VI
Nella camera vicina si udì il fruscio d’un abito femminile. Come tornando in sé, il principe Andrej si scosse e il suo volto assunse la stessa espressione che aveva avuto nel salotto di Anna Pavlovna. Pierre abbassò i piedi dal divano.
Entrò la principessa. Aveva già indossato un altro vestito: da casa, questo, ma non meno fresco ed elegante. Il principe Andrej si alzò, avvicinandole gentilmente una poltrona.
«Spesso mi domando,» cominciò a dire, esprimendosi come sempre in francese e accomodandosi in modo frettoloso e indaffarato in poltrona, «perché Annette non si è sposata. Come siete stati sciocchi, messieurs, a non aver sposato una donna come lei. Scusatemi, ma in fatto di donne voi non capite niente. Che voglia avete sempre di discutere, monsieur Pierre!»
«Con vostro marito discuto sempre; non riesco a capire perché voglia andare in guerra,» disse Pierre rivolgendosi alla principessa senza il minimo imbarazzo, pur così naturale nell’atteggiamento di un giovane che si rivolga a una giovane donna.
La principessa trasalì. Evidentemente le parole di Pierre l’avevano toccata sul vivo.
«Ah, è proprio quello che dico anch’io!» rispose. «Non capisco, non capisco proprio perché gli uomini non possano vivere senza far la guerra! Come mai noi donne non andiamo in cerca di nulla, non abbiamo bisogno di nulla?
Ecco, siatene giudice voi. Io gli dico sempre: qui sei aiutante di Stato Maggiore presso lo zio, una posizione più che brillante. Tutti lo conoscono, tutti lo apprezzano. Giorni fa dagli Apraksin ho sentito che una signora domandava: ” C’est ça le fameux prince André? Ma parole d’honneur! ” E la principessina scoppiò a ridere. «È accolto così bene dappertutto! Potrebbe benissimo diventare anche aiutante di campo di sua maestà. Sapete, il sovrano ha parlato molto benevolmente con lui. Con Annette si diceva che sarebbe molto facile ottenere la cosa. Voi che ne pensate?»
Pierre diede un’occhiata al principe Andrej, e accorgendosi che quel discorso non piaceva al suo amico, non rispose nulla.
«Quando partite?» domandò.
« Ah! Ne me parlez pas de ce départ, ne m’en parlez pas. Je ne veux pas en entendre parler,» esclamò la principessa con lo stesso tono capriccioso e scherzoso che aveva usato parlando con Ippolit nel salotto di Anna Pavlovna e che palesemente non si addiceva a quell’ambiente familiare di cui in qualche modo faceva parte anche Pierre. «Oggi a un certo momento ho pensato che bisognerà troncare tutte queste relazioni così care… E poi, lo sai, André?» E guardò suo marito in modo significativo. « J’ai peur, j’ai peur! » mormorò con un tremito nella schiena.
Il marito la guardò come se improvvisamente si stupisse di accorgersi che nella stanza c’era qualcun altro, oltre lui e Pierre; tuttavia si rivolse interrogativamente alla moglie con fredda cortesia:
«Di che cosa hai paura, Lise? Non riesco a capirlo,» disse.
«Ecco la prova di come sono egoisti tutti gli uomini; tutti, tutti! Lui per soddisfare i suoi capricci, Dio sa perché, non si perita di abbandonarmi, di relegarmi in campagna, sola.»
«Con mio padre e mia sorella, non dimenticare,» disse il principe Andrej con voce pacata.
«Ma sarò sola ugualmente, senza i miei amici… E poi pretende che io non abbia paura.»
Ormai la sua voce aveva un tono querulo. Il piccolo labbro le si era sollevato dando al volto un’espressione non gioiosa, ma ferina, da scoiattolo. Tacque, come trovando sconveniente parlare in presenza di Pierre della sua gravidanza, mentre proprio in ciò stava il nodo della questione.
«Eppure non capisco de quoi vous avez peur,» disse lentamente il principe Andrej senza distogliere gli occhi dalla moglie.
La principessa arrossì e agitò le mani in un gesto di sconforto.
« Non, André, je dis que vous avez tellement, tellement changé…»
«Il tuo dottore ti ha raccomandato di coricarti presto,» disse il principe Andrej. «Dovresti andare a letto.»
La principessa non disse nulla ma il labbro ombreggiato di peluria cominciò a tremare; il principe Andrej si alzò, si strinse nelle spalle e fece un giro nella stanza.
Pierre attraverso gli occhiali guardava in modo ingenuo e stupito ora lui ora la principessa, ed ebbe una mossa come se volesse alzarsi anche lui, ma poi cambiò idea.
«Che m’importa che qui ci sia monsieur Pierre,» disse a un tratto la piccola principessa e improvvisamente il suo viso grazioso si alterò in una smorfia lacrimosa. «Volevo dirtelo da molto tempo, André: perché sei così cambiato con me? Che cosa ti ho fatto? Tu parti per la guerra, e di me non hai compassione. Perché?»
«Lise!» si limitò a dire il principe Andrej; ma in questa parola c’erano preghiera, minaccia e, soprattutto, la certezza che lei si sarebbe pentita delle proprie parole. Ma la principessa frettolosa continuò:
«Mi tratti come una malata o una bambina. Vedo tutto, io. Eri forse così sei mesi fa?»
«Lise, vi prego di smettere,» disse il principe Andrej in tono ancor più fermo.
Pierre, che nel corso di questa conversazione si era sentito sempre più agitato, si alzò accostandosi alla principessa. Pareva che non potesse sopportare la vista delle lacrime e fosse in procinto di mettersi a piangere anche lui.
«Calmatevi, principessa. A voi fa quest’impressione perché, ve lo assicuro, anch’io l’ho provato… perché…
perché… Ma, perdonate, un estraneo qui è di troppo… No, calmatevi… Addio…»
Il principe Andrej lo trattenne per un braccio.
«No, aspetta, Pierre. La principessa è così buona che non vorrà privarmi del piacere di passare la sera con te.»
«Certo, lui pensa solamente a se stesso,» mormorò la principessa senza frenare lacrime di rabbia.
«Lise,» disse in modo secco il principe Andrej alzando il tono di voce al limite che indica come la pazienza sia ormai esaurita.
A un tratto la rabbiosa espressione da scoiattolo del bel visino della principessa lasciò il posto a un’attraente, compassionevole espressione di timore; con i suoi splendidi occhi guardò di sottecchi il marito e sul suo volto apparve quell’espressione di colpevole sottomissione che hanno i cani quando agitano in modo rapido ma fiacco la coda tenuta abbassata.
« Mon Dieu, mon Dieu! » disse e, raccolta con una mano la piega dell’abito, si accostò al marito e lo baciò in fronte.
« Bonsoir, Lise,» disse il principe Andrej. Si alzò e essequiosamente, come avrebbe fatto con un’estranea, le baciò la mano.
I due amici tacevano. Né l’uno né l’altro riprendevano a parlare. Pierre sogguardava ogni tanto il principe Andrej che si passava la piccola mano sulla fronte.
«Vogliamo andare a cena?» disse poi con un sospiro, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
Entrarono in una stanza da pranzo arredata a nuovo con lussuosa eleganza. Tutto, dai tovaglioli all’argenteria, dalle porcellane alle cristallerie, recava in sé quella particolare impronta di cosa nuova tipica delle case dei giovani sposi. Verso la metà della cena il principe Andrej si appoggiò con i gomiti alla tavola e, come accade quando si ha da molto tempo qualcosa sul cuore e a un tratto ci si decide a manifestarla, cominciò a dire con un’espressione d’irritato nervosismo quale Pierre non aveva mai riscontrato nel suo amico:
«Non ti venga mai in mente di sposarti, mio caro; questo è il mio consiglio, non prender moglie finché non avrai potuto dire a te stesso che hai fatto tutto il possibile per evitarlo, finché non avrai smesso d’amare la donna che hai scelto, finché non la vedrai come in trasparenza, altrimenti sbaglierai crudelmente e senza alcun rimedio. Sposati da vecchio quando non sarai buono a nulla… Altrimenti andrà perduto tutto ciò che in te è buono ed elevato. Tutto si disperderà in piccolezze. Sì, sì! Non guardarmi così meravigliato. Se speravi qualcosa dall’avvenire, a ogni passo sentirai che per te tutto è finito, tutto ti è precluso, tranne il salotto dove ti trovi gomito a gomito con i lacchè di corte e con gli imbecilli… Ma a che pro, parlare di me!»
Ed ebbe un gesto brusco della mano.
Pierre si era tolto gli occhiali, e il suo viso era cambiato rivelando più apertamente la sua bontà. Guardava l’amico, stupito.
«Mia moglie,» continuò il principe Andrej, «è una donna perfetta. Per quanto riguarda il proprio onore è una di quelle rare donne con le quali si può esser tranquilli; ma, mio Dio, che cosa darei, ora, per non essere sposato! Sei il primo e il solo al quale lo confesso, perché ti voglio bene.»
Mentre diceva queste parole il principe Andrej somigliava meno che mai a quel Bolkonskij che sedeva sprofondato nelle poltrone di Anna Pavlovna e strizzando le palpebre pronunciava frasi francesi tra i denti. Il suo volto scolpito tremava tutto per l’eccitazione nervosa d’ogni muscolo; gli occhi nei quali poco prima il fuoco della vita sembrava spento, adesso brillavano d’un vivido fulgore fiammeggiante. Si vedeva che quanto più spento egli pareva d’ordinario, tanto più energico appariva nei momenti d’esaltazione.
«Tu non puoi capire perché io parli così,» proseguì. «Ma qui è in gioco la sorte d’una vita. Bonaparte e la sua carriera, dici tu,» soggiunse, quantunque Pierre non avesse menzionato Bonaparte, «Bonaparte, dici; ma Bonaparte, mentre agiva e passo per passo procedeva verso il suo scopo, era libero, non aveva altra preoccupazione che quel suo scopo, e l’ha raggiunto. Ma se ti leghi a una donna, sei come un forzato con la palla al piede: perdi ogni libertà. Le speranze e le forze che hai in te non fanno altro che opprimerti e torturarti con l’amarezza del pentimento. Salotti, intrighi, balli, vanità, nullità: ecco il cerchio magico dal quale io non posso uscire. Adesso parto per la guerra, per la più grande guerra che ci sia mai stata; ma non c’è nulla che io sappia, nulla a cui sia adatto. Je suis très aimable et très caustique,» continuò il principe Andrej, «e in casa di Anna Pavlovna sono ascoltato. E questa società stupida, senza la quale mia moglie non può vivere, e queste donne… Se tu sapessi cosa sono toutes les femmes distinguées e le donne in genere! Mio padre ha ragione: egoismo, vanità, meschinità, nullità in tutto e per tutto: ecco le donne quando si mostrano per quel che realmente sono. Se le osservi quando sono in società ti sembra che qualcosa, bene o male, ci sia; e invece niente, niente, niente! Davvero credimi, amico mio: non ti sposare,» concluse il principe Andrej.
«Mi pare buffo,» disse Pierre, «che proprio voi vi consideriate un fallito, e consideriate la vostra vita una vita sciupata. Avete ancora tutto, dinanzi a voi…»
Pierre non disse cosa intendesse con quel voi, ma già il suo tono mostrava quale alta stima avesse dell’amico e quanto si attendesse da lui per l’avvenire.
«Come può dire una cosa simile!» pensava Pierre.
Considerava il principe Andrej il modello di tutte le perfezioni appunto per il fatto che il principe Andrej univa in sé al più alto grado tutte le qualità che Pierre non aveva e che, con la massima approssimazione, si possono esprimere col concetto di forza di volontà. Pierre si stupiva sempre della capacità del principe Andrej di affrontare con naturalezza qualsiasi tipo di persone, della sua memoria eccezionale, della sua erudizione (lui leggeva tutto, sapeva tutto, di tutto aveva nozione) e più d’ogni altra cosa della sua capacità di lavorare e di studiare. Se spesso Pierre era colpito dalla mancanza in Andrej della capacità di abbandonarsi alla meditazione fantastica (alla quale Pierre era particolarmente incline), anche in ciò egli era indotto a vedere non un difetto, ma una forza.
Anche nei rapporti migliori, più amichevoli e più semplici che possono sussistere fra gli uomini, la lusinga o la lode sono necessari come il grasso è necessario alle ruote perché girino.
« Je suis un homme fini,» disse il principe Andrej. «A che serve parlare di me? Parliamo di te piuttosto,»
aggiunse dopo un momento di silenzio, sorridendo ai propri consolanti pensieri. Nello stesso istante quel sorriso si rispecchiò sulla faccia di Pierre.
«Cosa si può dire di me?» disse Pierre, allargando la bocca in un sorriso spensierato e sereno. «Chi sono io? Je suis un bâtard! » E improvvisamente si fece di bragia. Si capiva che aveva fatto un grande sforzo per dire quelle parole.
« Sans nom, sans fortune… E del resto…» Ma non spiegò a cosa si riferisse con quel «del resto». «Per ora sono libero, e mi trovo bene. Ma non so assolutamente cosa devo fare. Volevo consigliarmi seriamente con voi.»
Il principe Andrej lo guardava con occhi buoni. Il suo sguardo, amichevole e affettuoso, esprimeva tuttavia la consapevolezza della propria superiorità.
«Tu mi sei caro soprattutto perché sei l’unico uomo vivo in tutto il nostro mondo. Ti piace vivere. Scegli ciò che vuoi; una cosa vale l’altra. Tu ti troverai bene dovunque, ma lascia che ti dica una cosa sola: smetti di andare da quei Kuragin, di fare questa vita. Queste cose ti si addicono così poco: quelle baldorie, quell’atmosfera da ussari, e tutto il resto…»
« Que voulez-vous, mon cher,» disse Pierre, stringendosi nelle spalle, « les femmes, mon cher, les femmes! »
«Non capisco,» rispose Andrej. « Les femmes comme il faut sono un’altra cosa; ma les femmes di Kuragin, les femmes et le vin, no, questo non riesco a capirlo.»
Pierre abitava in casa del principe Vasilij Kuragin e prendeva parte alla vita dissoluta di suo figlio Anatol’, quello stesso che avevano intenzione di ammogliare con la sorella del principe Andrej per rimetterlo sulla retta via.
«Sapete che cosa vi dico?» disse Pierre, come se a un tratto gli fosse venuta un’idea felice, «sul serio, ci pensavo da tempo. Con la vita che faccio non riesco a riflettere né a decidere nulla. La testa mi duole, sono senza denaro. Oggi mi ha invitato, ma non ci andro.
«Dammi la tua parola d’onore che non ci andrai!»
«Parola d’onore!»
Era passata l’una di notte quando Pierre lasciò la casa del suo amico. Essendo di giugno, era una di quelle notti di Pietroburgo che non conoscono il buio. Pierre prese una carrozza di piazza con l’intenzione di andare a casa. Ma quanto più vi si avvicinava, tanto più avvertiva l’impossibilità di prender sonno in una notte come quella, più simile a un tramonto o a un’alba. Le vie deserte lasciavano vedere a lunga distanza. Durante il tragitto Pierre si ricordò che quella sera da Anatol’ Kuragin doveva riunirsi la solita brigata per giocare, dopo di che al solito seguiva una gran bevuta che si concludeva con uno dei divertimenti preferiti da Pierre.
«Potrei andare da Kuragin,» pensò Pierre, ma subito ricordò la parola d’onore data al principe Andrej.
E tuttavia, come succede alle persone che vengono definite senza carattere, subito dopo lo prese una voglia così intensa di provare ancora una volta quella vita dissoluta a lui ben nota, che decise di andarci. E tosto gli venne in mente il pensiero che la parola data non voleva dir nulla, perché prima ancora che al principe Andrej, aveva dato al principe Anatol’ la sua parola di andare da lui; e infine pensò che tutte queste parole d’onore sono solo formule convenzionali, che non hanno alcun particolare significato, tanto più considerando che magari l’indomani egli sarebbe morto o gli sarebbe accaduto qualcosa di così imprevedibile, che onore e disonore avrebbero cessato di sussistere.
Ragionamenti di questo genere, che distruggevano tutte le sue decisioni e riflessioni, erano frequenti in Pierre. Così finì per andare da Kuragin.
Arrivato all’ingresso della grande casa dove abitava Anatol’, presso le caserme della cavalleria della Guardia, salì i gradini illuminati dell’ingresso, poi su per lo scalone raggiunse il pianerottolo, e varcò una porta aperta.
L’anticamera era vuota; c’erano bottiglie scolate, mantelli, calosce alla rinfusa; stagnava puzzo di vino, grida e voci echeggiavano lontano.
Il gioco e la cena erano già terminati, ma gli ospiti non se ne andavano ancora. Pierre gettò il mantello ed entrò nella prima stanza, dov’erano rimasti gli avanzi della cena e un servitore, credendosi inosservato, scolava di nascosto il fondo dei bicchieri. Dalla terza stanza giungevano trapestio, risate, voci conosciute e qualcosa che pareva il mugolio di un orso. Otto giovanotti facevano ressa, stringendosi, davanti alla finestra aperta. Tre stavano intorno a un orsacchiotto, che uno di loro trascinava per la catena facendo paura a un altro.
«Scommetto cento rubli per Stievens!» gridava uno.
«Guarda però di non spingerlo!» gridava un altro.
«Io per Dolochov!» gridava un terzo. «Da’ il via, Kuragin.»
«Su, lasciate stare Miška; qui c’è una scommessa, adesso.»
«D’un fiato, altrimenti è perduta,» gridava un quarto.
«Jakov! Porta una bottiglia, Jakov!» gridava il padrone di casa, un bel giovane alto che stava in piedi in mezzo al gruppo con la sola camicia indosso, aperta sul petto. «Fermi, signori. Ecco qui anche il nostro caro Petruška,» disse poi, volgendosi verso Pierre.
Un’altra voce, quella di un uomo non molto alto dai limpidi occhi cerulei, che fra tutte quelle voci da ubriachi colpiva per il suo tono perfettamente lucido, si mise a gridare dalla finestra: «Vieni qui, da’ il via alla scommessa!»
Era Dolochov, ufficiale del reggimento di Semënov, famoso giocatore e spadaccino, che abitava insieme ad Anatol’. Pierre sorrideva guardandosi allegramente intorno.
«Non capisco. Di che si tratta?» domandò.
«Fermi, lui non è ubriaco. Date qua una bottiglia,» disse Anatol’; prese dalla tavola un bicchiere e si avvicinò a Pierre.
«Prima di tutto bevi.»
Pierre prese a bere un bicchiere dopo l’altro, dando ogni tanto un’occhiata agli ospiti ubriachi, che di nuovo si erano accalcati davanti alla finestra, e porgendo l’orecchio ai loro discorsi. Anatol’, versandogli il vino, gli raccontava che Dolochov aveva fatto una scommessa con l’inglese Stievens - un ufficiale di marina lì presente - che lui, Dolochov, avrebbe tracannato una bottiglia di rhum stando seduto sulla finestra del terzo piano con le gambe penzoloni nel vuoto.
«Su, bevila tutta,» disse Anatol’ porgendo l’ultimo bicchiere a Pierre, «altrimenti non ti lasciò andare!»
«No, non ne ho voglia,» rispose Pierre, e scostando Anatol’ si avvicinò alla finestra.
Dolochov teneva per mano l’inglese e scandendo chiaramente le parole enunciava le condizioni della scommessa, rivolgendosi soprattutto ad Anatol’ e a Pierre.
Dolochov era un uomo di media statura coi capelli ricciuti e chiari occhi azzurri. Era sui venticinque anni.
Come tutti gli ufficiali di fanteria non portava baffi, e la sua bocca, che era il tratto più saliente del viso, era quindi del tutto scoperta. Le linee di quella bocca erano, nella loro sinuosità, di una singolare finezza. Il labbro superiore, al centro, si abbassava energicamente con un cuneo appuntito su quello inferiore che era assai forte; agli angoli aveva perennemente due sorrisi, uno per ciascuna parte; e tutto insieme, specialmente in combinazione con lo sguardo duro, sfrontato e intelligente, faceva una tale impressione che quel volto non poteva passare inosservato. Dolochov non era ricco e non aveva relazioni influenti. Ma sebbene Anatol’ sperperasse decine di migliaia di rubli, Dolochov viveva con lui e aveva saputo porsi in una luce così favorevole che lo stesso Anatol’ e tutti coloro che lo conoscevano lo tenevano in grande stima. Dolochov giocava a tutti i giochi e vinceva quasi sempre. Per quanto bevesse, non perdeva mai la sua lucidità. Sia Kuragin sia Dolochov erano, a quei tempi, personaggi ben noti nel mondo degli scapestrati e dei gaudenti di Pietroburgo.
Fu portata la bottiglia di rhum; due servitori palesemente confusi e intimiditi dagli ordini e dalle grida dei signori che li circondavano, stavano staccando dalla finestra l’intelaiatura dei vetri che impediva di mettersi a sedere fuori del davanzale.
Anatol’ con la sua aria da dominatore si avvicinò alla finestra. Aveva voglia di fracassare qualcosa. Con uno spintone scostò i servitori e diede uno strattone al telaio, che però non cedette. Finì per frantumare un vetro.
«Su, prova tu, che sei forte,» disse allora rivolgendosi a Pierre.
Pierre afferrò le traversine, tirò e l’intelaiatura di quercia si staccò con fracasso, mezzo spaccata, mezzo divelta.
«Via tutto, altrimenti potrebbero pensare che mi reggo,» disse Dolochov.
«L’inglese bluffa… bene? Tutto fatto?…» disse Anatol’.
«Tutto fatto,» confermò Pierre guardando Dolochov il quale aveva preso la bottiglia e si avvicinava alla finestra che inquadrava il cielo luminoso nel quale alba e crepuscolo sembravano confondersi.
Reggendo in mano la bottiglia di rhum Dolochov balzò sulla finestra.
«Ascoltate!» gridò, in piedi sul davanzale, volto verso l’interno della stanza. Tutti ammutolirono.
«Scommetto,» (parlava in francese perché l’inglese lo capisse, e non parlava troppo bene in questa lingua).
«Scommetto cinquanta imperiali… oppure volete cento?» soggiunse, rivolgendosi all’inglese.
«No, cinquanta,» disse l’inglese.
«Bene, allora scommetto per cinquanta imperiali che berrò l’intera bottiglia di rhum senza staccarla dalla bocca; la berrò tutta stando seduto fuori della finestra, esattamente in questo punto,» si chinò e mostrò il ripido aggetto del muro fuori della finestra, «e senza reggermi a niente… Va bene?…»
«Benissimo,» disse l’inglese.
Anatol’ si volse verso l’inglese, lo afferrò per un bottone del frac e guardandolo dall’alto (l’inglese era basso di statura), cominciò a ripetergli in inglese le condizioni della scommessa.
«Aspetta,» gridò Dolochov, picchiando con la bottiglia sulla finestra per attirare l’attenzione. «Un momento, Kuragin; ascoltate. Se qualcun altro riuscirà a fare altrettanto, sarò io a pagare cento imperiali. Intesi?»
L’inglese annuì col capo senza lasciar capire se intendesse o no accettare quella nuova scommessa. Anatol’
continuava a tenere l’inglese a quel modo, e sebbene quello annuendo desse a vedere che aveva capito tutto, gli andava traducendo in inglese le parole di Dolachov. Un ragazzo magrolino, ussaro della Guardia imperiale, che quella sera aveva perduto molto denaro, si arrampicò sulla finestra, si sporse e guardò in basso.
«Uh-uh!» esclamò, fissando il lastricato del marciapiede.
«Silenzio!» gridò Dolochov e scostò dalla finestra l’ufficiale che, impigliandosi con gli speroni, rientrò saltellando goffamente nella stanza.
Dopo aver posato la bottiglia sul davanzale per poterla raggiungere più comodamente, Dolochov, lento e cauto, si issò nel vano della finestra. Calate le gambe e appoggiatosi con le due mani ai bordi della finestra, prese le misure, si sedette, levò le mani, si spostò prima a destra, poi a sinistra e alla fine prese la bottiglia. Anatol’ portò due candele e le collocò sul davanzale, sebbene ormai fosse giorno. La schiena di Dolochov con la camicia bianca e la testa di capelli ricciuti erano illuminate sui due lati. Tutti fecero ressa davanti alla finestra. L’inglese era in prima fila. Pierre sorrideva senza dir parola. Uno dei presenti, più anziano degli altri, con la faccia preoccupata e adirata, improvvisamente si fece avanti e fece per afferrare Dolochov per la camicia.
«Signori miei, queste sono pazzie; rischia di ammazzarsi,» disse quest’uomo più ragionevole.
Anatol’ lo fermò.
«Non lo toccare; se lo spaventi, allora sì che si ammazzerà. E dopo che diresti?»
Dolochov si voltò, assestandosi a sedere e appoggiandosi di nuovo con le mani.
«Se qualcun altro prova ancora a intrufolarmisi accanto,» disse, sibilando le parole fra le labbra serrate e sottili,
«lo prendo e lo scaravento di sotto. Dunque!…»
E pronunciato quel «Dunque!», si volse di nuovo, staccò le mani, prese la bottiglia e la portò alla bocca, rovesciando la testa all’indietro e proiettando in alto il braccio libero, come contrappeso. Uno dei servitori, che aveva cominciato a raccogliere i frantumi di vetro, sostò, curvo com’era, senza staccare gli occhi dalla finestra e dalla schiena di Dolochov. Anatol’ stava ritto in piedi con gli occhi sbarrati. L’inglese, con le labbra sporte in avanti, guardava in tralice. Quello che aveva cercato di impedire quello spettacolo, si era rifugiato in un angolo della stanza buttandosi su un divano con la faccia rivolta verso il muro. Pierre si era coperto la faccia, sulla quale era rimasto un debole sorriso, sebbene ora il suo volto esprimesse raccapriccio e paura. Tutti tacevano. Pierre tolse le mani dagli occhi. Dolochov era sempre seduto nella stessa posizione; soltanto la testa s’era reclinata all’indietro, cosicché i capelli ricciuti della nuca toccavano il colletto della camicia, mentre la mano che impugnava la bottiglia si levava sempre più alta e vibrava nello sforzo. La bottiglia si andava visibilmente svuotando e al tempo stesso si sollevava, costringendo la testa a stare così riversa. «Possibile che ci voglia tanto?» pensava Pierre. Gli pareva che fosse passata più di mezz’ora. Improvvisamente Dolochov fece un movimento all’indietro con la schiena e il suo braccio fu percorso da un tremito nervoso che bastò a spostare tutto il corpo, seduto com’era su quello sporto inclinato. Egli si mosse tutto; il suo braccio e la sua testa ebbero nello sforzo un tremito ancor più violento. Una mano si alzò per afferrarsi al davanzale, ma tornò ad abbassarsi. Pierre chiuse di nuovo gli occhi e si disse che non li avrebbe più riaperti. A un tratto sentì che tutto intorno s’era rimesso in movimento. Guardò: Dolochov era in piedi sul davanzale, la sua faccia era pallida e soddisfatta.
«Vuota!»
Gettò la bottiglia all’inglese che l’acchiappò al volo. Poi saltò giù. Esalava un forte puzzo di rhum.
«Magnifico! Bravissimo! Questa sì che è una scommessa! Che il diavolo vi porti tutti!» gridavano da ogni parte.
L’inglese aveva preso il borsellino e contava i denari. Dolochov, accigliato, taceva. Pierre balzò sulla finestra.
«Signori! Chi vuole scommettere con me? Farò anch’io la stessa cosa,» gridò lui a un tratto. «Anzi, non c’è nemmeno bisogno di scommettere. Fatemi portare la bottiglia. Avanti, fatemela portare.»
«Faccia pure, se ci tiene!» esclamò Dolochov sorridendo.
«Sei impazzito? Come vuoi che ti si permetta una cosa simile? Ma se ti gira la testa persino sulle scale!»
presero a dire da varie parti.
«La berrò tutta; date qui una bottiglia di rhum!» gridò Pierre, picchiando sulla tavola con un gesto deciso da ubriaco, e montò sulla finestra.
Lo afferrarono per le braccia, ma era così forte che scaraventava lontano tutti quelli che gli si accostavano.
«No, così non è possibile convincerlo,» disse Anatol’; «aspettate, so io come ingannarlo. Ascolta, scommetto io con te, ma domani, perché adesso andiamo tutti da…»
«Andiamo,» gridò allora Pierre, «andiamo!… E portiamo con noi anche Miška…»
Andò, agguantò l’orso e, abbracciandolo e sollevandolo da terra, si mise a roteare con lui per la stanza.