IX

 

Il giorno dopo la rivista, rivestito della sua migliore uniforme e accompagnato dagli auguri di buona fortuna del collega Berg, Boris partì diretto a Olmütz per incontrarvi Bolkonskij; intendeva approfittare della sua benevolenza e ottenere il miglior posto che fosse possibile, meglio di tutto un posto d’aiutante presso un personaggio importante, il che costituiva, nell’esercito, la posizione più ambita. «Rostov, al quale suo padre manda anche diecimila rubli, può anche ragionare in quel modo, sostenere che lui non vuole inchinarsi a nessuno e non si presterà a fare il lacchè di nessuno; ma io non ho altro che la mia testa, e devo fare carriera in qualche modo, non rinunciare alle occasioni, ma approfittarne.»

Quel giorno a Olmütz non trovò il principe Andrej. Ma la vista di Olmütz, dove si trovavano il quartier generale e il corpo diplomatico, e soggiornavano i due imperatori con il loro seguito di cortigiani e di dignitari, non fece che rafforzare il desiderio di Boris di entrare a far parte di quel mondo superiore.

Non conosceva nessuno e, nonostante la sua elegante uniforme della Guardia, tutte quelle persone altolocate che circolavano per le strade in eleganti carrozze cortigiani e militari adorni di pennacchi, nastri e decorazioni, sembravano essere così al di sopra di lui, piccolo ufficiale della Guardia, da non potere e tanto meno ammettere la sua esistenza. Nella residenza del comandante in capo Kutuzov, dove chiese di Bolkonskij, tutti quegli aiutanti di campo e perfino gli attendenti lo guardarono con l’aria di volergli far capire che ufficiali come lui se ne intrufolavano fin troppi ed erano già venuti a noia. Nonostante questo, o piuttosto a causa di questo, il giorno successivo, il quindici, egli tornò a Olmütz ed entrando nell’edificio occupato da Kutuzov, chiese di Bolkonskij. Il principe Andrej c’era, e Boris fu accompagnato in una grande sala che probabilmente una volta tra destinata a feste da ballo ed ora invece era occupata da cinque letti e vari mobili eterogenei: un tavolo, delle seggiole, un clavicembalo. Un aiutante in veste da camera persiana sedeva a un tavolo vicino alla porta e scriveva. Un altro, il rosso e grasso Nesvickij, era sdraiato su un letto con le mani sotto la nuca e rideva in compagnia di un ufficiale che gli stava seduto accanto. Un terzo suonava al clavicembalo un valzer viennese, mentre un quarto, sdraiato, lo accompagnava cantando. Bolkonskij non c’era. Nessuno di quei signori, vedendo Boris, cambiò posizione. Quello che scriveva al quale Boris si era rivolto, si volse infastidito e gli disse che Bolkonskij era di servizio, e che se aveva bisogno di vederlo, doveva entrare dalla porta a sinistra nella stanza d’aspetto. Boris ringraziò e andò nella sala d’aspetto, dove c’erano una decina di ufficiali e di generali.

Nel momento in cui entrò Boris, il principe Andrej, con una contrazione sprezzante della faccia (e quella particolare aria di deferente stanchezza che dice chiaramente: se non fosse mio dovere, non starei a parlare con voi nemmeno per un minuto), ascoltava un vecchio generale russo pieno di decorazioni che gli riferiva qualcosa stando quasi in punta di piedi, tutto rigido, con un’espressione di servile ossequio militaresco sul volto paonazzo.

«Molto bene, vogliate aspettare,» disse al generale in russo, ma con quell’accento francese con cui il principe Andrej parlava quando voleva essere sprezzante; poi, accortosi di Boris, senza più badare al generale (che gli correva appresso con aria supplice, pregando di ascoltarlo), si rivolse a lui sorridendogli lietamente e facendogli un cenno del capo.

In quel momento Boris comprese in modo ancora più chiaro una cosa che pensava anche prima, e cioè che nell’esercito, oltre alla gerarchia e alla disciplina previste dal regolamento e note al reggimento e a lui, c’era un’altra e più essenziale gerarchia; e questa gerarchia obbligava quel generale impettito dal volto paonazzo ad aspettare rispettosamente, mentre il capitano principe Andrej trovava di maggior gradimento chiacchierare con l’alfiere Boris Drubeckoj. Più che mai Boris da quel momento aspirò a poter prestare servizio non secondo la gerarchia scritta nel regolamento, ma secondo quest’altra non scritta. Adesso sentiva che solo per il fatto d’esser stato raccomandato al principe Andrej, all’improvviso s’era trovato più in alto d’un generale, che pure in altre occasioni, al fronte, avrebbe potuto annientare lui, povero alfiere della Guardia.

«Mi dispiace molto che ieri non mi abbiate trovato. Sono stato occupato tutto il giorno con i tedeschi. Siamo andati a verificare le disposizioni insieme con Weirother. Quando i tedeschi si mettono a fare i pedanti, non si finisce più!»

Boris sorrise fingendo di capire le cose di cui il principe Andrej parlava come se fossero state ovvie. Ma era la prima volta che udiva il nome di Weirother, e perfino la parola «disposizioni».

«Dunque, mio caro, volete sempre diventare aiutante di campo? Ho pensato a voi, in questo frattempo.»

«Sì, avevo pensato,» disse Boris arrossendo involontariamente, «di pregare il comandante in capo; egli ha avuto dal principe Kuragin una lettera in cui si parla di me; volevo pregarlo soltanto perché,» soggiunse, come scusandosi, «temo che la Guardia non prenda parte alle operazioni militari.»

«Bene, bene! Parleremo di tutto,» disse il principe Andrej, «permettete soltanto che annunci questo signore, e poi sono tutto vostro.»

Mentre il principe Andrej andava ad annunciare il paonazzo generale, questi, che evidentemente non condivideva le opinioni di Boris sui vantaggi della gerarchia non scritti, teneva costantemente gli occhi fissi sull’insolente alfiere che gli aveva impedito di finire il discorso con l’aiutante; tanto che Boris finì per sentirsi a disagio.

Si volse dall’altra parte e attese con impazienza che il principe Andrej tornasse dallo studio del comandante supremo.

«Ecco che cosa ho pensato per voi,» disse il principe Andrej, quando furono entrati nel salone del clavicembalo. «Dal comandante in capo è inutile che andiate,» spiegò, «lui avrebbe per voi molte espressioni gentili, vi inviterebbe a pranzo («be’, questo non sarebbe male per la mia carriera secondo quell’altra gerarchia,» pensò Boris), ma per voi non verrebbe fuori altro; noi, aiutanti e ufficiali d’ordinanza, saremo presto un battaglione. Ecco invece che cosa faremo: io ho un buon amico, un’ottima persona, l’aiutante di campo principe Dolgorukov; e, sebbene voi possiate ignorarlo, è indubbio che oggi Kutuzov, il suo stato maggiore e noi tutti non contiamo nulla: tutto adesso si concentra nelle mani dello zar. Dunque, andiamo insieme da Dolgorukov, dato che anch’io devo fare una scappata da lui. Gli ho già parlato di voi; vedremo così se lui riuscirà a sistemarvi presso di sé o in qualche altro posto, là, più vicino al sole.»

Il principe Andrej si animava sempre in modo particolare quando dava consigli a un giovane e cercava di aiutarlo a riuscire in società. Con il pretesto di prestare ad altri un aiuto che per orgoglio egli non avrebbe mai accettato per sé, egli infatti si accostava a quella sfera che dava il successo e che lo attirava. Per questo si occupava di buon grado di Boris, e insieme con lui andò dal principe Dolgorukov.

Era già sera inoltrata quando entrarono nel castello di Olmütz, ove erano alloggiati i due imperatori e il loro seguito.

Quello stesso giorno c’era stato un consiglio di guerra al quale avevano partecipato tutti i membri dell’ Hofkriegsrat ed entrambi gli imperatori. Al consiglio, contrariamente all’opinione dei vecchi, cioè di Kutuzov e del principe Schwarzenberg, si era deciso di passare subito all’offensiva e di dare battaglia a Bonaparte in campo aperto. Il consiglio di guerra era appena concluso, quando il principe Andrej accompagnato da Boris arrivò al castello per parlare al principe Dolgorukov. Tutti i personaggi del quartier generale si trovavano ancora sotto l’incanto del consiglio di guerra tenutosi quel giorno e conclusosi con la vittoria della tesi dei giovani. La voce dei temporeggiatori, che consigliavano di attendere ancora chissà che prima di sferrare l’attacco, erano state così soffocate all’unanimità, e i loro argomenti confutati da così indubbie dimostrazioni dei vantaggi dell’offensiva, che ciò di cui si era discusso al consiglio

- la futura battaglia e la certa vittoria - non sembrava nemmeno appartenere all’avvenire, ma al passato. Tutti i vantaggi erano dalla nostra parte. Forze enormi, senza dubbio soverchianti le forze di Napoleone, erano concentrate in un solo punto; il morale delle truppe era alto grazie alla presenza dell’imperatore e i soldati anelavano al combattimento; il punto strategico nel quale occorreva agire era noto fin nei minimi particolari al generale austriaco Weirother, che comandava le nostre truppe (un caso fortunato aveva fatto sì che gli austriaci l’anno prima avessero compiuto le manovre proprio su quegli stessi campi dove ora dovevano battersi con i francesi); la località che stava loro di fronte era nota e rilevata in ogni dettaglio sulle carte topografiche, e Bonaparte, evidentemente incerto, non prendeva nessuna iniziativa.

Dolgorukov, uno dei più ardenti fautori dell’offensiva, era appena tornato dal consiglio, stanco, provato, ma pieno d’animazione e d’orgoglio per la vittoria riportata. Il principe Andrej presentò l’ufficiale suo protetto, ma il principe Dolgorukov, dopo avergli dato una forte e cortese stretta di mano, non disse nulla a Boris, e visibilmente incapace di trattenersi dall’esprimere i pensieri che più d’ogni cosa occupavano in quel momento la sua mente, si rivolse in francese al principe Andrej.

«Ebbene, mio caro, quale battaglia abbiamo sostenuto! Dio voglia che quella che seguirà sia altrettanto vittoriosa. Tuttavia, mio caro,» continuò con voce rotta e animata, «devo riconoscere il mio torto verso gli austriaci e soprattutto verso Weirother. Quale precisione, quale meticolosità, quale conoscenza del terreno, quale capacità di prevedere tutte le evenienze, tutte le condizioni, tutti i minimi particolari! No, mio caro, non si potrebbero immaginare condizioni più vantaggiose di quelle in cui ci troviamo. La precisione degli austriaci unita al valore dei russi: che cosa volete di più?»

«Sicché l’offensiva è proprio decisa?» domandò Bolkonskij.

«Mio caro, mi sembra che Bonaparte abbia proprio perduto la sinderesi. Sapete che oggi è arrivata una sua lettera indirizzata all’imperatore?» E Dolgorukov sorrise in modo significativo.

«Davvero? E che cosa scrive?» domandò Bolkonskij.

«Che cosa può scrivere? Tra la la, tra la la, la solita tiritera al solo scopo di guadagnar tempo. L’abbiamo nelle mani, ve lo dico io: questo è poco ma sicuro! Ma la cosa più divertente,» continuò scoppiando a ridere bonariamente, «è che noi non riuscivamo a escogitare l’indirizzo giusto per rispondergli. Se non al console, e, beninteso, neanche all’imperatore. Dunque al generale Buonaparte.»

«Ma fra il non riconoscerlo come imperatore e il chiamarlo generale Buonaparte c’è una bella differenza,»

disse Bolkonskij.

«Qui sta il punto,» rispose prontamente Dolgorukov, ridendo e interrompendolo. «Voi conoscete Bilibin: è un uomo molto intelligente. Ebbene, lui ha proposto di indirizzarla “all’usurpatore e nemico del genere umano”.»

E Dolgorukov scoppiò in un’allegra risata.

«Appena?» commentò Bolkonskij.

«Alla fine Bilibin ha trovato una formula seria per indirizzare la lettera. È un uomo spiritoso, intelligente.»

«E cioè?»

«Al capo del governo francese, au chef du gouvernement français,» disse serio e soddisfatto il principe Dolgorukov. «Ben trovata, no?»

«Sì, ma non credo che l’apprezzerà molto,» osservò Bolkonskij.

«Oh, moltissimo anzi! Mio fratello lo conosce: ha pranzato più d’una volta da lui, dall’attuale imperatore, a Parigi, e mi ha detto di non aver mai conosciuto un diplomatico più raffinato e più astuto. Una mescolanza di destrezza francese e di gigioneria italiana! Conoscete le sue storielle sul conte Markov? Il conte Markov era l’unico che sapesse trattare con lui. Conoscete la storia del fazzoletto? È straordinaria!»

E il loquace Dolgorukov, rivolgendosi ora a Boris, ora al principe Andrej, raccontò che una volta Bonaparte, per mettere alla prova il nostro ambasciatore Markov, lasciò cadere il fazzoletto davanti a lui e poi si fermò, guardandolo e probabilmente attendendosi da lui un atto di ossequio. Allora Markov, da parte sua, lasciò cadere il suo fazzoletto lì vicino e poi raccolse il suo senza raccogliere quello di Bonaparte.»

« Charmant,» disse Bolkonskij. «Ma ecco, principe, ero venuto da voi in veste di postulante per questo giovanotto. Vedete un po’ se…»

Ma il principe Andrej non riuscì a terminare la frase perché nella stanza entrò un aiutante che convocava il principe Dolgorukov dall’imperatore.

«Ah, che disdetta!» disse Dolgorukov alzandosi in fretta e stringendo le mani del principe Andrej e di Boris.

«Ad ogni modo sarò ben lieto di fare tutto ciò che dipende da me, per voi e per questo simpatico giovane.» Strinse ancora una volta la mano di Boris con un’espressione di bonaria, sincera e animata spensieratezza. «Ma vedete bene…»

disse, «un’altra volta!»

Il pensiero di essere in quel momento così vicino al potere supremo, agitava Boris. Sentiva di trovarsi a contatto con le molle che guidavano tutti quegli enormi movimenti di masse di cui lui, nel suo reggimento, era solo una piccola, docile e insignificante particella. Si avviarono nel corridoio dietro il principe Dolgorukov e incontrarono, mentre usciva dalla stessa porta della stanza dell’imperatore nella quale prima era entrato già Dolgorukov, un uomo in borghese di bassa statura, con un viso intelligente e i tratti accentuati della mascella sporgente in avanti: cosa che, anziché imbruttirlo, gli conferiva una particolare vivezza e mobilità espressiva. Quell’uomo salutò Dolgorukov come si saluta un intimo, e con uno sguardo acuto e gelido scrutò il principe Andrej, mentre camminava dritto verso di lui, palesemente aspettandosi che il principe Andrej gli si inchinasse o gli cedesse il passo. Il principe Andrej non fece né l’una né l’altra cosa; sul viso di quello apparve la stizza, mentre il giovane, voltatosi dall’altra parte, passava lungo la parete del corridoio.

«Chi e» domandò Boris.

«È uno dei personaggi più ragguardevoli del nostro tempo, ma a me più antipatici. È il ministro degli esteri, il conte Adam Czartorizski. Sono questi gli uomini che decidono del destino dei popoli,» disse Bolkonskij senza poter reprimere un sospiro, mentre insieme uscivano dal palazzo.

Il giorno dopo le truppe si misero in marcia. Fino alla battaglia di Austerlitz, Boris non riuscì più a rivedere né Bolkonskij né Dolgorukov, e per un certo tempo dovette restare ancora al reggimento di lzmajl.

X

All’alba del 16 novembre lo squadrone di Denisov, in cui prestava servizio Nikolaj Rostov e che faceva parte del distaccamento del principe Bagration, lasciò il luogo di pernottamento per entrare in azione come si diceva, e, percorso circa un miglio dietro altre colonne, ebbe l’ordine di fermarsi sulla strada maestra. Rostov vide sfilare davanti a sé i cosacchi, il I e il II squadrone degli ussari, battaglioni di fanteria con l’artiglieria, e transitare a cavallo i generali Bagration e Dolgorukov con i loro aiutanti di campo. La paura che, come già in precedenza, aveva provato prima della battaglia; la lotta interiore grazie alla quale aveva superato questa paura; tutti i suoi sogni sugli atti di valore per mezzo dei quali, da vero ussaro, si sarebbe distinto nella battaglia, erano stati inutili. Il loro squadrone fu lasciato di riserva e Nikolaj Rostov trascorse quelle ore in preda alla noia e allo sconforto. Alle nove del mattino udì davanti a sé un suono di fucilate e grida di «urrà!»; vide i feriti (non molti) che venivano trasportati indietro e, infine, vide un intero reparto di cavalieri francesi condotto in mezzo a una sotnja di cosacchi. Evidentemente il combattimento era finito, ed era stato un combattimento poco importante, ma dall’esito felice. I soldati e gli ufficiali che passavano di ritorno, raccontavano di una brillante vittoria, della presa della città di Wischau e della cattura di un intero squadrone francese. La giornata era serena, solatia, dopo la forte gelata notturna, e l’allegro splendore d’autunno concordava con la notizia della vittoria, testimoniata non soltanto dai racconti di chi vi aveva partecipato, ma anche dall’espressione gioiosa dei soldati, degli ufficiali, dei generali e degli aiutanti che passavano avanti e indietro accanto a Rostov. Tanto più, dunque, Nikolaj aveva il cuore stretto, poiché aveva inutilmente sofferto la paura che precede la battaglia e aveva passato quella brillante giornata nell’inazione.

«Vostov, vieni qui, beviamo pev ammazzave il dispiaceve!» gridò Denisov, che sedeva sul margine della strada davanti a una fiasca e a uno spuntino.

Gli ufficiali fecero gruppo intorno a Denisov, mangiando e chiacchierando.

«Ecco che ne portano ancora uno!» disse uno degli ufficiali, indicando un prigioniero, un dragone francese appiedato, condotto da due cosacchi.

Uno di costoro reggeva per la briglia il grande cavallo francese del prigioniero, un bellissimo animale.

«Vendimi il cavallo!» gridò Denisov al cosacco.

«Se volete, vossignoria…»

Gli ufficiali si alzarono, circondando i cosacchi e il prigioniero francese. Il dragone era un giovane alsaziano, che parlava francese con accento tedesco. Ansimava per l’emozione, la sua faccia era rossa e, udendo parlare francese, si mise a conversare rapidamente con gli ufficiali, rivolgendosi ora all’uno ora all’altro. Diceva che non l’avrebbero mai catturato; che non era colpa sua se era stato preso, la colpa era tutta del caporal, che lo aveva mandato a prendere delle gualdrappe; e che lui gliel’aveva anche detto che là c’erano già i russi. E ad ogni parola egli aggiungeva: « mais qu’on ne fasse pas de mal à mon petit cheval,» e accarezzava il suo cavallo. Si vedeva che non capiva bene dove fosse. Ora si scusava per il fatto che l’avevano preso; ora, come se fosse stato al cospetto dei suoi superiori, dimostrava la sua correttezza di soldato e la sua diligenza in servizio. Recava con sé, nella nostra retroguardia, quell’atmosfera di freschezza e di spontaneità dell’esercito francese, che a noi era così estranea.

I cosacchi vendevano il cavallo per due ducati, e Rostov, che adesso, dopo aver ricevuto i denari da casa, era il più ricco degli ufficiali, lo comperò.

« Mais qu’on ne fasse pas de mal à mon petit cheval,» disse bonariamente l’alsaziano a Rostov, quando il cavallo fu consegnato all’ussaro.

Rostov tranquillizzò il dragone sorridendo e gli diede dei soldi.

« Alè, alè! » disse il cosacco, toccando il braccio del prigioniero perché proseguisse.

«L’imperatore! L’imperatore!» si udì esclamare a un tratto fra gli ussari.

Tutti si misero in agitazione, affrettandosi qua e là; e Rostov vide da lontano sulla strada alcuni cavalieri che si avvicinavano con bianchi pennacchi sui cappelli. In un istante tutti furono ai loro posti, in attesa.

Rostov non si avvide di correre fino al suo posto e di balzare a cavallo. Il suo rimpianto per non aver preso parte all’azione, il suo ordinario stato d’animo verso quella cerchia di persone che conosceva così bene, svanirono di colpo; di colpo egli fu dimentico di sé: era dominato da un sentimento di felicità che gli veniva dalla vicinanza dell’imperatore, e da quella vicinanza si sentiva ricompensato per la perdita di quella giornata. Era felice come un amante che non deve più attendere il tanto atteso convegno. Non osando guardarsi attorno lungo lo schieramento, e non facendolo, presentiva però, inebriato, il suo avvicinarsi. E non lo avvertiva soltanto dal rumore degli zoccoli della cavalcata che si avvicinava, ma anche dal fatto che, a mano a mano che essa si avvicinava, tutto intorno a lui si faceva più luminoso, più esultante, più significativo e festoso. Colui che per Rostov era un sole, un sole che diffondeva intorno a sé i raggi di una luce dolce e grandiosa, si avvicinava, si avvicinava sempre più. Ed ecco, egli già si sentiva avvolto da quei raggi; già udiva la sua voce: quella voce così affettuosa, tranquilla, maestosa e nello stesso tempo così semplice.

Come appunto doveva accadere secondo i sentimenti di Rostov, sopravvenne un mortale silenzio e in questo silenzio risuonò la voce dell’imperatore.

« Les hussards de Pavlograd? » domandò egli.

« La réserve, sire! » rispose una voce, troppo umana, dopo quella voce sovrumana che aveva proferito: « Les hussards de Pavlograd? »

L’imperatore giunse all’altezza di Rostov e si fermò. Il viso di Alessandro era ancor più bello che alla rivista di tre giorni prima. Raggiava di tanta letizia e giovinezza, di tanta innocente giovinezza, da ricordare la vivacità ancora infantile dei quattordici anni; ma, nello stesso tempo, era il volto maestoso di un imperatore. Mentre guardava distrattamente lo squadrone, gli occhi dell’imperatore si incrociarono con gli occhi di Rostov e, per non più di un paio di secondi, si posarono su di essi. Aveva intuito, l’imperatore, ciò che accadeva nell’anima di Rostov (a Rostov parve che egli avesse capito tutto)? In ogni caso egli con i suoi occhi azzurri fissò Rostov per un istante. (Ne fluiva una luce dolce e mansueta.) Poi all’improvviso sollevò le sopracciglia, con un gesto brusco del piede sinistro spronò il suo cavallo e si allontanò al galoppo.

Il giovane imperatore non aveva saputo frenare il desiderio di assistere al combattimento, e nonostante le esortazioni del seguito, a mezzogiorno, staccandosi dalla terza colonna con la quale procedeva, aveva galoppato verso l’avanguardia. Prima ancora che raggiungesse gli ussari, da alcuni aiutanti di campo aveva appreso la notizia del felice esito dello scontro.

Il combattimento, che era consistito soltanto nella cattura di uno squadrone nemico, fu presentato come una brillante vittoria sui francesi e perciò l’imperatore e tutta l’armata, specie fin quando il fumo della polvere non si fu dissolto sul campo di battaglia, credettero che i francesi, sconfitti, fossero stati costretti a ritirarsi. Pochi minuti dopo il passaggio dello zar, alcuni squadroni del reggimento di Pavlograd ebbero l’ordine di avanzare. A Wischau, una piccola cittadina tedesca, Rostov vide ancora una volta l’imperatore. Sulla piazza della cittadina, dove prima dell’arrivo del sovrano c’era stato uno scambio di fucilate abbastanza nutrito, giacevano morti e feriti che ancora non si era riusciti a raccogliere. L’imperatore, circondato da un seguito di militari e di civili, cavalcava una cavallina saura inglese (non la stessa, però, che aveva cavalcato alla rivista) e chinandosi da una parte, reggendo con un gesto grazioso l’occhialino d’oro, guardava attraverso la lente un soldato che giaceva bocconi, senza chepì, il capo insanguinato. Il soldato ferito era così sudicio, volgare e ripugnante, che Rostov si sentì urtato per quella sua vicinanza all’imperatore. Rostov vide le spalle un po’ curve dell’imperatore trasalire come per un brivido di freddo e cominciò a fremere convulsamente con lo sperone contro il fianco del cavallo mentre questo, abituato a quello stimolo, si guardava attorno indifferente, senza muoversi. Un aiutante di campo smontò da cavallo, prese il soldato sotto le ascelle e si accinse a deporlo su una barella che sopraggiungeva in quel momento. Il soldato emise un gemito.

«Adagio, adagio, non si può fare più adagio?» esclamò il sovrano, evidentemente soffrendo più di quel soldato moribondo; e si allontanò.

Rostov vide le lacrime che gli colmavano gli occhi e, mentre si allontanava, lo udì che diceva in francese a Czartorizski:

«Che cosa orribile è la guerra, che cosa orribile! Quelle terrible chose que la guerre! »

Le truppe dell’avanguardia si disposero davanti a Wischau, in vista degli avamposti nemici che durante tutta la giornata continuarono a cedere progressivamente terreno a ogni minima sparatoria. All’avanguardia fu annunciato il compiacimento dell’imperatore, promesse ricompense, e agli uomini venne distribuita doppia porzione di vodka. I fuochi dei bivacchi crepitarono ancor più allegri della notte prima ed echeggiavano le canzoni dei soldati. Denisov quella notte festeggiò la sua promozione a maggiore, e Rostov, già piuttosto brillo, verso la fine del banchetto propose un brindisi alla salute dell’imperatore: non «di sua maestà l’imperatore, come si dice ai pranzi ufficiali», esclamò, «bensì alla salute del sovrano come uomo buono, grande, straordinario; beviamo alla sua salute e alla sicura vittoria sui francesi!»

«Se ci siamo battuti bene prima,» disse, «e non abbiamo dato requie ai francesi, come sotto Schöngraben, che cosa faremo adesso che lui è alla nostra testa? Moriremo tutti, con gioia, moriremo per lui. Non è così, signori? Forse non parlo come dovrei, ho bevuto molto; ma io sento così; e voi pure. Alla salute di Alessandro I! Urrà!»

«Urrà!» echeggiarono le voci infervorate degli ufficiali. Anche il vecchio capitano Kirsten gridò, esaltato e con impeto non meno sincero di quello del ventenne Rostov.

Quando gli ufficiali ebbero bevuto e spaccato i loro bicchieri, Kirsten ne riempì degli altri; in maniche di camicia e pantaloni da cavallerizzo, reggendo in mano il bicchiere, si avvicinò ai falò dei soldati e in un atteggiamento solenne, levando in alto un braccio, con i suoi lunghi baffi grigi, il torace bianco che si scorgeva sotto la camicia aperta, si fermò alla luce del fuoco.

«Ragazzi, alla salute di sua maestà l’imperatore, alla vittoria sui nemici. Urrà!» gridò con la sua baldanzosa voce baritonale da vecchio ussaro.

Gli ussari che gli si erano raccolti intorno risposero concordi con un grido sonoro.

A tarda notte, quando tutti si furono ritirati, Denisov batté con la sua piccola mano sulle spalle del suo beniamino Rostov.

«Siccome in guevva non c’è di chi innamovavsi, ecco che lui s’è innamovato dello zav,» disse.

«Denisov, su questo non ci scherzare,» gridò Rostov, «è un sentimento così elevato, così bello, così…»

«Ci cvedo, ci cvedo, mio cavo; lo condivido e lo appvovo…»

«No, non lo capisci!»

E Rostov si alzò e andò a vagare tra i falò, sognando quale felicità sarebbe stata morire, e non per salvare la vita dell’imperatore (questo non osava neppure sognarlo), ma semplicemente morire sotto i suoi occhi. Era veramente innamorato dello zar, della gloria delle armi russe, della speranza del futuro trionfo. E non era il solo a provare questo sentimento, in quelle memorabili giornate che precedettero la battaglia di Austerlitz: i nove decimi degli uomini dell’armata russa in quel momento erano innamorati (sia pure in modo meno entusiastico) del loro zar e della gloria delle armi russe.

Guerra e Pace
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