IX
Inseguiti dai centomila uomini dell’armata francese al comando di Bonaparte, accolti con ostilità dalle popolazioni, senza più alcuna fiducia nei loro alleati, provati dall’insufficienza degli approvvigionamenti e costretti a operare al di fuori di tutte le prevedibili condizioni di guerra, i trentacinquemila uomini dell’armata russa al comando di Kutuzov si ritiravano in fretta lungo il Danubio, arrestandosi quando venivano raggiunti dal nemico e disimpegnandosi con operazioni di retroguardia soltanto nella misura in cui era necessario per ritirarsi senza perdere le salmerie. Ci furono scaramucce a Lambach, ad Amstetten e a Melk; ma nonostante il valore e la fermezza, riconosciuti dallo stesso nemico, con cui i russi si batterono, queste azioni portarono soltanto a una ritirata ancor più veloce. Le truppe austriache che erano sfuggite alla cattura davanti a Ulm si erano ricongiunte a Kutuzov presso Braunau; in seguito, però, si erano nuovamente staccate dall’armata russa, e Kutuzov poteva contare solo sui suoi uomini deboli ed esausti. Difendere ancora Vienna non era nemmeno pensabile. Invece dell’offensiva, che era stata studiata in ogni particolare secondo i principi della nuova dottrina chiamata «strategia», e il cui piano era stato trasmesso a Kutuzov nel corso della sua permanenza a Vienna dall’ Hofkriegsrat austriaco, ora, Kutuzov aveva dinanzi a sé un’unica, quasi remota possibilità: evitare di perdere l’armata come era accaduto a Mack sotto Ulm, e ricongiungersi alle truppe che arrivavano dalla Russia.
Il ventotto ottobre Kutuzov passò con l’armata sulla sponda sinistra del Danubio e per la prima volta si fermò, avendo messo il Danubio fra sé e il grosso delle forze francesi. Il tredici attaccò la divisione di Mortier che si trovava sulla riva sinistra del Danubio e la sbaragliò. In quest’operazione per la prima volta vennero conquistati dei trofei (una bandiera, qualche cannone) e due generali nemici furono fatti prigionieri. Per la prima volta dopo una ritirata di due settimane le truppe russe si erano arrestate e, dopo il combattimento, non soltanto avevano tenuto il campo, ma avevano respinto i francesi. Sebbene le truppe fossero lacere, esauste, depauperate di un terzo degli uomini, tra dispersi, feriti, malati e uccisi, sebbene gli ammalati e i feriti fossero stati abbandonati sull’altra sponda del Danubio, con una lettera di Kutuzov che li affidava al senso di umanità del nemico; sebbene i principali ospedali e le case di Krems, trasformate in lazzaretti, non riuscissero più a contenere tutti gli ammalati e i feriti; nonostante questo la sosta a Krems e la vittoria su Mortier valsero a rialzare sensibilmente il morale delle truppe. In tutta l’armata e nel quartier generale circolavano le voci più ottimistiche, anche se non vere, su un preteso avvicinarsi di colonne di rinforzo dalla Russia, su una pretesa vittoria riportata dagli austriaci e sulla ritirata di Bonaparte in preda al panico.
Durante la battaglia il principe Andrej si trovava presso il generale austriaco Schmidt, che rimase ucciso nel corso di quell’operazione. Il suo cavallo venne ferito mentre lo stava cavalcando, e lui stesso fu scalfito a una mano da una pallottola. In segno di particolare benevolenza del comandante supremo, il principe Andrej fu poi inviato a recare la notizia della vittoria alla corte austriaca, che aveva già lasciato Vienna, minacciata dalle truppe francesi, e si trovava a Brünn. La notte stessa della battaglia, emozionato ma non stanco (nonostante la sua complessione apparentemente fragile, il principe Andrej sapeva sopportare la stanchezza fisica meglio degli uomini più robusti), giunto a cavallo a Krems da Kutuzov, con un rapporto da parte di Dochturov, il principe Andrej fu subito inviato come corriere a Brünn.
L’invio in qualità di corriere oltre che un onore significava un passo importante verso una promozione di grado.
La notte era buia, stellata; la strada nereggiava nel bianco della neve che era caduta la vigilia, il giorno della battaglia. Ora riandando alle impressioni della battaglia trascorsa, ora lietamente immaginando l’emozione che avrebbe suscitato con la notizia della vittoria, o ricordando gli addii del comandante supremo e dei compagni, il principe Andrej sobbalzava dentro una carrozza postale provando la stessa sensazione di un uomo che a lungo ha atteso, e finalmente ha raggiunto il principio di una desiderata felicità. Se chiudeva gli occhi, nelle sue orecchie riecheggiava la sparatoria dei fucili e dei cannoni, e si fondeva col rollio delle ruote e l’emozione della vittoria. A volte gli apparivano i russi in fuga, l’immagine di lui stesso ucciso, ma tosto si scuoteva, felice, come se fosse tornato consapevole che per la prima volta non era accaduto nulla di tutto questo e che, al contrario, erano stati i francesi a fuggire. Allora di nuovo riaffioravano in lui tutti i particolari della vittoria, il suo tranquillo coraggio durante la battaglia e, calmatosi, si assopiva…
E dopo la buia notte stellata sorse un mattino chiaro e lieto. La neve si scioglieva al sole, i cavalli galoppavano veloci e, a destra e a sinistra, sfilavano sempre, nuovi e vari, boschi, campi e villaggi.
A una delle stazioni di posta egli raggiunse un convoglio di feriti russi. L’ufficiale russo che guidava il trasporto, sdraiato sul primo carro, gridava qualcosa insultando un soldato con parole volgari. In ognuna delle lunghe carrette tedesche sobbalzavano sulla strada sassosa almeno sei o più feriti, pallidi, bendati e sudici. Alcuni chiacchieravano (il principe Andrej udì parlare in russo); altri mangiavano del pane. I più gravi guardavano in silenzio, con un mite e infantile interesse da malati, il corriere che li oltrepassava al galoppo.
Il principe Andrej ordinò di fermare e domandò a un soldato in quale operazione fossero rimasti feriti.
«È stato ieri l’altro suI Danubio,» rispose il soldato.
Il principe Andrej prese il borsellino e diede tre monete d’oro al soldato.
«Per tutti,» aggiunse, parlando a un ufficiale che si era avvicinato. «Rimettetevi in salute, ragazzi,» disse, tornando a rivolgersi ai soldati, «c’è ancora molto da fare.»
«Ebbene, signor aiutante di campo, quali notizie?» domandò l’ufficiale che evidentemente desiderava attaccar discorso.
«Buone! Avanti,» gridò il principe Andrej al cocchiere, e ripartì al galoppo.
Era già buio quando il principe Andrej entrò in Brünn e si vide circondato dagli alti palazzi, dai lumi delle botteghe, delle finestre e dei lampioni, dalle belle carrozze che correvano rumorosamente sul selciato, da tutta quella particolare atmosfera della grande città animata che sempre affascina un soldato reduce dalla vita al campo. Nonostante il viaggio veloce e la notte insonne, avvicinandosi alla reggia imperiale il principe Andrej si sentiva ancor più elettrizzato del giorno prima. Solo gli occhi brillavano d’una luce febbrile e i suoi pensieri si avvicendavano con rapido ritmo e chiarezza straordinaria. Ripercorse di nuovo, velocemente, tutti i particolari della battaglia, non più in modo confuso, ma ordinati in un’esposizione concisa, che egli, nella sua immaginazione, già faceva all’imperatore Franz.
Rapidamente s’immaginò anche le domande che avrebbero potuto essergli fatte e le risposte che lui avrebbe dato.
Prevedeva che sarebbe stato subito ammesso alla presenza dell’imperatore. Invece, davanti all’ingresso principale della reggia, gli venne incontro un funzionario il quale, ravvisando in lui un corriere, lo accompagnò a un altro ingresso.
«Per il corridoio a destra; di là, Euer Hochgeboren; troverete l’aiutante di campo di servizio, che vi accompagnerà dal ministro della guerra.»
L’aiutante di campo che accolse il principe Andrej lo pregò di aspettare e si recò dal ministro della guerra.
Dopo cinque minuti tornò, e con un inchino particolarmente ossequioso, fece passare il principe Andrej davanti a sé, e lo accompagnò lungo un corridoio fino allo studio ove lavorava il ministro della guerra. Pareva che con la sua affettata cortesia l’aiutante di campo volesse opporre un ostacolo ad ogni tentativo di familiarità da parte dell’aiutante russo. Il sentimento di gioia del principe Andrej si era molto affievolito quando raggiunse la porta del gabinetto del ministro della guerra. Si sentiva offeso, e quel sentimento di offesa si trasformò nello stesso istante, e senza che lui se ne accorgesse, in un sentimento di disprezzo privo di fondamento. Ma la sua prontezza d’intuito gli fece comprendere subito da quale punto di vista egli avrebbe avuto il diritto di disprezzare sia l’aiutante, sia il ministro della guerra. «A loro deve sembrare molto facile riportare una vittoria, dato che non hanno mai sentito l’odore della polvere!» pensò.
Strinse gli occhi con fare sprezzante ed entrò con studiata lentezza nello studio del ministro della guerra. Il sentimento che provava si accentuò ancor più quando scorse il ministro seduto davanti a una grande scrivania. Per un paio di minuti costui non gli fece caso. La testa calva, dalle tempie grige, del ministro era china fra due candele di cera, e leggeva delle carte segnandole con un lapis. Terminò di leggere senza alzare il capo, poi la porta fu aperta e si udirono dei passi.
«Prendete questo e trasmettete,» disse il ministro al suo aiutante, consegnandogli le carte e seguitando a ignorare il corriere.
Il principe Andrej sentì che i casi erano due: o, nel novero delle cose di cui il ministro della guerra si occupava, le operazioni dell’armata di Kutuzov non rivestivano alcun interesse, o di proposito si voleva dare quest’impressione al corriere russo. «Ma per me è tutt’uno,» pensò. Il ministro della guerra spostò le carte, le ordinò e alzò la testa. Aveva un volto intelligente ed espressivo. Ma nello stesso istante in cui si rivolse al principe Andrej, l’espressione ferma e intelligente di quel viso subì una trasformazione che, chiaramente, era voluta e abituale. L’espressione s’immobilizzò nel sorriso sciocco, di non celata falsità, dell’uomo che riceve l’uno dopo l’altro molti visitatori.
«Da parte del maresciallo Kutuzov?» domandò. «Buone notizie, spero? C’è stato uno scontro con Mortier? Una vittoria? Era ora!»
Prese il dispaccio a lui indirizzato, e prese a leggerlo con un’espressione di tristezza.
«Ah, Dio mio! Dio mio! Schmidt!» disse in tedesco. «Che disgrazia, che disgrazia!»
Dopo aver scorso il dispaccio lo posò sulla scrivania e guardò il principe Andrej, evidentemente pensando ad altro.
«Ah, che disgrazia! È stata un’azione decisiva, dite? Però Mortier non è stato catturato.» Rifletté un momento.
«Sono molto lieto che abbiate portato buone notizie, sebbene la morte di Schmidt sia un caro prezzo per la vittoria.
Senza dubbio sua maestà desidererà vedervi, ma non ora. Vi ringrazio. Ora riposatevi. Domani trovatevi all’uscita dopo la rivista. Del resto, vi farò avvertire.»
Ora lo sciocco sorriso, che si era dileguato durante la conversazione, era riapparso sulla faccia del ministro della guerra.
«Arrivederci, vi ringrazio molto. Probabilmente sua maestà l’imperatore desidererà vedervi,» ripeté, e chinò la testa.
Quando il principe Andrej fu uscito dalla reggia, sentì d’aver consegnato e lasciato nelle mani indifferenti del ministro della guerra e dell’ossequioso aiutante tutto l’entusiasmo e la felicità procuratigli dalla vittoria. L’intero corso dei suoi pensieri mutò: la battaglia gli parve un vecchio ricordo lontano.
X
A Brünn il principe Andrej si fermò in casa di un suo conoscente, il diplomatico russo Bilibin.
«Ah, caro principe, nessun ospite mi sarebbe più gradito,» disse Bilibin uscendo incontro al principe Andrej.
«Franz, le cose del principe in camera mia,» si rivolse al domestico che aveva accompagnato Bolkonskij. «Dunque, siete messaggero di vittoria? Magnifico. Io invece, come potete vedere, sono ammalato.»
Dopo essersi lavato e cambiato d’abito il principe Andrej entrò nel lussuoso studio del diplomatico e sedette alla tavola apparecchiata. Bilibin sedeva accanto al caminetto.
Il principe Andrej, che aveva alle spalle non soltanto quel viaggio ma tutta la campagna di guerra, durante la quale gli erano mancati ogni agio di comodità e di pulizia, si sentiva gradevolmente disteso, circondato da quel lusso cui era abituato fin dall’infanzia. Inoltre, dopo l’accoglienza avuta dagli austriaci, gli faceva piacere parlare, se non in russo
- parlavano infatti in francese - almeno con un russo il quale, supponeva il principe Andrej, doveva condividere la stessa avversione per gli austriaci che egli, in questo momento, sentiva particolarmente viva.
Bilibin aveva trentacinque anni; era scapolo e apparteneva allo stesso ambiente del principe Andrej. Si erano conosciuti a Pietroburgo, ma avevano approfondito la loro conoscenza durante l’ultimo viaggio del principe Andrej a Vienna insieme con Kutuzov. Come il principe Andrej era un giovane che prometteva di andare lontano nella carriera militare, così, e ancor più, prometteva Bilibin nella carriera diplomatica. Era ancora giovane, come uomo, ma già anziano come diplomatico, poiché aveva cominciato a prestar servizio fin da quando aveva sedici anni: era stato a Parigi, a Copenaghen e adesso occupava a Vienna un posto piuttosto importante. Sia il cancelliere, sia il nostro ambasciatore a Vienna lo conoscevano e lo stimavano. Egli non apparteneva alla numerosa schiera di diplomatici che sono tenuti a possedere soltanto qualità negative, a non fare determinate cose e a parlare il francese soltanto per dimostrarsi degli ottimi diplomatici; al contrario amava il suo lavoro e lo svolgeva oculatamente. E nonostante la sua pigrizia, talvolta trascorreva la nottata intera alla scrivania. Qualunque fosse la natura di una data mansione, vi si dedicava con uguale impegno. Non lo interessava tanto il «perché», quanto il «come». Gli era del tutto indifferente il contenuto di una data azione diplomatica, mentre godeva nel redigere con precisione ed eleganza una circolare, un memorandum o un rapporto. Ma i servigi di Bilibin, oltre che per l’abilità di cui dava prova facendo uso della penna, erano apprezzati anche per la sua capacità di comportarsi a dovere e di parlare nelle alte sfere.
Bilibin amava la conversazione come amava il lavoro, ma solo se la conversazione era elegante e spiritosa. In società egli aspettava sempre l’occasione per dire qualcosa di significativo, e non interveniva in un discorso se non si verificavano queste condizioni. La conversazione di Bilibin era sempre farcita di frasi taglienti, originali e spiritose, che attirassero l’interesse generale. Nel laboratorio interno di Bilibin queste frasi venivano volutamente approntate a guisa di articoli portatili, affinché i dabbenuomini dell’alta società potessero ficcarsele bene in testa e diffonderle nei salotti. E in effetti les mots de Bilibine se colportaient dans les salons de Vienne, come si diceva, e sovente esercitavano qualche influenza sui cosiddetti affari di primo piano.
La sua faccia magra, scavata, giallognola era percorsa da grosse rughe che sembravano sempre accuratamente lavate come la punta delle dita dopo un bagno. I movimenti di queste rughe influivano in modo determinante sulla sua fisionomia. Talvolta la sua fronte a larghe pieghe gli si corrugava, le sopracciglia si sollevavano; talaltra le sopracciglia si abbassavano e grosse rughe scavavano le guance. I piccoli occhi infossati avevano sempre uno sguardo aperto e lieto.
«Be’, adesso raccontatemi le vostre imprese,» disse Bilibin al principe Andrej.
Bolkonskij, con la massima modestia e senza menzionare se stesso una sola volta, gli raccontò della battaglia e poi dell’accoglienza del ministro della guerra.
« Ils m’ont reçu avec ma nouvelle, comme un chien dans un jeu de quilles,» disse, a mo’ di conclusione.
Bilibin ebbe un risolino e stese le rughe della faccia.
« Cependant, mon cher,» disse, contemplandosi un’unghia da lontano e raggrinzendo la pelle in su sopra l’occhio sinistro, « malgrè la haute estime que je professe pour le “ortodosso esercito russo”, j’avoue que votre victoire n’est pas des plus victorieuses.»
Continuava a parlare in francese, usando il russo solo per le parole che voleva sottolineare con disprezzo.
«Come? Vi siete scaraventati con tutta la massa delle vostre truppe contro quel disgraziato di Mortier che disponeva di una sola divisione, e Mortier vi sfugge di mano? Dove sarebbe la vittoria?»
«Ad ogni modo,» rispose il principe Andrej, si può dire senza vanagloria che se non altro le cose sono andate un po’ meglio che a Ulm…»
«Perché non avete catturato un generale? almeno uno?»
«Perché le cose non vanno sempre come si vorrebbe; non con la sistematicità di una parata militare. Come già vi ho detto, noi supponevamo di trovarci alle spalle del nemico per le sette del mattino e alle cinque di sera non c’eravamo ancora.»
«E perché non siete arrivati alle sette del mattino? Dovevate appunto arrivare alle sette del mattino,» rispose sorridendo Bilibin. «Bisognava arrivare alle sette del mattino.»
«E voi perché non avete suggerito a Bonaparte per via diplomatica che per lui sarebbe stato meglio abbandonare Genova?» domandò nello stesso tono il principe Andrej.
«Lo so,» interruppe Bilibin, «voi volete dire che è molto facile catturare i generali stando seduti su un divano davanti al caminetto, ed è vero. Tuttavia perché non siete riusciti ad assicurarvene nemmeno uno? Dunque non meravigliatevi se non soltanto il ministro della guerra, ma anche l’augusto imperatore e re Franz non saranno molto entusiasti della vostra vittoria; e del resto anch’io, umile segretario dell’ambasciata russa, non provo nessun bisogno, in segno di gioia, di dare al mio Franz un tallero e di lasciarlo andare con la sua Liebchen, al Prater… È vero però che qui il Prater non c’è.»
Bilibin guardò fisso negli occhi il principe Andrej e di colpo allentò e distese la pelle raggrinzita della fronte.
«Adesso è il mio turno di chiedervi “perché”, mio caro,» disse Bolkonskij. «Vi confesso che non capisco. Forse qui ci sono delle sottigliezze diplomatiche superiori alla mia debole intelligenza, ma c’è una cosa che non comprendo: Mack perde un’intera armata, l’arciduca Ferdinando e l’arciduca Carlo non danno alcun segno di vita e commettono un errore dietro l’altro; alla fine Kutuzov è il solo che riporti una vittoria decisiva, distrugge il mito d’invincibilità dei francesi e il ministro della guerra non si cura nemmeno di conoscerne i particolari!»
«Proprio per questo, mio caro. Voyez-vous, mon cher: urrà! per lo zar, per la Russia, per la fede! Tout ça est bel et bon. Ma che importa a noi - voglio dire alla corte austriaca - delle vostre vittorie? Portateci la lieta novella di una vittoria dell’arciduca Carlo o dell’arciduca Ferdinando ( un archiduc vaut l’autre, come ben sapete) anche soltanto su una compagnia di pompieri di Bonaparte. Ebbene, questa sarebbe tutt’altra cosa: faremmo tuonare i cannoni. Invece la vostra notizia sembra fatta apposta per indispettirci. L’arciduca Carlo non combina nulla, l’arciduca Ferdinando si copre di vergogna. Voi abbandonate Vienna, non la difendete più, comme si vous nous disiez: Dio è con noi; andate con Dio, voi e la vostra capitale. C’era un solo generale al quale noi tutti volevamo bene, Schmidt: voi lo mandate a buscarsi una pallottola e vi congratulate con noi per la vittoria!… Convenite che non si poteva escogitare nulla di più irritante della notizia che voi portate. C’est comme un fait exprès, comme un fait exprès. Non solo: ormai anche se otteneste una vittoria veramente trionfale, anche se lo stesso arciduca Carlo riportasse una vittoria, che cosa muterebbe nell’andamento generale delle cose? Ormai è troppo tardi: Vienna è occupata dalle truppe francesi.»
«Come occupata? Vienna è stata occupata?»
«Non soltanto occupata, ma Bonaparte è a Schönbrunn, e il conte, il nostro caro conte Vrbna va da lui a prender ordini.»
Per la stanchezza, per le impressioni del viaggio e dell’accoglienza, e soprattutto ora dopo il pranzo, Bolkonskij si rendeva conto di non afferrare appieno il significato delle parole che ascoltava.
«Questa mattina è venuto il conte di Lichtenfels,» proseguì Bilibin, «e mi ha mostrato una lettera nella quale viene descritta nei particolari la parata dei francesi a Vienna. Le prince Murat et tout le tremblement… Dunque, come vedete la vostra vittoria non è molto incoraggiante, e voi non potete essere ricevuto come un salvatore…»
«Credetemi, la cosa mi è indifferente, del tutto indifferente!» disse il principe Andrej, cominciando a capire che la sua notizia della battaglia di Krems aveva effettivamente poca importanza di fronte ad avvenimenti come l’occupazione della capitale austriaca. «Come mai Vienna è stata occupata? E il ponte? E la famosa tête de pont? E il principe Auersperg? Da noi correva voce che il principe Auersperg fosse preparato a difendere Vienna,» disse.
«Il principe Auersperg sta da questa parte, dalla nostra parte, e ci difende. Io sono convinto che ci difenda molto male, ma ad ogni modo ci difende; mentre Vienna è dall’altra parte. No, il ponte non è stato ancora preso e spero che non lo sarà, perché è minato e c’è ordine di farlo saltare. In caso contrario saremmo da un pezzo fra le montagne della Boemia e voi, con la vostra armata presa tra due fuochi passerete un brutto quarto d’ora.»
«Ma questo non vuol dire che la campagna sia perduta,» disse il principe Andrej.
«Io invece penso che sia finita. E così la pensano i pezzi grossi di qui, ma non osano ammetterlo apertamente.
Succederà ciò che io dicevo al principio della campagna: che non sarà la vostra échauffourée de Dürenstein, che in genere non sarà la polvere a decidere la cosa, ma quelli che l’hanno inventata,» disse Bilibin ripetendo uno dei suoi
mots, e rilassando la pelle sulla fronte. «La questione sta soltanto in ciò che ci dirà l’incontro di Berlino tra l’imperatore Alessandro e il re di Prussia. Se la Prussia entrerà nell’alleanza, on forcera la main à l’Autriche, e sarà la guerra. In caso diverso, si tratterà solo di mettersi d’accordo sul luogo dove formulare le prime clausole di una nuova Campoformio.»
«Ma che straordinaria genialità!» esclamò a un tratto il principe Andrej serrando a pugno la sua piccola mano e battendola sulla tavola. «E che fortuna ha quest’uomo!»
« Buonaparte? » disse interrogativamente Bilibin corrugando la fronte e avvertendo così che adesso sarebbe seguito un mot. «Buonaparte?» ripeté, appoggiando la voce sulla « u». «Ora che da Schönbrunn detta legge all’Austria il faut lui faire grâce de l‘u. Io faccio decisamente un’innovazione e lo chiamo Bonaparte tout court.»
«No, davvero,» disse il principe Andrej, «pensate che la campagna sia ormai conclusa?»
«Ecco che cosa penso. L’Austria è stata giocata come una sciocca. Non ci è abituata, e si vendicherà. Ed è stata giocata perché in primo luogo, le province sono devastate ( on dit, que l’ortodoxe est terrible pour le pillage), l’esercito è annientato, la capitale è invasa; e tutto questo pour les beaux yeux del re di Sardegna. Perciò, entre nous, mon cher il fiuto mi dice che ci ingannano, il fiuto mi parla di intese con la Francia e di propositi di pace: di pace segreta, di pace separata.
«Questo non è possibile!» disse il principe Andrej, «sarebbe troppo ignobile.»
« Qui vivra verra,» concluse Bilibin rilassando di nuovo la pelle della fronte, a indicare che il discorso era finito.
Quando il principe Andrej raggiunse la camera che era stata preparata per lui e, con biancheria pulita indosso, si coricò fra piumini e tiepidi, odorosi guanciali, sentì che la battaglia di cui egli aveva recato l’annuncio era lontana, lontana da lui. Ora la sua mente era occupata dall’alleanza prussiana, dal tradimento dell’Austria, dal nuovo trionfo di Bonaparte, dalla rivista, dal ricevimento e dall’udienza particolare che l’imperatore Franz gli avrebbe accordata il giorno dopo.
Chiuse gli occhi, ma nello stesso istante nelle sue orecchie presero a rintronare le cannonate, le sparatorie, il rollio delle ruote della carrozza. Ed ecco di nuovo fucilieri che scendevano dalla collina formando un cordone e i francesi che sparavano, mentre lui si sentiva balzare il cuore in petto e procedeva a cavallo a fianco di Schmidt; le pallottole gli fischiavano lietamente intorno e lui provava decuplicato quel senso di gioia di vivere che non aveva più provato dall’infanzia.
Si risvegliò.
«Sì, tutto questo è accaduto!…» mormorò, sorridendo felice, a se stesso, come un bambino, e si riaddormentò del sonno profondo della gioventù.