II

 

Per i suoi impegni di tutela riguardo alle proprietà di Rjazan’, il principe Andrej doveva incontrarsi col maresciallo della nobiltà di quel distretto. Costui era il conte Il’ja Andreeviè Rostov, e il principe Andrej alla metà di maggio si recò da lui.

La primavera ormai era già calda. Il bosco era tutto rivestito di foglie; le strade erano polverose e faceva così caldo che, passando davanti all’acqua, si era presi dalla voglia di fare un bagno.

Il principe Andrej, di cattivo umore e turbato dai suoi pensieri, meditando sulle questioni di cui doveva parlare col maresciallo della nobiltà, percorreva in carrozza un viale del giardino che portava alla casa di Otradnoe, di proprietà dei Rostov. Dietro gli alberi, sulla destra, udì un allegro vociare femminile, poi vide un frotto di giovinette che correvano tagliando la strada alla sua carrozza. In testa a tutte, più vicina alla carrozza, correva una ragazza nera d’occhi e di capelli molto snella, di una snellezza strana; vestiva un abito giallo di cotonina e in testa aveva un fazzoletto bianco dal quale sfuggivano ciocche di capelli scomposti. La ragazza stava gridando qualcosa, ma, accortasi dell’estraneo, corse indietro ridendo senza fermarsi a guardarlo.

Il principe Andrej provò a un tratto, chissà perché, quasi una fitta di dolore. La giornata era così bella, il sole così sfolgorante; tutto, intorno, era così gaio; e quell’esile ragazza che non sapeva e non voleva saper niente della sua esistenza; ed era contenta, felice di chissà quale sua vita: una vita certo sciocca, ma allegra e spensierata. «Di che cosa sarà così contenta? A che cosa pensa? Non al codice militare, non alla sistemazione dei contadini di Rjazan’ e dei loro canoni. A che cosa pensa? E perché è così felice?» si domandava il principe Andrej con un moto d’involontaria curiosità.

Nel 1809 il conte Il’ja Andreeviè viveva a Otradnoe come aveva sempre vissuto, ossia ricevendo in casa sua quasi tutta la provincia, fra cacce, pranzi, spettacoli teatrali e orchestre. Come lo era dell’arrivo d’ogni nuovo ospite, si rallegrò di veder giungere il principe Andrej, e quasi di forza lo convinse a passar lì la notte.

Nel corso di quella noiosa giornata - durante la quale il principe Andrej fu intrattenuto dai membri più anziani della famiglia e dagli ospiti di maggior riguardo che riempivano la casa del vecchio conte in occasione di un imminente onomastico - Bolkonskij si sorprese diverse volte a guardare Nataša, che rideva e si divertiva in mezzo ai giovani della compagnia, continuando a chiedersi: «A che cosa pensa? Di che cosa sarà così contenta?»

La sera, rimasto solo in quel posto nuovo, a lungo non gli riuscì di prender sonno. Leggeva, poi spegneva il lume, poi tornava ad accenderlo. Nella camera, con le imposte chiuse dall’interno, faceva caldo. Era irritato contro quel vecchio imbecille (così chiamava Rostov), che lo aveva trattenuto col pretesto che i documenti necessari non erano ancora giunti dalla città; ed era irritato anche contro se stesso per essersi lasciato indurre a rimanere.

Si alzò dal letto e andò alla finestra per aprirla. Non appena ebbe spalancato le imposte, la luce della luna, come se da tempo non avesse atteso altro e fosse stata in agguato dietro la finestra, penetrò nella stanza. Il principe Andrej aprì anche i vetri. La notte era fresca, di una chiarezza immobile. Proprio davanti alla finestra c’era un filare di alberi potati, neri da una parte, argentei e luminosi dall’altra. Sotto gli alberi c’era una fresca, umida vegetazione ricciuta, con le foglie e gli steli qua e là argentei. Più in là, dietro gli alberi neri, c’era un tetto luccicante di guazza, più a destra un grande albero fronzuto col tronco e i rami d’un bianco vivido; e, sopra di esso, una luna quasi piena campeggiava nel cielo primaverile, chiaro e quasi senza stelle. Il principe Andrej si appoggiò con i gomiti sul davanzale e i suoi occhi restarono fissi a quel sereno.

La camera del principe Andrej era al secondo piano; anche le camere sopra di lui erano abitate, e anche in quelle camere non si dormiva: dall’alto gli giungeva un conversare di donne.

«Un’altra volta, un’altra volta sola,» diceva una voce femminile che il principe Andrej riconobbe subito.

«Ma quando te ne verrai a dormire?» rispondeva un’altra voce.

«Non dormirò, non posso dormire; che cosa posso farci! Ti prego, per l’ultima volta…»

Le due voci femminili intonarono una frase musicale che doveva costituire la fine di qualche pezzo.

«Ah, che incanto! Ebbene, ora a dormire, e che sia finita!»

«Dormi tu, se puoi; io non posso,» rispose la prima voce, avvicinandosi alla finestra.

Evidentemente colei a cui apparteneva questa voce si era affacciata alla finestra e si era sporta, perché fu possibile udire il fruscio del suo abito e perfino il suo respiro. Tutto era tornato immobile, tutto era impietrito, come la luna, come la sua luce e le sue ombre. Ed anche il principe Andrej si teneva immobile, nel timore di tradire la propria involontaria presenza.

«Sonja! Sonja!» si udì ancora la prima voce. «Ma, come si può dormire? Ah, che incanto, che incanto! Guarda!

Suvvia Sonja, svegliati!» continuò. E c’era quasi un pianto, in quella voce. «Una notte così incantevole non c’è stata mai, mai!»

Sonja di malavoglia rispose qualcosa.

«Guarda, guarda che luna!… Ah, che incanto! Vieni qua. Sonja, tesoro, vieni qua. Ecco, vedi? Ecco, vorrei rannicchiarmi sui calcagni, così, afferrarmi con le mani sotto le ginocchia, ben strette, il più strette possibile…

stringermi così forte, così, e poi volare via! Ecco, così!»

«Smettila, finirai per cadere.»

Si sentì una lotta, e la voce contrariata di Sonja:

«Sai che è’già l’una passata?»

«Ah, tu mi guasti sempre tutto. Ma sì, va’, va’.»

E di nuovo tutto tacque; ma il principe Andrej sapeva che lei era sempre seduta allo stesso posto: a volte sentiva un lieve movimento, a volte dei sospiri.

«Ah, Dio mio! Dio mio! E questo che cos’è!» esclamò lei a un tratto. «Ebbene, se proprio si deve dormire, andiamo a dormire!» E sbatté le imposte.

«E non le importa affatto che io esista o no!» pensò il principe Andrej mentre tendeva l’orecchio al suo bisbiglio, ansioso e al tempo stesso timoroso che ella dicesse qualcosa sul suo conto. «E di nuovo lei! Parrebbe proprio fatto apposta!» pensò ancora. A un tratto nella sua anima si fece strada un così inopinato intrico di pensieri e di speranze giovanili in contraddizione con tutta la sua vita, che, sentendo di non aver la forza per chiarire a se stesso il proprio stato d’animo, subito si addormentò.

Guerra e Pace
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