VI
Il giorno dopo le truppe, concentratesi fin dalla sera nei posti assegnati, si misero in marcia al far della notte.
Era una notte d’autunno con nuvole d’un nero violaceo, ma senza pioggia. Il terreno era umido, ma ancora non c’era fango, e le truppe marciavano senza rumore; solo di tanto in tanto si udiva, ma debolmente, lo sferragliare dell’artiglieria. Era stato proibito parlare ad alta voce, fumar le pipe, battere l’acciarino; si cercava di trattenere i cavalli dal nitrire. Il tono di mistero dell’impresa ne accresceva l’attrattiva. Gli uomini marciavano quasi con gaiezza. Alcune colonne, a un certo punto, si fermarono, affastellarono i fucili e si sdraiarono sul freddo suolo, credendo d’essere arrivate al punto stabilito; altre (la maggior parte) marciarono per tutta la notte arrivando, ovviamente, più in là di dove avrebbero dovuto.
Il conte Orlov-Denisov con i suoi cosacchi (il reparto meno importante di tutti), fu il solo a capitare nel posto giusto al momento giusto. Si fermò al limite della foresta, lungo il sentiero che andava dal villaggio di Stromilova a quello di Dmitrovskoe.
Prima dell’alba, mentre sonnecchiava, il conte Orlov fu svegliato. Gli portavano un disertore del campo francese. Era un sottufficiale polacco del corpo d’armata di Poniatowski. Questo sottufficiale spiegò, in polacco, di aver disertato perché in servizio aveva subito un torto; da un pezzo avrebbe dovuto essere ufficiale, essendo più valoroso di tutti; perciò li aveva piantati in asso e voleva vendicarsi di loro. Disse che Murat pernottava a una versta da loro e che, se gli avessero dato cento uomini di scorta, lui l’avrebbe preso vivo. Il conte Orlov-Denisov si consultò con i colleghi.
La proposta era troppo allettante per rinunciarvi. Tutti si offrirono di andare, tutti consigliavano di tentare. Dopo molte discussioni e considerazioni, il maggiore generale Grekov, con due reggimenti di cosacchi, fu inviato con il sottufficiale.
«Però ricordati,» disse il conte Orlov-Denisov al sottufficiale: «se hai mentito, ti faccio impiccare come un cane; se invece hai detto la verità, avrai cento ducati.»
Con aria decisa il sottufficiale, senza rispondere a queste parole, saltò a cavallo e partì con Grekov, preparatosi rapidamente alla spedizione. Scomparvero nella foresta. Il conte Orlov, rabbrividendo alla frescura del mattino che cominciava a schiarire, emozionato dall’idea di ciò che aveva intrapreso sotto la propria responsabilità, dopo essersi separato da Grekov uscì dalla foresta e si mise a scrutare il campo nemico, che si scorgeva ormai in modo incerto al chiarore del mattino incipiente e dei languenti fuochi di bivacco. Sulla destra del conte Orlov-Denisov avrebbero dovuto comparire, lungo il pendio scoperto, le nostre colonne. Il conte Orlov guardava in quella direzione, ma le colonne, che pure si sarebbero dovute scorgere anche da lontano, non si vedevano affatto. Nel campo francese - così parve al conte Orlov-Denisov, e soprattutto a un suo aiutante che aveva la vista molto acuta - qualcosa cominciava a muoversi.
«Ah, non c’è nulla da fare, è troppo tardi,» disse il conte Orlov dopo aver guardato ancora verso il campo.
Tutt’a un tratto, come spesso succede quando una persona, alla quale abbiamo creduto, non ci sta più davanti agli occhi, gli parve perfettamente chiaro ed evidente che quel sottufficiale era un impostore, che lo aveva imbrogliato e che questo avrebbe compromesso tutta l’intera offensiva, a causa della mancanza dei due reggimenti che quello avrebbe trascinato chissà dove. Come era possibile catturare il comandante in capo, in mezzo a un simile ammasso di truppe?
«Non c’è dubbio, ci ha mentito, quella canaglia,» esclamò il conte.
«Si fa ancora a tempo a richiamarli indietro,» disse uno del seguito che, non diversamente dal conte Orlov-Denisov, era stato preso da un senso di sfiducia per l’impresa dopo aver osservato il campo francese.
«Ah, così? Non c’è dubbio, vero?… Voi che ne dite, fermarli? Oppure no?»
«Cosa ordinate: farli tornare indietro?»
«Indietro, indietro!» disse, improvvisamente deciso, il conte Orlov, e lanciò un’occhiata all’orologio. «Ma ormai sarà tardi, però: c’è troppa luce!»
L’aiutante galoppò verso la foresta alla ricerca di Grekov. Tornato Grekov, il conte Orlov- Denisov, tutto sossopra sia per quel tentativo interrotto, sia per la vana attesa delle colonne di fanteria che continuavano a non farsi vedere, sia, infine, per la vicinanza del nemico (tutti gli uomini del reparto provavano la stessa sensazione), decise a un tratto di attaccare.
Con un filo di voce comandò: «In sella!» Tutti raggiunsero il proprio posto, si fecero il segno della croce…
«Con l’aiuto di Dio…»
«Urraaaaà!» rimbombò nella foresta; e un drappello dietro l’altro, come traboccando da un sacco, i cosacchi volarono allegri attraverso il torrente, le lance in resta, verso il campo francese.
Un solo grido acutissimo, di terrore - quello del primo francese che aveva avvistato i cosacchi - e tutto ciò che di umano stava nel campo francese, ancora assonnato e seminudo, scappò via dove capitava abbandonando cannoni, fucili, cavalli.
Se i cosacchi si fossero buttati all’inseguimento dei francesi senza badare a ciò che succedeva dietro e intorno a loro, avrebbero catturato lo stesso Murat e tutti i suoi effettivi. Era appunto quel che volevano i comandanti. Ma era impossibile smuovere i cosacchi una volta che avevan messo le mani sul bottino e sui prigionieri. Non c’era più nessuno che desse ascolto ai comandi. Furono catturati sul posto millecinquecento cavalieri, trentotto cannoni, bandiere e, cosa più importante di tutte per i cosacchi, molti cavalli, selle, coperte ed accessori. Era tutta roba che dava da fare, bisognava ordinare i prigionieri e i cannoni, dividere il bottino, urlare, magari azzuffarsi: a tutto questo, appunto, si dedicarono i cosacchi.
Non più inseguiti, i francesi cominciarono a riprendersi, si raggrupparono e presero a far fuoco.
Orlov-Denisov, sempre in attesa delle famose colonne, non si decideva a proseguire l’attacco.
Frattanto, in ossequio al piano di battaglia: « die erste colonne marschirt» ecc., le truppe di fanteria delle colonne in ritardo, che Bennigsen comandava e Toll dirigeva, si misero in marcia secondo quanto stabilito e, come sempre avviene, arrivarono sì da qualche parte, ma non nel posto ch’era stato loro assegnato. Come sempre avviene, i soldati, che si erano messi in marcia allegramente, cominciarono a fermarsi; si diffuse un certo malcontento, una consapevolezza della confusione creatasi; la direzione di marcia fu invertita. Gli aiutanti e i generali arrivavano al galoppo urlando, s’infuriavano, litigavano fra loro; dicevano che non era quello il punto al quale si doveva giungere, che si era in ritardo; ingiuriavano questo e quello; alla fine, tutti fecero un gesto di rassegnazione e ripresero la marcia, pur di arrivare in qualche posto. «In qualche posto si dovrà pur arrivare!» E in effetti ci arrivarono, ma non dove si doveva; alcuni anche dove si doveva, ma talmente in ritardo che non ottennero altro scopo che quello di farsi sparare addosso.
Toll, che in questa battaglia ebbe lo stesso ruolo di Weirother ad Austerlitz, galoppava diligentemente da un punto all’altro, e dappertutto trovava che tutto andava alla rovescia. Galoppò, per esempio, fino al distaccamento di Baggovut, nella foresta, ma quando vi giunse era ormai giorno fatto, e già da un pezzo quegli uomini avrebbero dovuto essere altrove, con Orlov-Denisov. Sconvolto e amareggiato dall’insuccesso, convinto che qualcuno ne portasse la colpa, Toll galoppò dal comandante del corpo e prese a rimproverarlo severamente, dicendo che per questo si sarebbe dovuto fucilarlo. Baggovut, un vecchio generale avvezzo alle battaglie e di temperamento tranquillo, ma stanco anche lui di tutti quei contrattempi, confusione e contraddizioni, con gran stupore di tutti e in modo assolutamente opposto al suo carattere, montò su tutte le furie e investì a sua volta Toll con affermazioni assai spiacevoli.
«Non tollero lezioni da nessuno; quanto a morire con miei soldati, lo so fare, non peggio degli altri,» disse, e mosse in avanti con una delle sue divisioni.
Uscito allo scoperto sotto il tiro dei francesi, lo sconvolto e valoroso Baggovut, senza stare a pensare se fosse utile o meno entrare in azione proprio in quel momento e con una sola divisione, avanzò in linea retta esponendo le sue truppe al fuoco ravvicinato. Il pericolo, le fucilate, le palle di cannone erano esattamente quel che gli ci voleva, nello stato di collera in cui si trovava. Una delle prime fucilate lo uccise. Le successive uccisero molti dei suoi soldati. E la sua divisione rimase esposta al fuoco per un tempo abbastanza lungo senza la minima utilità.