VIII

 

Si potrebbe credere che nelle condizioni di durezza inverosimile in cui si trovavano in quel periodo i soldati russi - prive di scarpe invernali, senza pellicce, senza un tetto sopra il capo, in mezzo alla neve, con diciotto gradi sotto zero, senza viveri a sufficienza (non sempre le razioni raggiungevano in tempo l’esercito) - si potrebbe credere che i soldati presentassero lo spettacolo più triste e desolante.

Al contrario, in nessun altro momento, neppure nelle migliori condizioni materiali, il nostro esercito ebbe un aspetto più vivace e animato. Questo dipendeva dal fatto che ogni giorno venivano eliminati dall’esercito tutti coloro che incominciavano a deprimersi o a indebolirsi. Gli uomini spezzati nel fisico e moralmente abbattuti erano rimasti già da tempo indietro; restava soltanto il fior fiore delle truppe dal punto di vista fisico e morale.

Presso l’ottava compagnia, che aveva innalzato la graticciata a riparo, si era nel frattempo raccolta più gente che altrove. Si erano seduti lì anche due sergenti maggiori e il fuoco vi crepitava più intensamente che altrove. In cambio del diritto di sedersi al riparo della graticciata, si esigeva un po’ di legna.

«Ehi, Makeev, ma che fai… Sei scomparso o ti hanno mangiato i lupi? Porta della legna,» gridò un soldato dalla faccia rossa, di pelo fulvo, che strizzava gli occhi e sbatteva le palpebre per il fumo, ma non si allontanava dal fuoco. «Scomodati almeno tu, cornacchia, porta della legna,» disse rivolto a un altro.

L’uomo fulvo non era né un sottufficiale né un caporale, ma un soldato semplice nerboruto, che perciò comandava quelli che erano più deboli di lui. Il soldato soprannominato cornacchia, magro, piccolo, con un naso aguzzo si alzò docilmente per eseguire l’ordine, ma, in quel momento, nel riverbero del fuoco si delineò la sagoma sottile e bella di un giovane soldato che portava un fascio di legna.

«Dà qua. Ecco quello che ci voleva!»

Spaccarono la legna, la compressero, fecero vento con le bocche e con le falde dei cappotti e la fiamma sibilò e crepitò. I soldati si avvicinarono e accesero le pipe. Il soldato giovane e leggiadro che aveva portato la legna si piantò i pugni sui fianchi e cominciò a battere per terra con agilità e destrezza i piedi intirizziti.

«Ah, mammina, la rugiada è fredda ma bella, e si parte moschettiere…» canterellava, ed era come se ad ogni sillaba della canzone fosse interrotto da un singhiozzo.

«Ehi, ti voleranno via le suole!» gridò il soldato rossiccio, vedendo che il ballerino aveva una suola mezzo staccata. «Accidenti che impeto!»

Il ballerino si fermò, strappò il pezzo di suola che sbatteva per aria e lo gettò nel fuoco.

«Hai ragione, fratello,» e sedutosi tirò fuori dallo zaino un pezzo di panno francese, turchino, con cui si fasciò un piede. «È colpa del caldo,» aggiunse, stendendo i piedi verso il fuoco.

«Presto ce ne daranno di nuove. Dicono che quando li avremo battuti completamente, ne daranno due paia a tutti.»

«Ma hai visto quel figlio di un cane di Petrov, è rimasto indietro,» disse un sergente.

«Me n’ero accorto da un pezzo,» disse un altro.

«Beh, era un po’ deboluccio…»

«Anche nella terza compagnia, dicono, ieri sono mancati all’appello nove uomini.»

«Lo credo, giudica un po’ tu: quando ti si congelano i piedi, dove puoi andare?»

«Ehi, basta con queste chiacchiere!» disse il sergente maggiore.

«O vuoi che capiti anche a te la stessa cosa?» disse un vecchio soldato, rivolgendosi con aria di rimprovero a quello che aveva parlato dei piedi che gli si stavano congelando.

«Ma tu che cosa credi,» proruppe a un tratto con voce stridula e tremante, sollevandosi d’improvviso da dietro il fuoco, il soldato dal naso aguzzo che chiamavano cornacchia. «Chi è grasso diventa magro, e chi è già magro muore.

Guardate me, per esempio. Non ce la faccio più,» disse con tono deciso rivolgendosi al sergente, «ordina che mi mandino all’ospedale, i reumatismi mi hanno distrutto, altrimenti resto lo stesso per strada…»

«Su, basta, basta,» disse pacatamente il sergente.

Il soldatino tacque e la conversazione proseguì.

«Oggi non se ne sono presi pochi di questi francesi, ma nessuno che avesse delle vere scarpe, macché, solo l’apparenza,» disse un soldato, incominciando un nuovo discorso.

«Sono sempre i cosacchi che gliele levano. Hanno ripulito un’isba per il colonnello e li hanno portati fuori.

Fanno pena a guardarli, ragazzi,» disse il ballerino. «Li hanno spogliati, e ce n’era uno ancora vivo, ci crederesti, che borbottava chissà che cosa nella sua lingua.»

«Però è gente pulita, ragazzi,» disse il primo. «Bianca, ecco, bianca come una betulla, e ce n’è di coraggiosi, insomma d’animo nobile.»

«E tu che ti credevi? Ne hanno preso da ogni ceto.»

«Eppure non sanno dire nulla alla maniera nostra,» disse il ballerino con un sorriso perplesso. «Io gli dico: “Di che re sei?” e quello borbotta alla sua maniera. Che gente stramba!»

«Ma questa sì che è curiosa, fratelli miei,» continuò quello che si era stupito della loro pelle bianca, «i contadini delle parti di Možajsk raccontavano che quando si sono messi a portar via i morti, dove c’era stata la battaglia ed era già un mese che stavano lì, erano bianchi come la carta, puliti, e non puzzavano per niente.»

«Come si spiegherà? Forse per via del freddo?» domandò uno.

«Però che intelligenza! Per via del freddo! Ma se allora faceva caldo! Se fosse stato per il freddo, neanche i nostri si sarebbero putrefatti. E invece, dice, se ti avvicinavi a uno dei nostri, era pieno di vermi e dovevi turarti il naso col fazzoletto e voltare il muso dall’altra parte per portarli via: una cosa impossibile. E quelli invece, bianchi come la carta, non puzzavano proprio per niente.»

Tutti tacquero.

«Dipenderà da quello che mangiano,» disse il sergente, «roba da signori.»

Nessuno fece obiezioni.

«Diceva quel contadino di Možajsk, dove c’è stata la battaglia, che li hanno prelevati da dieci villaggi, e per venti giorni hanno continuato a portarne via, eppure lì ce n’erano ancora. E i lupi, diceva…»

«Quella sì che è stata una battaglia sul serio,» disse il vecchio soldato. «Ce n’era di cose da raccontare; ma tutto quello che è venuto dopo… solo una tortura per la gente.»

«Proprio così, zio. E infatti l’altro ieri gli siamo andati addosso, ma quelli non si lasciano accostare. Subito a buttar via i fucili e a mettersi in ginocchio. Pardon, dicono. E questo è solo un esempio. Dicono che persino Polione in persona Platov lo abbia preso due volte. Ma non sapeva la parola magica. Lo acchiappa, lo acchiappa, ma quello gli diventa un uccello tra le mani e se ne vola via. E non c’è maniera neanche di ammazzarlo.»

«Sei bravo a raccontar fandonie Kiselëv, ti sto a guardare con gli occhi fuori della testa.»

«Macché fandonie, è la pura verità.»

«Fosse stato per me, l’avrei acchiappato e poi sotterrato. E sopra un palo di pioppo. Troppa gente ha rovinato.»

«In qualche modo la faremo finita. Non andrà più in giro!» disse sbadigliando il vecchio soldato.

La conversazione cessò; i soldati incominciarono a sistemarsi per dormire.

«Guarda quante stelle, una cosa incredibile! Pare quando le donne stendono la tela,» disse un soldato ammirando la via lattea.

«Buon segno, ragazzi, di una buona annata di grano.»

«Ci vorrebbe ancora della legna.»

«La schiena te la scaldi, ma la pancia si gela. Roba da matti!»

«Oh, Signore!»

«Che hai da spingere? È solo per te il fuoco? Guardalo come si è stravaccato!»

Nel silenzio sopraggiunto si udiva il russare di qualcuno già addormentato; gli altri continuavano a rigirarsi cercando di scaldarsi e ogni tanto si scambiavano qualche parola. Da un fuoco lontano un centinaio di passi, giungevano allegre risate.

«Senti come se la spassano alla quinta compagnia,» disse un soldato. «E quanta gente, un mucchio!»

Un soldato si alzò e si diresse verso la quinta compagnia.

«C’è proprio da ridere,» disse tornando. «Ci sono due francesi. Uno è mezzo assiderato, ma l’altro è tutto pepe, un accidenti! Canta delle canzoni.»

«Davvero? Andiamo a vedere.»

Diversi soldati si diressero verso la quinta compagnia.

Guerra e Pace
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