Il secondo partito si contrapponeva al primo. Come sempre accade, di contro a un estremo si collocavano i rappresentanti dell’altro estremo. Gli appartenenti a questo partito erano le stesse persone che fin da Vilno esigevano che si avanzasse verso la Polonia sgombrando il campo da ogni piano elaborato in precedenza. Oltre a essere fautori di azioni audaci, i membri di questo partito erano anche sostenitori del principio di nazionalità, ragion per cui diventavano, in sede di discussione, ancor più unilaterali. Costoro erano tutti russi: Bagration, il generale Ermolov, che cominciava a mettersi in luce, e altri. In quell’epoca aveva larga diffusione un motto scherzoso di Ermolov, il quale avrebbe chiesto all’imperatore una sola grazia: quella di venire promosso tedesco. Chi era di questo partito, richiamandosi a Suvorov, sosteneva che non bisognava perdersi in elucubrazioni e sprecare il tempo appuntando spilli sulla carta geografica, ma battersi, sconfiggere il nemico, non lasciarlo entrare in Russia e non permettere che il morale delle truppe si deteriorasse.

Al terzo partito, nel quale l’imperatore riponeva maggior fiducia, appartenevano gli esponenti della corte impegnati a elaborare transazioni fra le due correnti opposte. Gli addetti di questo partito, in prevalenza estranei ai clan militari e tra i quali figurava Arakèeev, pensavano e proclamavano ciò che dicono, in genere, le persone che non hanno convinzioni proprie ma non vogliono lasciarlo capire. Dicevano, dunque, che senza dubbio la guerra, specie poi combattuta contro un genio militare come Buonaparte (lo chiamavano di nuovo Buonaparte), richiedeva profonda meditazione, e una perfetta padronanza della scienza strategica. E che in questo campo Pfühl era geniale, ma che al tempo stesso non si poteva non riconoscere che sovente i teorici sono unilaterali e perciò non bisognava fidarsi ciecamente di loro, che al contrario occorreva dare ascolto anche a ciò che dicevano gli avversari di Pfühl e a quel che sostenevano gli uomini pratici, gli esperti dei problemi di guerra e adottare la via di mezzo. Gli uomini di questo partito insistevano perché si mantenesse il campo della Drissa in conformità al piano di Pfühl, ma si mutassero i movimenti delle altre armate. E sebbene le suddette operazioni non portassero al raggiungimento dell’uno o dell’altro scopo, agli uomini di questo partito questa pareva la mossa più opportuna.

La quarta tendenza aveva come esponente principale il granduca ereditario, il quale non poteva dimenticare la delusione di Austerlitz, quando si era portato in testa alla guardia in casco e giubbetto, come a una rivista militare, convinto di schiacciare i francesi, e trovatosi inopinatamente in prima linea, a fatica ne era sfuggito tra la confusione generale. Nel loro modo di vedere le cose gli uomini di questo partito rivelavano le virtù e i difetti della sincerità. Essi temevano Napoleone: vedevano in lui la forza e in noi la debolezza, e lo ammettevano senza riserve: «Da tutto questo»

dicevano, «non verrà che dolore, vergogna e rovina! Ecco, abbiamo abbandonato Vilno, abbiamo abbandonato Vitebsk, abbandoneremo anche il campo fortificato della Drissa. L’unica cosa ragionevole che ci rimanga da fare è di stipulare la pace, e al più presto, prima che ci caccino anche da Pietroburgo!»

Quest’opinione, largamente diffusa nelle alte sfere dell’esercito, trovava consensi anche a Pietroburgo e presso il cancelliere Rumjanèev il quale per altre ragioni era del pari incline a concludere la pace.

Il quinto partito era quello dei fautori di Barclay de Tolly, non tanto come uomo quanto come ministro della guerra e comandante in capo. Costoro dicevano: «Checché se ne dica (esordivano sempre così), si tratta di un uomo onesto e fattivo; nessuno è meglio di lui. Dategli poteri effettivi, perché le sorti della guerra non possono esser liete senza l’unità di comando; e allora vedrete ciò che sa fare, lo dimostrerà come lo ha già dimostrato in Finlandia. Se il nostro esercito è forte e in piena efficienza, e si è ritirato fino alla Drissa senza aver subito alcuna sconfitta, lo dobbiamo soltanto a Barclay. Se ora Barclay venisse sostituito da Bennigsen, tutto sarebbe perduto, perché fin dal 1807 Bennigsen ha dato prova della propria incapacità.» Così dicevano i seguaci di questo quinto partito.

Il sesto partito, quello degli estimatori di Bennigsen, affermava al contrario che nessuno era più fattivo ed esperto di Bennigsen; che, per un verso o per un altro, ci si sarebbe fatalmente orientati sul suo nome. Gli esponenti di questo partito asserivano che la nostra ritirata fino alla Drissa non era altro che una sconfitta ignominosa, conseguenza di una serie ininterrotta di sbagli. «Quanti più sbagli faranno,» andavano ripetendo costoro, «tanto, meglio sarà: se non altro capiranno che così non si può andare avanti… Qui non basta un Barclay qualunque: ci vuole un uomo come Bennigsen, che si è già fatto valere nel 1807 e al quale lo stesso Napoleone ha reso giustizia: occorre un uomo al quale si riconosca volentieri l’autorità suprema ma l’unico uomo di questo stampo è Bennigsen.»

Il settimo partito era costituito da persone come ce ne sono sempre, specie intorno ai giovani sovrani; e in particolare abbondavano nell’entourage dell’imperatore Alessandro: generali e aiutanti di campo appassionatamente devoti al sovrano non tanto quale imperatore, quanto perché l’adoravano con sincero disinteresse come uomo, così come l’adorava Rostov nel 1807, e perché riconoscevano in lui non solo tutte le virtù, ma anche tutte le possibili qualità umane. Ora, sebbene queste persone ammirassero la modestia del sovrano che aveva rinunciato al comando delle forze armate, criticavano non di meno questa eccessiva modestia e desideravano una sola cosa: insistevano, cioè, affinché l’adorato imperatore, abbandonando la sua soverchia sfiducia in se stesso, dichiarasse apertamente che si poneva alla testa dell’esercito, formasse presso di sé un quartier generale in qualità di comandante in capo e, consigliandosi, quando fosse stato il caso, con gli esperti teorici e pratici, guidasse peraltro di persona le sue truppe; il che sarebbe valso, automaticamente, a portarne il morale alle stelle.

L’ottavo, e più numeroso raggruppamento, che per l’enorme congerie di adepti stava agli altri gruppi in proporzione di 99 a 1, era composto da uomini che non volevano né la pace, né la guerra, né avanzate, né campi difensivi sulla Drissa o dovunque fosse; che non volevano Barclay, né l’imperatore, né Pfühl, né Bennigsen, ma si preoccupavano d’assicurarsi una sola cosa: i massimi vantaggi e piaceri personali. In quell’acqua torbida di intrighi intersecantisi e ingarbugliantisi fra loro, che ribollivano al quartier generale dell’imperatore, si offrivano innumerevoli occasioni di successo che in altre circostanze sarebbero state impensabili. Chi desiderasse non compromettere una propria situazione vantaggiosa, non aveva che accordarsi oggi con Pfühl, domani col suo antagonista, mentre dopodomani affermava di non aver opinione di sorta a proposito di un dato argomento, al solo scopo di scansare ogni responsabilità e di compiacere l’imperatore. Un altro che volesse aumentare i vantaggi della sua posizione, attirava su di sé l’attenzione di Sua Maestà gridando ad alta voce le stesse cose alle quali, magari, l’imperatore stesso aveva accennato la vigilia, discuteva e sbraitava ai consigli di guerra, battendosi il petto e sfidando a duello chi era di parere opposto, e con ciò dimostrando di essere pronto a sacrificarsi per il bene comune. Un terzo, semplicemente, fra un consiglio di guerra e l’altro (e in assenza dei propri nemici) sollecitava un sussidio una tantum a riconoscimento dei suoi fedeli servigi, sapendo che in quel momento nessuno pensava a rifiutarglielo. Un quarto capitava sempre, come per puro caso, sotto gli occhi del sovrano nel momento in cui quest’ultimo era oberato di lavoro. Un quinto, per raggiungere la meta da tempo auspicata - una cena con l’imperatore - si accaniva a dimostrare la fondatezza o l’erroneità di una tesi emersa di recente, e a tale scopo adduceva dimostrazioni più o meno convincenti.

Tutti gli aderenti a questo partito andavano a caccia di rubli, di croci e di promozioni e in tale caccia badavano soltanto alla direzione in cui fluttuava la banderuola della benevolenza imperiale. Non appena notava che la banderuola si era girata da un certo lato, subito questo nugolo di fuchi che viveva alle spalle dell’esercito cominciava a ronzare da quella parte, sicché all’imperatore riusciva tanto più difficile volgerla da un’altra parte. Fra l’incertezza della situazione, al cospetto del grave incombente pericolo, che conferiva al tutto un carattere di particolare inquietudine, in mezzo a quel vortice di intrighi, di ambizioni, di contrasti dovuti alle concezioni e ai sentimenti opposti, in aggiunta alle disparate nazionalità di tutte quelle persone, questo e più folto partito di uomini dominati soltanto dai loro interessi personali accresceva il torbido e la farragine della situazione generale. Qualunque problema venisse sollevato, questo sciame di fuchi, senza nemmeno aver finito di ronzare sul tema precedente, calava in volo sul nuovo tema e col suo ronzio soffocava e oscurava le voci di chi discuteva con propositi sani e sinceri.

A tutti questi partiti, quando il principe Andrej raggiunse l’esercito, se ne venne a formare un altro: un nono partito che proprio allora prese a far udire la sua voce. Era un partito di gente anziana, di persone ragionevoli, capaci ed esperte di problemi di governo, capaci di guardare con obiettività (senza condividere nessuna delle varie tesi contrastanti) a tutto ciò che avveniva presso lo Stato Maggiore del quartier generale e di escogitare i mezzi per uscire da quell’indeterminatezza, da quella cronica indecisione, da quello stato di confusione e di precarietà.

Gli uomini di quest’ultimo partito erano convinti - e lo asserivano apertamente - che il male derivasse in prevalenza dalla presenza dell’imperatore, con la sua corte militare, presso l’esercito; che nell’esercito era stata introdotta quell’indefinita convenzionale e mutevole fluidità di rapporti che è plausibile a corte, ma è dannosa nell’esercito; che il sovrano doveva regnare e non guidare l’esercito; che l’unica via d’uscita da una siffatta situazione era che il sovrano e la sua corte lasciassero il quartier generale delle forze armate; che la sola presenza del sovrano paralizzava i cinquantamila uomini dell’esercito necessari ad assicurare la sua personale incolumità; che il peggior comandante in capo, purché autonomo e libero di agire, sarebbe stato preferibile del più esperto e agguerrito condottiero, ma vincolato dalla presenza delle autorità imperiali.

Mentre il principe Andrej se ne stava senza precisi incarichi al campo sulla Drissa, il segretario di stato Šiškov, uno dei più autorevoli esponenti di quest’ultimo partito, scrisse all’imperatore una lettera che Balašëv e Arakèeev accettarono di firmare. In questa missiva, valendosi dell’autorizzazione accordatagli dal sovrano di esprimere giudizi sull’andamento generale delle cose, in forma molto ossequiosa, e col pretesto della necessità che il sovrano suscitasse nella capitale l’entusiasmo popolare per la guerra, Šiškov gli proponeva di lasciare l’esercito.

E così all’imperatore venne presentata, ed egli l’accettò come un pretesto per lasciare l’esercito, l’esigenza di suscitare l’entusiasmo del popolo per la guerra e di far appello ad esso per difendere la patria, quello stesso entusiasmo del popolo (per quanto esso venne promosso dalla presenza personale del sovrano a Mosca), che fu in realtà la causa principale del trionfo della Russia.

X

Questa lettera non era stata ancora consegnata all’imperatore, quando Barclay, a pranzo, riferì a Bolkonskij che l’imperatore avrebbe gradito di incontrarsi personalmente col principe Andrej per avere da lui informazioni sul fronte turco, e che pertanto il principe Andrej doveva presentarsi alle sei di sera all’alloggiamento di Bennigsen.

Quel giorno stesso era giunta al quartier generale imperiale la notizia di un nuovo movimento di Napoleone che poteva avere serie conseguenze per l’esercito russo; notizia che più tardi si sarebbe rivelata falsa. Proprio quella mattina il colonnello Michaux aveva compiuto insieme all’imperatore un giro d’ispezione alle fortificazioni sulla Drissa, dimostrandogli che questo campo fortificato allestito da Pfühl, considerato fino a quel momento un chef-d’oeuvre di scienza tattica destinato a segnare la rovina di Napoleone, era invece l’assurdità e la potenziale catastrofe dell’esercito russo.

Il principe Andrej arrivò all’alloggiamento del generale Bennigsen, posto in una piccola casa di proprietari terrieri lungo la riva del fiume. Non c’erano né Bennigsen né l’imperatore. Fu Èernyšëv, aiutante di campo dell’imperatore, a ricevere Bolkonskij. Gli spiegò che, per la seconda volta in quella giornata, il sovrano era andato col generale Bennigsen e col marchese Paolucci a ispezionare le fortificazioni del campo sulla Drissa, sulla cui efficienza si cominciava a nutrire seri dubbi.

Èernyšëv sedeva a leggere un romanzo francese vicino alla finestra della prima stanza. Questo locale, probabilmente, era stato un salone di ricevimento: c’era ancora un harmonium sul quale erano stati accatastati dei tappeti e, in un angolo, era sistemato il letto da campo dell’aiutante di Bennigsen. Il quale aiutante era presente.

Evidentemente spossato da un festino o dal lavoro, se ne stava seduto sulla branda, neppure aperta, e sonnecchiava. Nel salone si aprivano due porte: per una si accedeva a un ex salotto, l’altra, a destra, dava in uno studio. Dietro la prima porta si udivano voci parlare in tedesco e, meno spesso, in francese. Lì, nell’ex salotto, s’era riunito per desiderio dell’imperatore non un vero e proprio consiglio di guerra (al sovrano piacevano le cose non definite), ma alcune persone di cui egli desiderava conoscere l’opinione sulle imminenti difficoltà. Non era dunque un consiglio militare, ma una riunione di persone scelte, che avevano il compito di chiarire personalmente certi problemi per la tranquillità dell’imperatore. A questo semiconsiglio erano stati invitati: il generale svedese Armfelt, l’aiutante generale Wohlzogen, Wintzingerode (quello che Napoleone aveva definito un suddito francese fuggiasco), Michaux, il generale Toll, il conte Stein (tutt’altro che votato alle cose della guerra) e infine, Pfühl, che (come aveva sentito dire il principe Andrej) era la cheville ouvrière della situazione. Il principe Andrej ebbe agio di osservarlo attentamente, giacché Pfühl arrivò subito dopo di lui, e prima di passare nel salotto indugiò un momento a parlare con Èernyšëv.

A prima vista, nella sua uniforme da generale russo di pessima fattura, che lo rivestiva goffamente come se fosse stato in maschera, Pfühl diede al principe Andrej l’impressione di persona già conosciuta, sebbene non l’avesse mai visto prima d’ora. C’era in lui qualcosa di Weirother, di Mack, di Schmidt e molti altri generali teorici tedeschi, che il principe Andrej aveva avuto occasione di vedere nel 1805; però costui era il più esemplificativo di tutti loro. Il principe Andrej finora non aveva mai visto un siffatto esemplare di teorico tedesco che riunisse in sé tutto ciò che c’era in quei tedeschi.

Pfühl era di mediocre statura, molto magro, ma di forte ossatura, di complessione sana, largo di bacino e ossuto di scapole La sua faccia era fitta di rughe, gli occhi molto infossati. Sulle tempie, i capelli erano stati lisciati con la spazzola, mentre dietro ingenuamente si sollevavano in ciocche ispide e disordinate. Entrò nella stanza guardandosi attorno inquieto e iracondo, come se tutto, in quel salone, lo opprimesse. Reggendo la sciabola con gesto impacciato, si rivolse a Èernyšëv chiedendogli in tedesco dove fosse l’imperatore. Era palese che desiderava attraversare al più presto il locale, sbarazzarsi dei saluti e dei convenevoli e mettersi al lavoro davanti alla carta geografica, dove si sentiva a proprio agio. Annuì frettolosamente alle parole di Èernyšëv, poi ebbe un sorriso ironico, quando quest’ultimo rispose che l’imperatore stava ispezionando le fortificazioni che proprio lui, Pfühl, aveva allestito in base alle proprie teorie.

Borbottò qualcosa tra i baffi, come fanno i tedeschi molto sicuri di sé: « Dummkopf… » oppure: « zu Grunde die ganze Geschichte… » oppure « s’wird was gescheites d’raus werden… » Il principe Andrej non riuscì a capire le parole esatte, avrebbe voluto passar oltre; ma Èernyšëv lo presentò a Pfühl, rilevando che il principe Andrej era appena arrivato dal fronte turco dove la guerra si era conclusa così felicemente. Pfühl si degnò di una rapida occhiata, non tanto al principe Andrej quanto di là da lui, osservò ridendo: « Da muss ein schöner taktischer Krieg gewesen sein. » Dopo di che ebbe una breve risatina di sprezzo e si affrettò verso la stanza donde provenivano le voci.

Era chiaro che Pfühl, già incline per carattere al sarcasmo adirato, era in quel momento tanto più infastidito dal fatto che ci si fosse permessi di ispezionare il campo fortificato senza di lui e giudicare la sua opera. Solo in base a questo suo breve incontro con Pfühl e grazie ai suoi ricordi di Austerlitz, il principe Andrej poté farsi un’idea precisa dell’uomo. Pfühl era uno di quegli individui disperatamente, incrollabilmente sicuri di se stessi, sicuri fino al martirio, come lo sanno essere solamente i tedeschi, e questo proprio perché solo i tedeschi possono essere sicuri di sé sulla base di un’idea astratta, com’è la dottrina, cioè la pseudo-conoscenza della verità assoluta. Il francese può sentirsi sicuro di sé perché si crede personalmente, sia per doti fisiche che d’intelletto, irresistibile e affascinante, di fronte agli uomini come alle donne. L’inglese è sicuro di sé perché è cittadino del paese meglio ordinato del mondo; perciò, in quanto inglese, sa sempre ciò che deve fare, e sa che tutto ciò che fa, in quanto inglese, non può che esser ben fatto. L’italiano è sicuro di sé perché è irrequieto ed esaltabile, e facilmente si dimentica di se stesso e degli altri. Il russo è sicuro di sé perché non sa e non vuol sapere nulla, nella persuasione che nulla si può sapere. Il tedesco è sicuro di sé nel peggiore dei modi, nel modo più disgustoso e inesorabile, perché è ciecamente convinto di sapere la verità: una scienza, cioè, da lui stesso elaborata, ma che per lui è il vero assoluto.

Tale era evidentemente Pfühl. Lui aveva una certa dottrina: la teoria «dei movimenti obliqui», da lui ricavata sulla scorta della cronaca delle guerre di Federico il Grande, e tutto ciò che concerneva la storia militare moderna, gli sembrava un’assurdità, una barbarie, uno scontro mostruoso nel quale, da entrambe le parti, si facevano tanti errori, che queste guerre non potevano esser chiamate tali: non si adattavano alla teoria e non potevano servire da oggetto della scienza.

Nel 1806 Pfühl era stato uno degli ideatori del piano della guerra conclusasi poi con Jena e con Auerstadt; ma nell’esito di quel conflitto egli non vedeva nemmeno lontanamente la prova dell’erroneità della sua teoria. Al contrario, secondo lui l’unica causa dell’insuccesso stava nelle deroghe apportate alla sua teoria e con l’allegra ironia che gli era propria diceva: « Ich sagte ja, dass die ganze Geschichte zum Teufel gehen werde. » Pfühl era uno di quei teorici che sono a tal punto invasati della propria teoria, da dimenticare addirittura lo scopo, l’applicazione pratica; al suo amore per la teoria si contrapponeva l’odio per ogni attuazione concreta, non ne voleva sentir parlare. Si rallegrava persino degli insuccessi, perché gli smacchi dovuti dall’essersi scostati dalla teoria a favore della pratica non facevano che confermargli la validità della sua teoria.

Scambiò col principe Andrej e con Èernyšëv qualche rapida impressione sulla guerra in corso con l’aria di chi sa in anticipo come tutto sia destinato ad andare a rotoli e non ne sia nemmeno troppo scontento. Quelle ciocche arruffate di capelli si levavano dalla nuca e le tempie frettolosamente ravviate confermavano in modo eloquente il suo stato d’animo.

Passato nell’altra stanza, subito echeggiarono gli accenti bassi e aspri della sua voce.

Guerra e Pace
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