XII
I Rostov rimasero in città fino al 1° settembre, ossia fino alla vigilia dell’entrata del nemico in Mosca.
Da che Petja, entrato nel reggimento dei cosacchi di Obolenskij, era partito per Belaja Cerkov’, dove si formava il suo reggimento, la contessa era in preda a terribili timori. Il pensiero che tutt’e due i suoi figli si trovassero in guerra, che tutt’e due non fossero più sotto la sua protezione, che oggi o domani uno di loro e forse anche tutt’e due insieme, come i tre figli di una sua conoscente, potessero venir uccisi, per la prima volta in quell’estate le si presentò alla mente con atroce chiarezza. Tentò di far tornare Nikolaj; avrebbe voluto andare di persona da Petja, sistemarlo in qualche posto a Pietroburgo, ma l’una e l’altra cosa si dimostrarono impossibili. Petja non poteva ritornare se non insieme al suo reggimento o in seguito al trasferimento in un altro reggimento operante. Nikolaj si trovava chissà dove nell’esercito e, dopo l’ultima lettera in cui aveva dettagliatamente descritto il suo incontro con la principessina Marija, non aveva più dato notizie di sé. La contessa passava notti intere senza dormire e, quando si assopiva, sognava morti i suoi figli. Dopo molti progetti e discorsi, il conte trovò finalmente un mezzo per tranquillizzare la contessa. Fece trasferire Petja dal reggimento di Obolenskij al reggimento di Bezuchov, che si stava formando presso Mosca. Petja restava in servizio, ma così la contessa aveva almeno la consolazione di avere uno dei suoi figli non lontano da lei e poteva sperare di sistemare il suo Petja in modo da non lasciarselo più scappare e di farlo assegnare sempre a posti tali che non dovesse mai prendere parte a una battaglia. Finché il solo Nicolas era in pericolo, alla contessa sembrava (e anzi ne provava persino rimorso) di voler bene al maggiore più che agli altri figli; ma quando il minore, Petja, il birichino che studiava poco, che in casa rompeva tutto e disturbava tutti, quel nasino schiacciato di Petja con i suoi allegri occhi neri, con il suo fresco colorito e le gote appena ricoperte di peluria, era andato a finire laggiù, fra quegli uomini grandi, terribili e crudeli, che laggiù chissà perché combattevano e ci trovavano perfino piacere - alla madre parve allora di amare lui di più, molto di più degli altri suoi figli. Quanto più si avvicinava il momento del ritorno a Mosca dell’atteso Petja, tanto più aumentava l’inquietudine della contessa. Già pensava che non le sarebbe mai toccato di godere di tanta felicità. La presenza non solo di Sonja, ma dell’amata Nataša, e persino quella del marito, la irritavano. «Che me ne importa di loro, non mi interessa nessuno all’infuori di Petja!» pensava.
Negli ultimi giorni di agosto i Rostov ricevettero una seconda lettera da Nikolaj. Scriveva dalla provincia di Voronež, dove era stato mandato a comprare dei cavalli. Questa lettera non tranquillizzò la contessa. Sapendo uno dei suoi figli fuori pericolo, cominciò a preoccuparsi ancora di più per Petja.
Sebbene già dal 20 agosto quasi tutti i conoscenti dei Rostov fossero partiti da Mosca, sebbene tutti esortassero la contessa a partire al più presto, lei non voleva sentir parlare di partenza finché non fosse tornato il suo tesoro, l’adorato Petja. Il 28 agosto Petja arrivò. La morbosa, appassionata tenerezza con la quale la madre lo accolse, non piacque all’ufficiale sedicenne. Benché la madre gli nascondesse la sua intenzione di non lasciarlo più sfuggire di sotto le sue ali, Petja capì il suo piano e, temendo istintivamente di intenerirsi, di diventare una femminuccia (così diceva tra sé) accanto alla madre, con lei si comportava freddamente, la evitava e, durante la sua permanenza a Mosca, accettò esclusivamente la compagnia di Nataša, per la quale aveva sempre avuto una particolare tenerezza fraterna, quasi da innamorato.
A causa dell’abituale leggerezza del conte, il 28 agosto nulla era ancora pronto per la partenza e i carri attesi dalle compagne di Rjazan e di Mosca per trasportare tutta la roba di casa, arrivarono solamente il 30.
Dal 28 al 31 agosto tutta Mosca fu in subbuglio e in movimento. Ogni giorno, attraverso la Barriera Dorogomilovskaja entravano in città migliaia di feriti della battaglia di Borodino, mentre migliaia di carri, con gli abitanti e i loro averi, uscivano dalle altre barriere. Nonostante i manifesti di Rastopèin, o indipendentemente da essi o in seguito a essi, per la città si diffondevano le notizie più strane e contraddittorie. Chi diceva che a nessuno era permesso partire; chi, al contrario, raccontava che si erano tolte le icone dalle chiese e che tutti venivano mandati via con la forza; chi diceva che dopo Borodino c’era stata un’altra battaglia in cui i francesi erano stati sbaragliati; chi diceva, al contrario, che tutto l’esercito russo era stato annientato; chi parlava della milizia moscovita, che sarebbe andata alle Tri Gory con il clero in testa; chi raccontava sottovoce che ad Avgustin era stato dato l’ordine di non partire, che erano stati arrestati dei traditori, che i contadini si ribellavano e depredavano quelli che partivano, e così via… Ma erano solamente voci, dicerie; in realtà sia quelli che partivano, sia quelli che restavano (sebbene non si fosse ancora tenuto il consiglio di guerra di Fili in cui era stato deciso di abbandonare Mosca), tutti sentivano, anche se non lo davano a vedere, che Mosca sarebbe stata inevitabilmente abbandonata e che bisognava andarsene via al più presto di propria iniziativa e cercare di salvare le proprie cose. Si sentiva nell’aria che tutto, da un momento all’altro, sarebbe andato in pezzi e sarebbe mutato radicalmente, ma fino al I° settembre nulla ancora era cambiato. Come un criminale che viene condotto all’esecuzione cosciente di dover morire da un momento all’altro e che pure continua a guardarsi attorno e si assesta sul capo il berretto calzato male, così Mosca continuava la sua vita di sempre, malgrado sapesse che era prossimo il momento della rovina, il momento in cui sarebbero crollate tutte quelle convenzionali condizioni di vita che ci si era abituati ad accettare.
Durante i tre giorni che precedettero l’occupazione di Mosca tutta la famiglia dei Rostov fu completamente assorbita da mille faccende domestiche. Il capo famiglia, il conte Il’ja Andreiè, correva senza posa per città, raccogliendo tutte le voci che circolavano, e a casa dava disposizioni generiche, superficiali e frettolose per i preparativi della partenza.
La contessa seguiva l’imballaggio delle masserizie, era scontenta di tutto e sorvegliava Petja che continuamente le scappava via, assai gelosa di Nataša con cui quello trascorreva tutto il tempo. Solamente Sonja si occupava delle cose pratiche: l’imballaggio della roba. Ma Sonja era particolarmente triste e taciturna in quel periodo. La lettera di Nicolas, nella quale egli parlava della principessina Marija, aveva suscitato in sua presenza le allegre riflessioni della contessa che, nell’incontro della principessina Marija con Nicolas, vedeva la mano di Dio.
«Non mi sono mai rallegrata,» diceva la contessa, «quando Bolkonskij era il fidanzato di Nataša; mentre ho il presentimento che Nikolinka sposerà la principessina, come ho sempre desiderato. Che bella cosa sarebbe!»
Sonja sentiva che era la verità, che l’unica possibilità di rimettere in sesto la situazione economica dei Rostov era il matrimonio con una ragazza ricca e che la principessina era un buon partito. Ma soffriva moltissimo. Malgrado il suo dolore, o forse proprio in conseguenza del suo dolore, si assunse tutte le pesanti incombenze della direzione dell’imballaggio, ed era occupata da mattina a sera. Il conte e la contessa si rivolgevano a lei quando bisognava dare degli ordini. Petja e Nataša, al contrario, non soltanto non aiutavano i genitori, ma continuavano a disturbare e infastidire tutti. Riempivano la casa di grida, di chiasso, e di risate senza motivo. Ridevano ed erano allegri non perché ci fosse una precisa ragione, ma perché erano pieni, nell’intimo, di felicità e di gioia, e perciò, qualunque occasione si presentasse, era per loro motivo di gioia e di riso. Petja era allegro perché, partito di casa ragazzo, c’era tornato (come gli dicevano tutti) da giovane valoroso; era allegro, perché si trovava a casa, perché da Belaja Cerkov’, dove non c’era speranza di capitar presto in mezzo ai combattimenti, era venuto invece a Mosca dove non avrebbe tardato a battersi; ed era allegro soprattutto, perché Nataša, dal cui umore era sempre stato influenzato, era allegra. E Nataša era allegra perché per troppo tempo era stata triste e adesso nulla le ricordava il motivo della sua tristezza; e poi stava bene di salute. E ancora era allegra, perché c’era una persona che l’ammirava (l’ammirazione entusiastica degli altri era quel grasso alle ruote, indispensabile perché la macchina della sua vita si movesse del tutto liberamente), e Petja appunto l’ammirava. Ma soprattutto erano allegri perché la guerra era sotto Mosca, perché si andava a battersi sui bastioni, perché distribuivano le armi, perché tutti scappavano, partivano per chissà dove, perché, in genere, succedeva qualcosa di insolito, il che per gli uomini è sempre motivo di gioia, specialmente per i giovani.